mercoledì 19 settembre 2018

La Stampa 19.8.18
Sono 62 i bimbi dietro le sbarre
Il garante: “Mancano case-famiglia”
di Maria Rosa Tomasello


Di una cosa tutti sono certi: i bambini non dovrebbero vivere dietro le sbarre. «La legge ci dice che il carcere dovrebbe essere veramente la soluzione estrema - ricorda il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma -. Il bisogno e il diritto di un bambino devono essere prevalenti anche rispetto all’esigenza di punire il genitore». Eppure, nonostante gli interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi 40 anni, le norme che dovrebbero salvare i bimbi dalla pena condivisa senza colpa con le loro mamme, non sono sufficienti o non sono attuate. Così, sullo sfondo della tragedia «imprevedibile» di Rebibbia, dove il nido è considerato un modello, ci sono i nomi e i volti di sessanta piccoli che vivono ancora negli istituti penitenziari e negli istituti a custodia attenuata (Icam). Il censimento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornato al 31 agosto scorso, conta 62 bimbi «detenuti» con le madri, 52. Di queste, 27 sono italiane, con 33 bambini; 25 le straniere, con 29 figli. Tutti in tenera età. Per legge infatti i bambini possono restare con le mamme nelle carceri fino a tre anni. Fino ai sei anni invece negli Icam, istituiti con la legge 62 del 2011, che in Italia sono solo cinque: a Milano San Vittore, aperto in via sperimentale già nel 2006, Torino, Venezia, Cagliari e Lauro (Avellino).
Fino a oggi le normative hanno arrancato, spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale: «L’ordinamento penitenziario del 1975 aveva previsto che la mamma potesse tenere il bimbo con sé in carcere fino a tre anni. Una mediazione per non strappare la madre al piccolo. Nel tempo si è cercato di ridurre la portata del fenomeno. Prima con la legge Finocchiaro del 2001, che tra l’altro introduceva la detenzione domiciliare speciale per chi aveva figli fino a 10 anni, ma che non ha funzionato molto bene, quindi nel 2011, quando la legge 62 dispose la creazione di case famiglia protette, ma senza copertura finanziaria e dando mandato agli enti locali, che non l’hanno fatto se non in rarissimi casi (oggi esistono solo a Milano e Roma, ndr). Ecco perché non si è riusciti a ridurre il numero dei bimbi negli istituti o negli Icam, dove pure se il personale è in borghese e l’ambiente è accogliente, i bambini si trovano comunque in un regime ristretto». Quindi, conclude Marietti «bisogna pensare a strategie individuali». E «predisporre case famiglia protette», come chiede il Garante, che nella sua Relazione 2018 al Parlamento, definisce «un vulnus» la presenza di bimbi in carcere: «E se alcuni istituti si sono attrezzati», denuncia, esistono anche «sezioni che del nido non hanno davvero nulla: un reparto detentivo classico, talvolta anche in cattive condizioni materiali».
«Il problema - afferma Lia Sacerdote, presidente dell’associazione Bambini senza sbarre - è che il magistrato prescrive il carcere, mentre la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, firmata dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, che speriamo sia rinnovata dal ministro Bonafede, invita i giudici a evitare il carcere ai genitori di minori».