giovedì 13 settembre 2018

La Stampa 13.9.18
Scoperto in una grotta del Sudafrica il primo disegno fatto da un Sapiens
di Marco Cambiaghi


«Abbiamo fra le mani il primo disegno dell’umanità», ci dice soddisfatto Francesco d’Errico, archeologo e Direttore di Ricerca del Cnrs – Università di Bordeaux, mentre guardiamo sullo schermo la foto di un piccolo frammento di pietra con sopra disegnate delle sottili righe che si intrecciano, una scoperta che ha aperto una nuova finestra sull’origine della creatività e della mente umana.
Si tratta di un pezzettino di silcrete di 4 centimetri per poco più di 1,5 proveniente dalla grotta di Blombos, in Sudafrica dove si distinguono nove righe di ocra rossa che si intersecano fra loro. «Il fatto eclatante è che sono vecchie di 73.000 anni, rendendole il primo disegno noto dell’uomo» - spiega d’Errico, coautore di uno studio pubblicato ieri dalla rivista Nature in cui si dimostra con rigorosi metodi scientifici che quelle sottili righe intersecate non sono frutto del caso e neppure uno scarabocchio senza senso. «La mia esperienza mi porta a pensare che anche piccoli oggetti con delle incisioni significano qualcosa - continua d’Errico - Analisi chimiche e microscopiche hanno poi dimostrato che quei segni non sono naturalmente presenti nella silcrete; abbiamo quindi provato a replicarle in laboratorio per capire come erano stati effettuati». I risultati non potevano essere più chiari: le linee intrecciate erano state deliberatamente disegnate con un frammento di ocra appuntito, come facciamo oggi con un pastello o una matita, e la superficie era stata appositamente levigata.
Cosa rappresenta questa trama di linee rosse? «In realtà non lo sappiamo - chiarisce d’Errico - ma abbiamo rinvenuto lo stesso identico motivo anche su altri materiali, ad ulteriore dimostrazione del fatto che deve avere un significato: questo simbolo era nella loro mente ed era la rappresentazione grafica di qualcosa». La riproduzione di uno stesso simbolo con tecniche e su supporti diversi sono il chiaro segno di una cultura simbolica, un fenomeno emerso solo attorno a 42.000 anni fa in Europa. Le pitture nelle grotte di El Castillo in Spagna, di Chauvet in Francia, o gli animali scolpiti in avorio trovati nel sud della Germania erano l’emblema di questa ipotesi. Con questa scoperta la lancetta del tempo ha fatto un balzo indietro di 30.000 anni.
«Da qualche anno abbiamo visto che le cose sono più complesse - dice il ricercatore - in quanto già oltre 70.000 anni fa esistevano società con comportamenti innovativi, in cui le persone si occupavano, per esempio, di colorare le conchiglie o scaldarle per fargli cambiare colore o scaldare in modo controllato certe rocce silicee che inseguito scheggiavano per fabbricare punte di zagaglie per la caccia. Nell’Africa del Nord, fra Marocco e Algeria, abbiamo scoperto una dozzina di siti dove si usavano conchiglie marine appartenenti a una sola specie come ornamenti già 90 o 120.000 anni fa, anche in siti a 70 chilometri dal mare».
Il sito archeologico di Blombos era già finito sotto i riflettori qualche anno fa, quando nella stessa grotta era stata fatta un’importante scoperta, unica nel suo genere: il ritrovamento di contenitori utilizzati per conservare pittura fatta di polvere d’ocra e un liquido non identificato risalenti a 100.000 anni fa. «Il ritrovamento di questo disegno fa parte di un package di innovazioni che vanno tutte nella stessa direzione, la nascita della cognizione umana moderna», conclude d’Errico

La Stampa 13.9.18
Abusi, il Papa convoca le conferenze
episcopali
di Andrea Tornielli


