La Stampa 23.9.18
L’onnipresenza delle fotografie sta spegnendo la nostra immaginazione
Lo
scatto Raising the Flag on Iwo Jima di Joe Rosenthal, diventata uno dei
simboli dello scontro tra Stati Uniti e Giappone nella Seconda guerra
mondiale. Per molti anni è stata criticata per sembrare “finta”, ma è
stata scattata proprio nei giorni della conquista
Intervista allo psicoanalista Luigi Zoja, autore del libro “Vedere il vero e il falso” sulla manipolazione delle immagini
“La
fotografia riassume tanto la verità quanto il suo tradimento”, scrive
Luigi Zoja - psicoanalista, saggista e grande osservatore del mondo
della comunicazione - nel suo ultimo libro Vedere il vero e il falso
appena pubblicato da Einaudi (136 pagine, 12€; presentato oggi a
Pordenonelegge). Perché le immagini vivono con una condanna intrinseca:
essere immediate ma allo stesso tempo facilmente fraintendibili. O
manipolabili. Nel suo saggio, “un libro sulla fotografia, non di
fotografia”, Zoja sfida il lettore a sapere oltre che a vedere. Lo fa
attraverso l’analisi delle immagini-icona del XX secolo, quattro legate
alla guerra e quattro che vedono protagonisti dei bambini in conflitti o
tragedie umanitarie. Uno studio puntuale, ricco, coinvolgente.
Soprattutto: una lettura necessaria per chi non vuole subire il ciclone
delle immagini che ci circondano.
Nell’epoca delle fake news, il libro sembra uscire nel momento giusto. Da cosa nasce questo suo saggio?
«Ammetto
che ci avevo pensato prima dell’arrivo di Trump. Avevo iniziato a
raccogliere materiali durante la scrittura di Paranoia (Bollati
Boringheri, 2011). Lavoravo al tema delle alterazioni dei messaggi nei
mezzi di comunicazione, analizzando alcune fotografie note per capire i
gradi di manipolazione che avevano subito».
C’è la famosa
fotografia di Robert Capa sulla morte del miliziano, la fotografia dei
soldati americani che issano la bandiera a Iwo Jima, e quella dei
sovietici sopra il Reichstag. Come le ha scelte?
»Ho selezionato
quattro immagini di guerra e quattro che ritraggono dei bambini,
cercando una simmetria tra dramma e speranza. Le fotografie della guerra
sono quattro immagini iconiche, ma tutte in qualche modo vittima di
manipolazione. Molte foto che noi crediamo istantanee di momenti
irripetibili, in realtà sono ricostruzioni fatte in un secondo momento.
Buona e mala fede si sovrappongono, a volte trasformando l’immagine in
propaganda».
Il fotoritocco esiste da molto prima di Photoshop,
insomma. Quand’è che la fotografia ha smesso di essere uno strumento di
verità e ha iniziato a essere manipolata?
«La fotografia si è
presentata al mondo come un modo per mostrare la realtà in maniera
immediata. Per la prima volta si poteva fotografare una battaglia mentre
era in corso, mentre prima veniva dipinta e gli artisti dovevano
aspettare la fine dello scontro. Se non altro per capire chi avesse
vinto. Ma la manipolazione c’è sempre stata anche nelle foto. Fin dai
tempi della Guerra di secessione: per scattare erano ancora necessari
lunghi tempi di esposizione quindi le scene erano ricreate, sposando
soldati e persino cadaveri».
Perché nel libro ha scelto solo immagini del XX secolo?
«Ci
sono due ragioni principali. La prima: ho scelto di limitare il campo
di studio, come si deve fare quando si affronta un lavoro di ricerca. La
seconda: credo sia giusto dare alle nuove generazioni un senso della
storia, mostrando loro delle immagini che raccontano un periodo che loro
non dovrebbero dimenticare».
Sceglie anche di non mostrare immagini di morte, come mai?
«È
vero, nel libro non ci sono immagini che ritraggono vittime e morti.
Siamo bombardati da immagini sempre più violente, ma credo che sia
necessario un rispetto maggiore per la morte. Lo stesso rispetto che
avevano gli antichi: bisogna parlarne, ma non mostrarla direttamente».
Scattiamo
più immagini di quante ne possiamo vedere, ne vediamo più di quante
possiamo ricordare. Subiamo spesso i messaggi di fotografie manipolate o
false. Eppure dopo due secoli dall’arrivo della fotografia dovremmo
essere più educati a questo linguaggio. Perché non è così?
«Oggi
c’è una vera bulimia dell’immagine. Il consumismo ha trasformato anche
il mondo delle immagini: il pubblico sceglie l’immagine più godibile,
come scriveva Susan Sontag. E facendo così c’è una costante inflazione,
cerchiamo immagini sempre più shockanti. L’onnipresenza delle immagini
ci abitua a chiedere sempre di più: nel campo dell’informazione, dei
rapporti sociali e d’amore, e anche nella religione».
A cosa può portare questa deriva?
«Sempre
di più la nostra immaginazione si sta impoverendo. Quando abbiamo così
tanti stimoli che vengono dall’esterno, non sappiamo crearne noi
dall’interno. Dobbiamo tornare ad allenare la nostra immaginazione. Da
psicoanalista, io uso uno strumento tecnico molto prezioso:
l’’immaginazione attiva, di origine junghiana: bisogna prendere
un’immagine fissa e concentrarsi su di essa finché non si muove, finché
la nostra fantasia riesce a darle un’azione. E se ci impegniamo davvero
l’immagine si muove. Ma è sempre più difficile, soprattutto per i più
giovani».
Cosa possiamo fare per non essere vittima delle immagini, ma riuscirle a capire e apprezzare? Quali altri strumenti abbiamo?
«Ritorno
sul concetto di limite, tanto caro agli antichi greci. C’è una tendenza
sempre più forte ad abolire tutti i limiti. E invece i limiti sono
necessari. Servono a evitare l’indigestione e la nausea. Un sommelier
non può assaggiare 50 vini in una sola serata. Noi dobbiamo guardare di
meno e guardare meglio. Conoscere e non solo vedere ciò che ci circonda e
ci si presenta davanti».