domenica 16 settembre 2018

La Stampa 16.8.18
Più visibilità alla biografia dei pezzi
Dando conto del colonialismo
di Christian Greco


L’attualissimo dibattito sulle restituzioni mi induce non tanto, e non solo, a riflettere sulla possibilità e l’opportunità di questi - tanto auspicati quanto avversati - rimpatri, ma soprattutto sul ruolo dei musei inevitabilmente coinvolti in questo dibattito che vede fronteggiarsi due diverse posizioni. Da una parte, i detrattori della politica delle restituzioni sottolineano il fatto che i musei internazionali siano portatori di un universalismo positivo che intende le opere d’arte appartenenti al patrimonio culturale dell’umanità. Dal loro punto di vista il Museo universale resta il miglior contesto in cui avere a che fare con l’arte: le opere, seguendo quest’ottica, non obbediscono ai moderni confini politici e hanno sempre avuto collegamenti con l’altrove, e geografico e culturale. Su posizioni opposte si colloca chi crede, invece, che le opere debbano essere restituite al loro contesto originario, al luogo in cui sono stati prodotti.
Sono riflessioni a cui un museo come l’Egizio non può non guardare: la collezione torinese è infatti ambasciatrice di una cultura che ha le sue radici altrove ed è dunque lecito chiedersi come comportarsi con i reperti che custodiamo. Ed è proprio su questo che vorrei richiamare l’attenzione, tentando di inserire all’interno del dibattito un elemento di complessità, come del resto è complesso l’oggetto del dibattito.
Si è infatti troppo abituati a pensare il museo come un mero contenitore di oggetti che arrivano da luoghi più o meno lontani che ci si limita a esporre. Una visione del genere rischia di peccare di ingenuità: il museo non è solo la somma degli oggetti e della cultura materiale che custodisce. Non è insomma un non luogo, o per meglio dire un luogo neutro impermeabile all’azione di fattori quali il tempo o la temperie politica e culturale.
L’oggetto che entra in un museo non è solo decontestualizzato - sottratto al suo luogo di origine - ma è nello stesso momento ricontestualizzato, in un preciso momento storico e seguendo precise logiche allestitive figlie del tempo. Trova insomma un nuovo contesto. E la storia di questa musealizzazione - che ha spesso origini lontanissime - non può essere ignorata, né può essere derubricata a un semplice «errore» o a un insopportabile residuo del senso di colpa che alcuni Paesi provano per il loro passato coloniale.
Quella parte della storia, la afterlife dell’oggetto, ha una sua dignità e ha prodotto effetti nel corso degli anni. Come ha mirabilmente fatto notare Ian Hodder, nel suo libro Entangled: An Archaeology of the Relationships Between Humans and Things (2012), il reperto archeologico dà vita a discorsi diversi a seconda degli interlocutori con cui si interfaccia nel tempo. Così, per fare un esempio a tutti noto, la Nike di Samotracia è ormai strettamente connessa al suo contesto museale, al Louvre, a quella scalinata in cima alla quale generazioni di visitatori l’hanno ammirata. È diventata un oggetto identitario legato alle sale museali. Per moltissime persone, ora, è quello il suo contesto.
C’è un elemento in più, che mi preme aggiungere: durante la sua seconda vita, la vita museale per intenderci, l’oggetto non è solo esposto ma diventa anche (o, almeno, dovrebbe diventare) oggetto di studio. Quando, ipoteticamente, si restituisce un oggetto, dunque, che ne è del patrimonio immateriale prodotto nel corso degli anni? Gli studi, le indagini condotte su di esso non sono a pieno titolo considerabili patrimonio culturale? Esporre solo cultura materiale, infatti, non esaurisce la funzione di un museo che deve, in primo luogo, fare ricerca sulla collezione che custodisce. Mi chiedo allora se questo patrimonio intangibile nel disegno di alcuni debba essere parte integrante della restituzione o se invece si intenda una restituzione solo della parte materica dell’oggetto, il che vorrebbe dire privare il reperto della sua parte biografica, della capacità di narrare - grazie alla ricerca - la sua storia. Sarebbe insomma una restituzione muta.
Ma vorrei porre ancora qualche domanda: preso atto che il patrimonio intangibile e immateriale abbia una sua dignità pari a quella dell’elemento materico all’interno di un discorso postcoloniale, non si dovrebbe, forse, pensare a rendere accessibile quel patrimonio? Mi spiego meglio: continuare a organizzare convegni che hanno come oggetto di studio questi reperti nel mondo occidentale, in lingua inglese, non prestando attenzione alla diffusione e disseminazione dei risultati ottenuti in queste sedi, non è forse un atteggiamento neocoloniale?
Una strada che mi sembra possibile percorrere, dunque, è quella dell’accessibilità dei risultati della ricerca sui reperti, un maggiore impegno verso la circolazione degli studiosi - e certo non solo degli studiosi - e un ripensamento dei nostri allestimenti che sottolinei il momento coloniale. Si tratta di dare visibilità non solo al reperto ma alla sua biografia, alle sue molte vite, compresa, naturalmente, quella museale.