Scandalo abusi nella Chiesa, il Papa convoca a Roma dal 21 al 24 febbraio 2019 i presidenti degli episcopati di tutto il mondo. È stato annunciata ieri mattina, al termine della 26° riunione del C9 - il Consiglio dei cardinali che aiuta il Pontefice nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa universale - la decisione di Francesco di convocare in Vaticano i presidenti delle conferenze episcopali del mondo per discutere sul tema della «protezione dei minori» e della lotta agli abusi contro minori e adulti vulnerabili.
Necessarie delle risposte
A un mese dalla pubblicazione del report del Grand Jury della Pennsylvania, che ha fatto emergere i crimini di abuso perpetrati nelle diocesi dello Stato negli ultimi settant’anni, con il coinvolgimento di 300 sacerdoti e di più di un migliaio di vittime; e dopo la clamorosa operazione politico-mediatica con annessa richiesta di dimissioni papali che ha visto protagonista l’ex nunzio negli Usa Carlo Maria Viganò e la denuncia delle coperture di cui ha goduto il cardinale statunitense Theodore McCarrick, Papa Bergoglio vuole che il problema sia affrontato a livello globale. Seguendo le orme di Benedetto XVI, autore delle leggi speciali anti-pedofilia del 2010 e della politica della «tolleranza zero» contro gli abusi, Papa Francesco fin dall’inizio del suo pontificato ha intensificato gli incontri con le vittime sopravvissute: ne riceve riservatamente a Santa Marta un paio quasi ogni settimana, provenienti da tutto il mondo. Bergoglio ha inoltre istituito la Commissione vaticana per la protezione dei minori, che sta lavorando nei vari Paesi per sensibilizzare i vescovi e cambiare una certa mentalità clericale abituata a coprire. La mossa di convocare i presidenti delle conferenze episcopali, mentre negli Stati Uniti vari procuratori si dicono intenzionati ad aprire inchieste sul passato, rende evidente la gravità del problema e la necessità di risposte coordinate e condivise.
Le conferenze episcopali sono nel mondo 113 (32 in Europa, 36 in Africa, 24 in America, 17 in Asia, 4 in Oceania). A queste vanno aggiunti 3 consigli di Chiese, 8 assemblee di ordinari, 6 sinodi patriarcali e 6 sinodi arcivescovili maggiori di rito orientale cattolico. Si può ipotizzare che i partecipanti alla riunione siano circa 130, ai quali si aggiungeranno i capi dei dicasteri della Curia romana più direttamente coinvolti e altri esperti.

Repubblica 13.9.18
Il caso Viganò e la pedofilia
Vescovi riuniti e controdossier la svolta del Papa sugli abusi
di Paolo Rodari

Di che cosa stiamo parlando
Dalla pubblicazione del dossier di Carlo Maria Viganò, ex nunzio a Washington, che chiede al Papa le dimissioni per non essere intervenuto sulla doppia vita del cardinale americano Theodore McCarrick, Francesco è rimasto in silenzio. Ma ora la Santa Sede passa al contrattacco con l’annuncio di un contro dossier in cui rispondere alle accuse. Insieme, Francesco ha deciso di convocare a Roma tutti i capi delle conferenze episcopali. Il summit avrà luogo a febbraio.

