il manifesto 23.9.18
Roosevelt non fu una isolata eccezione
Storia.
Responsabile dell’unica risposta democratica alla crisi, il «New Deal»
viene inscritto dallo storico anglo-tedesco Kiran Klaus Patel nel
ventaglio delle politiche di intervento di vari governi europei
dell’epoca: da Einaudi
Jacob Getlar Smith, Snow Shovellers, 1934
di Francesco Benigno
La
grande depressione che venne avviata nel 1929 dal crollo della borsa di
New York e che sconvolse in profondità la società statunitense, creando
enormi masse di disoccupati, di senzatetto, di sbandati, si propagò
rapidamente come un’onda tellurica, peggiorando ovunque le condizioni di
vita e producendo devastanti contraccolpi politici, come in Germania,
dove fu uno dei fattori che condussero all’instaurarsi del regime
nazista. Soprattutto, questa sorta di tsunami planetario finì per
offuscare quel concetto-base della modernità che era stato il progresso:
l’idea che il futuro sarebbe stato migliore del presente, proprio come
il presente era stato migliore del passato.
La società americana
seppe tuttavia reagire grazie a una politica di interventi statali
promossa a partire dal 1932 dal presidente Franklin Delano Roosevelt,
una vicenda ora ripercorsa nell’importante volume dello storico
anglo-tedesco Kiran Klaus Patel, appena uscito da Einaudi con il titolo
Il New Deal Una storia globale (pp. XVIII-534, euro 34,00) dove si
dimostra come alle spalle ci fosse una congiuntura mondiale più che
costanti inscritte nella storia americana.
Esempio degli agricoltori
Giustamente
celebrato per aver costituito l’unica vera risposta democratica alla
crisi, il New Deal appare dalle pagine di Patel non un’eccezione, ma una
variante nel ventaglio delle politiche di intervento adottate dai vari
governi dell’epoca. Questo non vuol dire sminuire il valore di
un’esperienza che Roosevelt seppe tenere ben all’interno del sistema
liberal-democratico, ma sottolineare similitudini e differenze delle
strategie promosse dai New Dealers non solo con quelle attuate da regimi
socialdemocratici nel Nord Europa – la Svezia divenne presto un mito,
prima negli Usa e poi nel mondo – ma anche con quelle messe in capo dai
regimi autoritari e/o totalitari in Germania, nell’Unione Sovietica e in
Italia.
Una strada davvero originale fu intrapresa, per fare un
esempio, nel dare sostegno agli agricoltori, penalizzati dall’eccesso di
produzione, punto nodale della crisi. Malgrado una conferenza economica
internazionale avesse già nel 1927 segnalato ai governi come la
soluzione al problema delle eccedenze non consistesse in un aumento
delle tariffe, la risposta generale fu proprio quella del protezionismo
agrario.
Se le dittature puntarono sull’autarchia agricola (il
fascismo ad esempio aveva già sviluppato da anni la sua «battaglia del
grano») anche paesi liberal-democratici come l’Australia, si
acconciarono a puntare sull’autosufficienza, lanciando nel 1930 la
campagna Grow more wheat, produci più grano. Anche Roosevelt seguì il
generale orientamento protezionista, ma poi, una volta erette le
barriere dei dazi, scelse «una strada nuova e inesplorata», quella di
sovvenzionare i produttori che avessero accettato di cessare la
produzione e di eliminare il bestiame in eccesso.
