La Stampa 14.9.18
Il duello con i populisti sulle diseguaglianze
di Giovanni Orsina
La
campagna elettorale per il voto europeo del maggio 2019 sta entrando
nel vivo con larghissimo anticipo. E la settimana che si sta chiudendo è
stata segnata da due iniziative importanti.
Due iniziative di
quello che, per capirci, chiameremo l’establishment europeista contro
quello che – sempre per capirci – chiameremo lo sfidante sovranista: il
voto del parlamento europeo sul governo ungherese guidato da Viktor
Orban, e la decisione del presidente francese Macron di investire otto
miliardi di euro nel «reddito universale di attività». Sono, com’è
ovvio, questioni assai diverse. Ma non è impossibile collegarle in una
strategia di bastone e carota della quale, per il momento, cominciamo
soltanto a intravedere i contorni.
La censura a Orban (il bastone)
persegue l’evidente scopo politico di isolare i sovranisti e spegnere
sul nascere qualsiasi tentazione di dialogare con loro possa aver preso
forma fra i Popolari. E che stesse prendendo forma, lo testimonia
l’intervista a Manfred Weber – probabile Spitzenkandidat, ossia
candidato alla guida della Commissione, per il Partito popolare europeo –
pubblicata la settimana scorsa su questo giornale. L’iniziativa di
Macron (la carota) vuol mostrare invece che l’establishment europeista
può tornare a soddisfare le esigenze di un elettorato che lo ha
abbandonato, per seguire le sirene sovraniste, anche perché lo accusa di
tutelare unicamente i «vincenti della globalizzazione». Macron cerca
così di smentire chi lo chiama il «presidente dei ricchi». Ed è quanto
mai significativo che lo faccia con un provvedimento non troppo
dissimile dal reddito di cittadinanza, bandiera del Movimento 5 Stelle.
La
via verso le Europee del maggio 2019 è ancora lunga. Ci vorrà del tempo
perché le diverse proposte prendano compiutamente forma, e per
valutarne il successo bisognerà naturalmente aspettare i risultati del
voto. Se quelle che ho delineato sopra dovessero confermarsi le linee
portanti della strategia europeista, tuttavia, mi pare allora che essa
sia debole in due punti. In primo luogo, le risposte che dà alle
esigenze degli elettori non sono europee. Quando Macron è stato eletto,
nella primavera del 2017, il rilancio dell’Europa era una parte
essenziale della sua retorica. Poi s’è detto che bisognava aspettare le
elezioni tedesche di un anno fa. Poi che a Berlino si formasse un
governo. Tutto questo si è compiuto da mesi, ma i dissensi lungo l’asse
franco-tedesco – e, nei pochi punti in cui quell’asse consente, i veti
posti dagli altri partner dell’Unione – tengono paralizzato il processo
d’integrazione. Il «reddito universale» di Macron, così, è francese, non
europeo.
La strategia per il momento è doppiamente sbilanciata,
in secondo luogo: sul lato materiale e su quello sinistro. Il montare
dei sovranisti è senz’altro causato anche dalle disuguaglianze e dalle
difficoltà economiche, ma ha pure delle robuste radici identitarie che,
se sono sollecitate soprattutto dalla sfida migratoria, non si
esauriscono però nell’avversione per le migrazioni. Su questo terreno
l’establishment europeista sembra incapace di muoversi. Col voto su
Orban, infine, il Partito popolare si è simbolicamente spostato verso il
centro. Lo spazio alla sua destra è sì più isolato, adesso – ma anche
più vasto. Si ripete così un meccanismo che già abbiamo visto in azione a
livello nazionale: è stato proprio quando i gollisti francesi e i
cristiano democratici tedeschi si sono accentrati troppo, che il Front
National e Alternative für Deutschland si sono potuti sviluppare.