CITTÀ DEL VATICANO Un brainstorming sugli abusi. Francesco annuncia dal 21 al 24 febbraio prossimi una convocazione che non ha precedenti in Vaticano dei presidenti delle Conferenze episcopali della Chiesa di tutto il mondo « per parlare della prevenzione di abusi su minori e adulti vulnerabili ». La decisione è stata presa sentito il Consiglio di cardinali ( C9) che lo aiuta nel lavoro di riforma della curia romana. Evidentemente la situazione è grave. Il dossier sulla Pennsylvania – 300 preti accusati di abusi su oltre mille minori – ha fatto comprendere alla " cintura" bergogliana come la " tolleranza zero" inaugurata da Benedetto XVI non sia sufficiente. Di dossier sui decenni passati ve ne possono essere altri. E sul presente la prevenzione non è mai troppa, tant’è che anche la Conferenza episcopale italiana ha deciso di adottare nuove linee guida sugli abusi.
Il dossier dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, che ha chiesto le dimissioni di Francesco per non essere intervenuto sulla doppia vita dell’ex cardinale americano Theodore McCarrick, contribuisce ad agitare le acque. Dopo giorni di silenzio, il Vaticano, la cui leadership è a 360 gradi tirata in ballo dall’ex diplomatico, ha iniziato un lavoro di risposta che culminerà in un contro- dossier che proverà a dimostrare come la condotta della Santa Sede non sia stata deficitaria. Francesco ha tolto la porpora a McCarrick una volta saputo di un abuso su un minore. Viganò, tuttavia, lo accusa e prova a salvare sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI, seppure il primo abbia creato McCarrick cardinale dopo averne favorito la " carriera" ecclesiastica, mentre il secondo, pur avendolo sanzionato in forma privata, non sia riuscito a limitarne le uscite pubbliche.
Sulla pedofilia Francesco ha speso parole importanti nel viaggio a Dublino. Secondo una trascrizione pubblicata da Civiltà Cattolica il Papa ha detto a un gruppo di gesuiti che « non basta voltare pagina » , ma occorre «cercare rimedio, riparazione, tutto ciò che è necessario per guarire le ferite e ridare vita a tanta gente » . Fra i rimedi ve ne è uno che se attuato potrà essere dirompente: l’idea di dare spazio nelle leadership ecclesiali alla voce delle vittime, per troppi anni relegate agli ultimi posti, non ascoltate, perfino osteggiate. Occorre «prevenire per il futuro» e portare la «voce delle vittime» ai vertici della Chiesa», ha detto due giorni fa il cardinale arcivescovo di Boston Sean O’Malley, capo della Pontificia commissione per la tutela di minori. Si tratta di un cambio di paradigma non da poco, in scia al quale il Papa ha deciso, soprattutto dopo il viaggio in Cile dove la versione sugli abusi datagli dai vescovi locali si è poi rivelata menzognera, di convocare le vittime a Santa Marta per dare loro ascolto diretto.
Fra i cardinali che hanno contribuito all’elezione di Bergoglio c’è l’attuale arcivescovo di Washington, Donald Wuerl. Fece breccia fra i suoi confratelli più conservatori convincendoli a votare un non italiano, alieno dal mondo romano impantanato nei vatileaks e negli scandali. Oggi Wuerl è precipitato fra gli accusati del dossier Viganò per non aver agito contro McCarrick. Ora il porporato ha informato i sacerdoti della capitale dell’intenzione di recarsi a Roma per discutere delle sue dimissioni con Francesco. Mentre un cambio di tre cardinali del C9 – si parla, ma non prima dell’inizio del prossimo anno, del pensionamento dell’honduregno Maradiaga, del cileno Errazuriz e dell’australiano Pell – è motivato più che altro da raggiunti limiti di età, qui pesa la pressione di parte del clero e dei laici della diocesi. Domenica scorsa Wuerl aveva subìto le proteste di alcuni fedeli al grido di « vergogna, dimettiti » . Il porporato ha risposto con una lettera ai sacerdoti nella quale ha spiegato che occorre « un nuovo livello di risanamento per le vittime che hanno sofferto » . E ancora: « Una decisione da parte mia è essenziale in modo che la nostra arcidiocesi che noi tutti amiamo possa andare avanti».

Repubblica 13.9.18
Il rapporto
Dati shock sulla Chiesa tedesca: " 1.670 preti pedofili"
I numeri di uno studio commissionato dalla Conferenza episcopale Almeno 3.677 casi: "Calcolo per difetto"
di Tonia Mastrobuoni


