La Stampa 16.8.18
Più visibilità alla biografia dei pezzi
Dando conto del colonialismo
di Christian Greco
L’attualissimo
dibattito sulle restituzioni mi induce non tanto, e non solo, a
riflettere sulla possibilità e l’opportunità di questi - tanto auspicati
quanto avversati - rimpatri, ma soprattutto sul ruolo dei musei
inevitabilmente coinvolti in questo dibattito che vede fronteggiarsi due
diverse posizioni. Da una parte, i detrattori della politica delle
restituzioni sottolineano il fatto che i musei internazionali siano
portatori di un universalismo positivo che intende le opere d’arte
appartenenti al patrimonio culturale dell’umanità. Dal loro punto di
vista il Museo universale resta il miglior contesto in cui avere a che
fare con l’arte: le opere, seguendo quest’ottica, non obbediscono ai
moderni confini politici e hanno sempre avuto collegamenti con
l’altrove, e geografico e culturale. Su posizioni opposte si colloca chi
crede, invece, che le opere debbano essere restituite al loro contesto
originario, al luogo in cui sono stati prodotti.
Sono riflessioni a
cui un museo come l’Egizio non può non guardare: la collezione torinese
è infatti ambasciatrice di una cultura che ha le sue radici altrove ed è
dunque lecito chiedersi come comportarsi con i reperti che custodiamo.
Ed è proprio su questo che vorrei richiamare l’attenzione, tentando di
inserire all’interno del dibattito un elemento di complessità, come del
resto è complesso l’oggetto del dibattito.
Si è infatti troppo
abituati a pensare il museo come un mero contenitore di oggetti che
arrivano da luoghi più o meno lontani che ci si limita a esporre. Una
visione del genere rischia di peccare di ingenuità: il museo non è solo
la somma degli oggetti e della cultura materiale che custodisce. Non è
insomma un non luogo, o per meglio dire un luogo neutro impermeabile
all’azione di fattori quali il tempo o la temperie politica e culturale.
L’oggetto
che entra in un museo non è solo decontestualizzato - sottratto al suo
luogo di origine - ma è nello stesso momento ricontestualizzato, in un
preciso momento storico e seguendo precise logiche allestitive figlie
del tempo. Trova insomma un nuovo contesto. E la storia di questa
musealizzazione - che ha spesso origini lontanissime - non può essere
ignorata, né può essere derubricata a un semplice «errore» o a un
insopportabile residuo del senso di colpa che alcuni Paesi provano per
il loro passato coloniale.
Quella parte della storia, la afterlife
dell’oggetto, ha una sua dignità e ha prodotto effetti nel corso degli
anni. Come ha mirabilmente fatto notare Ian Hodder, nel suo libro
Entangled: An Archaeology of the Relationships Between Humans and Things
(2012), il reperto archeologico dà vita a discorsi diversi a seconda
degli interlocutori con cui si interfaccia nel tempo. Così, per fare un
esempio a tutti noto, la Nike di Samotracia è ormai strettamente
connessa al suo contesto museale, al Louvre, a quella scalinata in cima
alla quale generazioni di visitatori l’hanno ammirata. È diventata un
oggetto identitario legato alle sale museali. Per moltissime persone,
ora, è quello il suo contesto.
C’è un elemento in più, che mi
preme aggiungere: durante la sua seconda vita, la vita museale per
intenderci, l’oggetto non è solo esposto ma diventa anche (o, almeno,
dovrebbe diventare) oggetto di studio. Quando, ipoteticamente, si
restituisce un oggetto, dunque, che ne è del patrimonio immateriale
prodotto nel corso degli anni? Gli studi, le indagini condotte su di
esso non sono a pieno titolo considerabili patrimonio culturale? Esporre
solo cultura materiale, infatti, non esaurisce la funzione di un museo
che deve, in primo luogo, fare ricerca sulla collezione che custodisce.
Mi chiedo allora se questo patrimonio intangibile nel disegno di alcuni
debba essere parte integrante della restituzione o se invece si intenda
una restituzione solo della parte materica dell’oggetto, il che vorrebbe
dire privare il reperto della sua parte biografica, della capacità di
narrare - grazie alla ricerca - la sua storia. Sarebbe insomma una
restituzione muta.
Ma vorrei porre ancora qualche domanda: preso
atto che il patrimonio intangibile e immateriale abbia una sua dignità
pari a quella dell’elemento materico all’interno di un discorso
postcoloniale, non si dovrebbe, forse, pensare a rendere accessibile
quel patrimonio? Mi spiego meglio: continuare a organizzare convegni che
hanno come oggetto di studio questi reperti nel mondo occidentale, in
lingua inglese, non prestando attenzione alla diffusione e
disseminazione dei risultati ottenuti in queste sedi, non è forse un
atteggiamento neocoloniale?
Una strada che mi sembra possibile
percorrere, dunque, è quella dell’accessibilità dei risultati della
ricerca sui reperti, un maggiore impegno verso la circolazione degli
studiosi - e certo non solo degli studiosi - e un ripensamento dei
nostri allestimenti che sottolinei il momento coloniale. Si tratta di
dare visibilità non solo al reperto ma alla sua biografia, alle sue
molte vite, compresa, naturalmente, quella museale.