La Stampa 13.9.18
Il sessantotto della scienza
Nell’anno
della contestazione, James Watson pubblica il libro in cui racconta come
ha scoperto il segreto della vita, con Francis Crick, rivelando anche
la competizione feroce tra ricercatori
di Piergiorgio Odifreddi
Quando
si pensa al ’68, di cui quest’anno si celebra il cinquantenario, si
ricordano soprattutto gli eventi politici e sociali che i giornali e le
televisioni avevano portato alla ribalta.
Ce n’è per tutti i
gusti: o meglio, per tutti, meno quelli scientifici. Eppure almeno due
eventi, uno tecnologico e uno culturale, non solo non sfigurerebbero tra
gli altri della lista, ma ne farebbero sfigurare molti di quell’anno
formidabile. Si tratta, da un lato, della missione Apollo 8, che ci
portò per la prima volta vicino alla Luna, facendoci vedere da lontano
l’insignificanza cosmica di quell’“aiuola che ci fa tanto feroci”. E,
dall’altro lato, del libro La doppia elica di James Watson, che ci fece
invece vedere da vicino la scienza nuda e cruda, spogliata di tutte le
romantiche visioni del “seguir virtute e canoscenza” di cui fino ad
allora amava agghindarsi. Il libro di Watson fu, e rimane, una splendida
eccezione nel campo della divulgazione e della sociologia scientifiche.
Non era infatti, come spesso sono i best seller, l’opera di uno dei
soliti divulgatori o sociologi da strapazzo, usi a infiocchettare cose
che non capiscono, o criticare cose che non conoscono. Si trattava
invece del resoconto della più importante scoperta scientifica di metà
Novecento, fatto in prima persona da quello che è tuttora il più famoso
scienziato vivente.
La scoperta era la struttura a doppia elica
del Dna, che dà appunto il titolo al libro, e costituisce una delle
icone scientifiche del Novecento. Watson la trovò insieme a Francis
Crick la mattina del 28 febbraio 1953, e quando quel giorno i due
andarono a pranzo con dei colleghi, il secondo annunciò loro: “Oggi
abbiamo svelato il segreto della vita”. E non era una boutade, ma la
pura e semplice verità: dopo millenni di inconcludenti discorsi
religiosi e filosofici al proposito, si era infatti finalmente capito
come si trasmettono i caratteri ereditari dai genitori ai figli, aprendo
la strada alla genetica moderna.
Quando Watson pubblicò il suo
libro nel 1968 erano passati solo quindici anni da quello storico
momento, ma erano già successe molte cose. Sul lato personale, lui e
Crick avevano vinto nel 1963 il Nobel per la Medicina, e il premio aveva
fatto di Watson uno dei suoi più giovani vincitori: al momento della
scoperta egli era infatti soltanto un ragazzo di 24 anni, che andava
ancora letteralmente in giro con i calzoni corti, e al momento della
premiazione ne aveva dunque soltanto 34.
Sul lato scientifico,
invece, alla fine del loro primo e storico articolo Watson e Crick (con i
nomi in quest’ordine, visto che l’idea cruciale dell’accoppiamento
delle basi l’aveva avuta il primo) lasciarono cadere questo tipico
understatement inglese, che divenne una delle più memorabili citazioni
scientifiche: “Non è sfuggito alla nostra attenzione che lo specifico
accoppiamento che abbiamo postulato suggerisce immediatamente un
possibile meccanismo di copiatura del materiale genetico”.
Le
promesse implicite in quella profezia erano puntualmente state
mantenute, e nel 1968 si conosceva ormai completamente il codice
genetico che tutta la vita, “dal batterio all’elefante”, usa per
riprodursi. Gli stessi Watson e Crick avevano parzialmente contribuito
alla sua determinazione, anche se fu soprattutto Marshall Nirenberg a
stabilire nel dettaglio il legame tra le 64 triplette di basi azotate
che costituiscono le parole del linguaggio genetico e i 20 aminoacidi
che costituiscono i mattoni delle proteine: per questo anch’egli vinse
il premio Nobel per la medicina, proprio nel 1968.
Ma tutto era
iniziato appunto dalla scoperta della doppia elica del Dna, e il libro
di Watson ne racconta la storia come se fosse un romanzo: talmente bene
dal punto di vista scientifico, e in maniera talmente avvincente dal
punto di vista umano, che ebbe un successo strepitoso, diventando il
libro scientifico più letto del Novecento. Esso rimane tuttora la
migliore introduzione all’argomento, e le messe da requiem sul ’68 non
verrebbero cantate invano, se raggiungessero anche solo il risultato di
farlo leggere a chi ancora non lo conosce, e rileggere a chi già lo
conosce.
La doppia elica esibiva il proprio stile fin
dall’incipit: “In vita mia non ho mai visto Francis Crick in vena di
modestia”. Poiché il resto proseguiva sullo stesso tono, Crick non la
prese bene, ma non potendo cambiare la testa di Watson, lo costrinse
almeno a cambiare editore: convinse infatti la Harvard University Press a
non pubblicare il libro, e le fece perdere un affare da milioni di
copie. Crick pensò a suo tempo di replicare con un proprio libro,
intitolato L’elica svitata, che a sua volta avrebbe dovuto incominciare
così: “Jim è sempre stato maldestro con le mani, bastava guardarlo
mentre sbucciava un’arancia”, ma poi lasciò perdere.
Molti altri
scienziati si seccarono perché Watson aveva raccontato non soltanto la
storia scientifica della ricerca della doppia elica, ma anche quella
umana della competizione senza esclusione di colpi fra coloro che
gareggiavano per trovarla. Watson e Crick, che lavoravano nella
Cambridge inglese, avevano due avversari principali: Linus Pauling a
Pasadena, il massimo chimico vivente, che avrebbe poi vinto ben due
premi Nobel (uno per la Chimica e l’altro per la Pace), e Rosalind
Franklin a Londra, una cristallografa che non si rivelò essere
all’altezza delle fotografie a raggi X che scattava al Dna.
Pauling
si mise fuori gioco da sé quando propose un modello astratto a tripla
elica, senza tener conto dei dati concreti che erano a disposizione:
Watson e Crick si accorsero subito del suo errore, e capirono che
dovevano sbrigarsi, perché presto se ne sarebbe accorto anche Pauling.
La Franklin invece non entrò nemmeno nel gioco, perché riteneva che
fosse troppo presto fare modelli del Dna, e che bisognasse invece
continuare a far foto.
La svolta avvenne quando Maurice Wilkins,
che non sopportava la Franklin, mostrò di nascosto a Watson una delle
foto, che gli rivelò immediatamente il segreto che la Franklin non aveva
saputo vedere. Anche Wilkins prese poi il premio Nobel nel 1963:
ufficialmente per la medicina, ma ufficiosamente per lo spionaggio. La
Franklin ormai era morta di cancro nel 1958, ma se fosse sopravvissuta
l’avrebbe forse vinto lei, per la fotografia: in ogni caso nessuno la
candidò mai da viva, per motivi che non sono ovvi solo alle femministe.
Queste
e altre vicende si trovano nel libro di Watson, e ancor più ce ne sono
nell’edizione ampliata uscita nel 1980 (pubblicata in Italia da
Garzanti), che riporta una lunga serie di recensioni che danno voce
anche ai critici di Watson. Leggere il quale è un po’ come leggere
Voltaire: non c’è bisogno di essere d’accordo con tutto ciò che dice, ma
non si può che ammirarne l’intelligenza, l’arguzia e la non
convenzionalità. Voltaire e Watson sono i veri sessantottini, mentre
quelli di allora non erano che pallide caricature.