Berlino Per la prima volta, la Chiesa cattolica in Germania ammette ciò che ha cercato di nascondere oppure ha tentato di minimizzare per anni. E lo fa attraverso uno studio di ben 350 pagine commissionato dalla Deutsche Bischofskonferenz ( la Conferenza episcopale tedesca) e anticipato ieri dal settimanale Die Zeit. Nel testo del rapporto, i vescovi ammettono di aver coperto tra il 1946 e il 2014 almeno 3.677 casi di abusi sessuali su bambini e adolescenti, commessi da 1.670 sacerdoti. In sostanza, il 4,4 per cento dei preti nelle diocesi tedesche si è macchiato di molestie o stupri, nella metà dei casi su minorenni.
È altamente probabile, poi, che i numeri siano sottostimati - ammette lo stesso studio redatto in quattro anni e mezzo da una commissione composta da sette studiosi e cinque collaboratori scientifici, oltre a innumerevoli aiutanti. Così come non va trascurato che il committente sia la Chiesa stessa. Nella premessa si legge infatti che nessuno della commissione «ha mai avuto accesso ai documenti originali degli archivi delle diocesi cattoliche. Tutti gli archivi e i dati sono stati esaminati dal personale delle diocesi stesse oppure da avvocati autorizzati a farlo».
Il primo tentativo
Un primo tentativo di ricostruire la mostruosa dimensione degli abusi in Germania era fallito proprio per il rifiuto di un criminologo olandese, Christian Pfeiffer, di partecipare al progetto. Lo studioso aveva lamentato condizioni inaccettabili dettate dai vescovi tedeschi per stilare il rapporto: controllo assoluto dei testi e possibilità, per non meglio specificati « motivi fondati » , di proibirne eventualmente la pubblicazione.
Christian Pfeiffer criticò anche il tentativo di alcune diocesi di distruggere documenti e la resistenza frequente a ogni sforzo di un’analisi indipendente.
E un’eco di queste vecchie accuse si trova anche nell’ultimo rapporto: «In alcuni casi abbiamo riscontrato tentativi palesi di manipolazione » . In due diocesi gli studiosi hanno «trovato esplicite informazioni » sulla «distruzione di documenti riguardanti gli abusi su minorenni registrati in anni lontani ».

La Stampa 13.9.18
Coro Sistina: i soldi finivano nelle tasche del Direttore
di Andrea Tornielli


Proventi di concerti che finivano in conti correnti aperti presso una banca italiana e sfuggivano al controllo dei bilanci venendo utilizzati per spese personali. È l’ipotesi di reato che ha portato la magistratura vaticana a indagare il direttore amministrativo della Cappella Musicale Pontificia Sistina, Michelangelo Nardella e il Maestro direttore del Coro, monsignor Massimo Palombella, prete salesiano. Le ipotesi di reato sono riciclaggio, truffa aggravata ai danni dello Stato (vaticano) e peculato.
Incastrato da un messaggio
La vicenda ha avuto inizio nel giugno scorso, per un episodio che non ha nulla a che fare con l’uso disinvolto dei soldi. Nardella era stato sospeso temporaneamente dal suo incarico con un provvedimento amministrativo per aver «riciclato» un vecchio messaggio di Papa Francesco indirizzato ai partecipanti a un convegno riutilizzandolo per un altro convegno, senza l’autorizzazione dell’interessato e della Segreteria di Stato. Nel contempo, a seguito di segnalazioni e voci, la Santa Sede aveva designato un visitatore apostolico perché svolgesse un’inchiesta ufficiosa interna. Questa inchiesta è ancora in corso. Ma nel frattempo sono emersi i problemi con la gestione delle finanze e l’esistenza dei conti - la cui titolarità era del direttore amministrativo Nardella e del Maestro Palombella - utilizzati per spese personali non collegate con l’attività del Coro. E questo ha portato Papa Francesco ad autorizzare un’inchiesta da parte della magistratura dello Stato della Città del Vaticano. Prima della pausa estiva è avvenuto l’interrogatorio di Nardella, assistito dall’avvocato Laura Sgrò. Nei giorni scorsi è stato interrogato anche monsignor Palombella, assistito dall’avvocato Lucia Musso. L’inchiesta è ancora in corso, le responsabilità non sono ancora state chiarite, dalle prime risultanze apparirebbe più grave la posizione del direttore amministrativo. L’inchiesta interna condotta dal visitatore apostolico, oltre ai problemi finanziari, avrebbe fatto emergere anche alcuni malumori da parte dei genitori dei bambini cantori che frequentano la scuola collegata con il Coro della Sistina e motivati da qualche eccesso di durezza verbale da parte di Palombella. L’attuale Maestro della Cappella Sistina, il coro delegato ad accompagnare le cerimonie papali in Vaticano, è stato nominato nell’ottobre 2010 da Papa Benedetto XVI ed è stato confermato nell’incarico tre anni fa dall’attuale Pontefice.