Anche sull’altro
fronte sensibile della crisi, quello della crisi bancaria indotta dal
problema dei debiti internazionali e dal tracollo del sistema aureo
internazionale, la soluzione statunitense, quella
dell’universalizzazione dell’intervento statale, ebbe precisi paralleli
nelle esperienze di altre parti del mondo. Più in generale fu comune la
tendenza a puntare su un massiccio intervento pubblico, che prese forme
diverse – un arco di misure che vanno dall’intervento emergenziale della
mano pubblica ai piani quinquennali staliniani e quadriennali nazisti –
ma che comportarono in ogni caso lo stravolgimento delle regole
classiche dell’economia di mercato. Nel campo delle politiche
industriali, ad esempio, gli Stati Uniti realizzarono un’inversione di
rotta completa rispetto all’epoca precedente, caratterizzata dal
liberismo e dalla legislazione anti-trust. Con gli anni Trenta si
affermava invece una nuova tendenza alla istituzionalizzazione dei
cartelle e alla partecipazione pubblica al sistema industriale;
un’osmosi ben rappresentata dal simbolo della Nra (National Recovery
Administration) l’agenzia statale dedita al salvataggio aziendale:
un’aquila blu che artiglia con la sua zampa una ruota (l’industria) e
con l’altra una saetta (il potere). Ancora una volta le esperienze messe
in campo dal fascismo (dall’Iri all’Eni) furono assai simili, come
Mussolini non mancò di far notare: Roosevelt stesso, del resto, e molti
New Dealers con lui, rivolsero uno sguardo attento, e in privato
condiscendente, verso le esperienze fasciste, almeno fino al 1935; anche
le strategie di welfare naziste vennero attentamente scrutinate e il
piano statunitense per l’impiego della gioventù, ad esempio, aveva
notevoli punti di contatto con l’Arbeitsdienst tedesco.
La
strategia di Roosevelt fu insomma assai abile: da un lato venne incontro
alle esigenze di protezione espresse dal corpo sociale, isolando
l’economia americana per evitare fenomeni di contagio depressivo, mentre
dall’altro lato attivò una serie di agenzie finalizzate a eseguire
lavori pubblici, a lenire la disoccupazione, a costruire residenze
popolari, e a spostare la lotta al crimine su un piano federale, con il
rafforzamento del Fbi. Distante da qualunque tentazione autoritaria,
Roosevelt era convinto, come affermò nel 1936, che quella intrapresa con
successo in America fosse ben più di una guerra contro la povertà,
l’indigenza e la depressione economica: «È una guerra per la
sopravvivenza della democrazia».
Valendosi di un accorto uso della
propaganda, specie radiofonica, Roosevelt fece fronte alla disabilità
che gli impediva quella teatralizzazione gestuale tipica degli oratori
del suo tempo, e inventò un nuovo format, quello delle «fireside chats»
radiofoniche, che gli garantirono uno straordinario rapporto empatico
con gli americani e, di conseguenza, ben quattro rielezioni successive.
Concentrata
a lungo sui problemi interni, la sua politica si avvantaggiò di una
generazione di tecnici che affrontarono i problemi sociali con
competenza e puntiglio: da esperienze come quella della Tva (Tennessee
Valley Authority) venne un impulso straordinario a razionalizzare ed
affrontare i problemi del sottosviluppo. Fu la «rivoluzione dei
temperamatite», condotta da una leva di giovani tecnici-manager che,
dopo la fine della seconda guerra mondale, si sarebbe diffusa negli
organismi internazionali.
La sintesi di Isaiah Berlin
Intanto
però, a partire dal 1938, Roosevelt si impegnò a far capire agli
americani che l’isolazionismo e il neutralismo di fronte alla minaccia
nazista non potevano più durare e la priorità che egli stesso aveva dato
ai problemi interni e che i suoi avversari continuavano a pretendere,
coniando quello slogan America first! recentemente ripreso da Trump, non
era più difendibile. La guerra poi, ci mostra Patel, completò davvero
il New Deal, non solo perché mise fine alla depressione economica ma
anche perché legittimò e normalizzò definitivamente l’intervento statale
in campo economico. Più tardi, negli anni Cinquanta, Isaiah Berlin
avrebbe guardando retrospettivamente all’esperienza del New Deal
scrivendo che essa fu l’unica luce nell’oscurità, capace, in un momento
di debolezza e di disperazione del mondo democratico, di infondere forza
e fiducia.