La Stampa 15.9.18
I giudici e “le leggi abominevoli”
molti grigi esecutori e pochi eroi
di Giuseppe Salvaggiulo
Il
ruolo dei giudici nell’applicazione della legislazione razzista è
scandagliato nel volume «Razza e inGiustizia», meritoriamente pubblicato
dal Consiglio superiore della magistratura e dal Consiglio nazionale
forense in collaborazione con l’Unione delle comunità ebraiche italiane e
presentato ieri in Senato.
Dal 1923 il fascismo aveva limitato
l’indipendenza dei magistrati, degradandoli a «funzionari»: il governo
ne decideva promozioni e trasferimenti; nominando i capi delle corti,
influiva sulle sentenze. Ai giudici di rango inferiore erano imposti
camicia nera e saluto fascista. Chi dimostrava «atteggiamenti
incompatibili con le generali direttive politiche del governo» era
dispensato dal servizio. I reati politici erano sottratti alla
magistratura e devoluti a un tribunale speciale. Il Csm era non era più
eletto dai giudici, ma designato dal potere esecutivo e ridotto a organo
consultivo del ministro. Nel 1941 la tessera del partito sarebbe
diventata requisito per l’esercizio della professione.
In questo
contesto, non stupisce che il 17 novembre 1938, quando Vittorio Emanuele
III firmò il regio decreto 1728 che poneva le basi giuridiche della
discriminazione cancellando il principio di eguaglianza tra i
«regnicoli» sancito dall’articolo 24 dello Statuto albertino, il
contagio nel mondo giuridico fosse già diffuso. Alti magistrati,
avvocati di fama e accademici di prestigio contribuivano alla rivista
«Il diritto razzista». In generale, la magistratura si adeguò. Prevalse -
chi per paura, chi per viltà - la zona grigia, l’ossequio formale a
quelle che Calamandrei definì «leggi abominevoli». I venti magistrati
che aderirono fieramente al razzismo antiebraico furono posti al vertice
della piramide giudiziaria, salvo riciclarsi in ranghi ancor più
elevati dopo la Liberazione. Gli ebrei erano sfiduciati. Fino al 1943
solo 60 fecero ricorso contro provvedimenti discriminatori.
Ma ci
fu una parte dei giudici che invece praticò, sotto diverse forme, una
resistenza. L’epurazione di 18 magistrati ebrei fu immediata,
all’insegna della «purezza razziale dell’intero apparato».
Una
forma di resistenza fu quella di chi cercò di limitare, quando non di
vanificare, gli effetti delle leggi razziali con una puntigliosa,
creativa e cavillosa interpretazione del proprio ruolo. Scrive Giovanni
Canzio, ex presidente della Cassazione: «Mentre in Germania i giudici
applicavano le norme razziali facendosi interpreti del comune sentimento
popolare e conformandosi all’ideologia nazista, in Italia almeno una
parte dei giudici interpretava analoghe norme rifacendosi ai principi
generali dell’ordinamento, sì da interporre un qualche argine di
legalità formale al controllo assoluto messo in atto dal regime».
L’articolo
26 del regio decreto del 1938 attribuiva la competenza esclusiva e
insindacabile in materia al ministro dell’Interno, che era lo stesso
Mussolini; una legge del 1939 istituiva commissioni speciali, i
cosiddetti «tribunali della razza» affidati ad alti magistrati
fascistizzati e quindi sostanzialmente emanazione del regime.
Nonostante
ciò, alcuni magistrati civili e amministrativi si ritagliarono un
ruolo, operando una distinzione: al ministro la decisione «in merito a
chi fosse ebreo», ai giudici quella sul godimento dei diritti civili e
politici e sullo stato delle persone. Un campo assai vasto: dal lavoro
alla famiglia, dal patrimonio all’impresa. Per altro verso, si sostenne
un’applicazione restrittiva di leggi considerate eccezionali e si
rigettò l’idea, all’epoca (solo?) diffusa, di interpretare il diritto
«alla luce del comune sentimento popolare».
La dottrina più
autorevole e illuminata - Calamandrei, Galante Garrone, Jemolo -
teorizzò il carattere politico, più che la portata giuridica, delle
leggi razziali, spiegando che «il concetto di razza è estraneo
all’ordinamento italiano». Nel 1939, in una causa in materia di
filiazione, la Corte d’appello di Torino (presidente Domenico Riccardo
Peretti Griva) rivendicava la propria competenza «a conoscere
dell’appartenenza a razza determinata» di un cittadino quando necessario
a determinare i limiti della capacità giuridica.
La parte della
magistratura schierata col regime non tacque. Giulio Ricci, primo
presidente della Corte torinese, contestò l’orientamento con due
circolari, che denunciavano l’elusione delle disciplina discriminatoria e
paventavano responsabilità dei magistrati fuori linea. Ma Consiglio di
Stato e Cassazione difesero i giudici dissidenti, motivando che le
deroghe all’autonomia della giurisdizione non potessero essere oggetto
di interpretazione estensiva.
I giudici amministrativi annullarono
la revoca del nulla osta all’iscrizione universitaria disposta dal
ministro degli Esteri nei confronti di un tedesco di origine ebraica. La
Corte dei conti restituì la pensione a un’anziana signora.
Fu, quello giudiziario, un eroismo sottile e cocciuto che va ricordato. E coltivato.