Corriere 13.9.18
Intervista con il cardinale Bagnasco
«Qualunque ritardo sarebbe imperdonabile»
di Gian Guido Vecchi


«Il mondo guarda a Genova e all’Italia. E l’essenziale è fare bene e presto. Qualunque ritardo per motivi di competizione politica o economica sarebbe imperdonabile, non si specula sui morti». Così il cardinale Angelo Bagnasco, genovese prima ancora che arcivescovo di Genova.
«Il mondo guarda a Genova e all’Italia. E l’essenziale è fare bene e presto, prestissimo. Gli sfollati. E il ponte, che non è solo un pezzo di autostrada ma un’arteria fondamentale, senza la quale la città resta divisa. Nessuno ha la bacchetta magica, è chiaro. Ma qualunque ritardo o freno per motivi di competizione politica o economica, al di là delle difficoltà oggettive, sarebbe gravissimo e imperdonabile. Non si può speculare sul questa tragedia e sui morti. Anche partendo da posizioni diverse, e pensando siano tutte legittime, il criterio per la ricostruzione del ponte si dice in due parole: subito e sicuro». Il cardinale Angelo Bagnasco è genovese, prima ancora che arcivescovo di Genova. Da piccolo, con i genitori e la sorella, viveva in una strada dietro il porto, Salita Montagnola della Marina 4. «È un quartiere cui sono affezionatissimo, la parte più antica di Genova, quasi un’acropoli. Quel piccolo caseggiato esiste ancora, era dietro la vecchia caserma dei Vigili del fuoco, da bambini li guardavamo affascinati da luci e sirene…».
Eminenza, come ha reagito la sua città?
«In modo compatto. Tra cittadini e istituzioni, si è vista una capacità unica di vicinanza, intesa e solidarietà. Ho ringraziato il Signore e ringrazio i genovesi. La forza di carattere del genovese, introverso e riservato ma vero e tenace, si rivela soprattutto nelle difficoltà, come sempre. Sono andato sul posto per ringraziare le forze dell’ordine, i volontari, la Protezione civile…Penso in particolare al lavoro di altissimo livello dei Vigili del fuoco, alla loro generosità: scavando tra le macerie, era come se cercassero i propri cari».
Ha visto i parenti delle vittime?
«L’indomani sono andato all’obitorio, per dire una preghiera. Ho avuto occasione di incontrare molte famiglie. Certo, ci sono state anche parole: perché, com’è stato possibile? Il dolore, gli interrogativi. Ma c’era soprattutto quel silenzio…Il dolore pietrifica. Si cerca una vicinanza umile, silenziosa, che si fa sentire ed è stata recepita».
Un volto che l’ha colpita?
«All’ospedale San Martino, tra i feriti, ricordo un giovane immobilizzato a letto, l’avevano trovato appeso al suo furgone. Mi confidava che la moglie aspetta un bimbo e lui non poteva morire: il pensiero del figlio che stava per nascere gli ha dato una forza immensa, la voglia di vivere».
Qual è la cosa più urgente da fare, ora?
«Penso alla gente e alla città. La gente, anzitutto: duecentocinquanta famiglie sfollate da una cinquantina di caseggiati vicino ai monconi del ponte. Le amministrazioni stanno cercando tutti gli alloggi possibili e noi stessi, come Chiesa, ci stiamo impegnando. Ma queste persone desiderano rimanere nel loro rione e bisogna tenerne conto il più possibile, cercare al più presto soluzioni vicine e ricostruire il quartiere».
Questo ci porta al ponte…
«Ci sono strade ordinarie, ma Genova è lunga e stretta fra mare e monti. È necessario che la città non sia divisa. Si tratta della vita quotidiana, del lavoro…Del resto, al di là delle priorità materiali ce n’è una più profonda, spirituale».
Quale?
«Non perdere la speranza. La speranza è una forza enorme che ti permette di affrontare qualunque difficoltà. Però non è qualcosa che metti in cassaforte e poi ritrovi. Va alimentata, può diminuire o perdersi: e questo sarebbe il disastro più grande. Tra cittadini e istituzioni locali e nazionali c’è bisogno di far crescere la speranza».
Ha messo in guardia da «ogni piccola rendita faziosa». A cosa si riferiva?
«A ogni forma di rivalità che nasca da invidie locali o rendite politiche di qualsiasi natura, per fare bella figura. Non ci si può intestare meriti sulla morte e il dolore».
Teme che tra governo ed enti locali la reazione «compatta» possa incrinarsi?
«Finora ho avvertito un clima di compattezza istituzionale che deve continuare a produrre frutti. Sono convinto che la nostra città abbia tutte le risorse morali e le eccellenze lavorative per rialzare la testa, come ha già fatto nelle tragedie del passato: tutti i soggetti si sono messi assieme senza rivalità inutili. Per questo dico che qualunque diatriba o lungaggine per interesse politico o economico sarebbe imperdonabile».
E quindi?
«Ci sono già state decisioni ma occorrono subito interventi precisi, accelerazioni normative che riconoscano lo stato di emergenza. Penso al rione da ricostruire e al ponte: subito, sicuro, genovese e anche bello, già che ci siamo. Il mondo ci guarda. Guai se prevalesse l’impressione che si è fermi o attendisti».

il manifesto 13.9.18
Nazionalismi all’attacco, da Est e da Ovest, l’onda nera contro la preda europea
Respinta l'onda nera. Le frustrazioni dell’Est e dell’Ovest dirottate verso lo spauracchio dell’immigrazione e di una élite cosmopolita ma non contro i grandi capitali multinazionali
di Marco Bascetta


Dunque il parlamento europeo, organismo eletto a suffragio universale, ha finalmente battuto un colpo, questa volta di natura politica, contro l’Ungheria di Victor Orban, stabilendo con ampia maggioranza che nell’Unione non è consentito fare carta straccia dello stato di diritto. Forse l’“onda nera” dei nazionalismi comincia a preoccupare davvero.
In realtà ad abbattersi sulle estenuate democrazie del Vecchio continente sono stati almeno due frangenti. L’uno proveniente dall’Est, l’altro dall’Ovest. Hanno destato allarme e stupore i sondaggi che incoronano l’Afd, la formazione nazionalista e xenofoba tedesca, primo partito nei Laender della ex Rdt. Il fatto è che quelle regioni, nonostante l’Anschluss del 1990, condividono non poco della propria esperienza con gli altri paesi già appartenuti al blocco sovietico, perfino in forme ancora più gravose. Non vi è dunque troppo da stupirsi se vi circolino stati d’animo non dissimili da quelli che attraversano i paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia).
Al miraggio del libero consumo, prima ancora che del libero mercato, avrebbe fatto seguito un apprendistato piuttosto duro, una condizione di disorientamento divisa tra la vendetta contro il passato e il timore nei confronti di un futuro fuori da ogni reale possibilità di controllo. I professorini dell’economia di mercato, i demolitori del vecchio Welfare, i maghi delle privatizzazioni, volendo bloccare sul nascere ogni transizione democratica favorevole ai più svantaggiati, non avevano che la “patria” da offrire a quelli che di fatto sarebbero diventati cittadini di serie B, scolaretti da ricondurre a una nuova disciplina. Il capitale occidentale in tutto l’Est non agì in maniera differente, sebbene più prudente e indiretta. Insomma qualche sacrificio per il bene della patrie convertite al liberismo bisognava pur farlo.
La pozione velenosa fu somministrata con successo e le frustrazioni dirottate verso lo spauracchio dell’immigrazione e di una “élite cosmopolita” identificata esclusivamente nelle deboli istanze politiche sovranazionali, ma ben guardandosi dall’urtare la suscettibilità dei grandi capitali multinazionali di cui con ogni mezzo si cercava e si cerca il favore. Questa combinazione non poteva che condurre a una generale ripresa del nazionalismo e della retorica patriottica con l’evidente connotato patriarcale che anche etimologicamente la pervade.
Che questa evoluzione dovesse entrare in rotta di collisione con lo “stato di diritto”, peraltro logorato dalle diseguaglianze crescenti e dalle “politiche di emergenza” che si sono susseguite senza tregua in tutta Europa, era una circostanza facilmente prevedibile. L’Ungheria di Orban e le altre “democrazie illiberali” dell’est non sono il prodotto di un oscuro subconscio continentale, ma di ben precise scelte politiche volte a garantire il processo di accumulazione e il controllo occidentale sul disfacimento del blocco sovietico. Così, nonostante la condanna del parlamento europeo non sarà facile mandare sotto processo l’uomo forte di Budapest e perfino metterlo alla porta del Ppe, maggioranza conservatrice e ufficialmente europeista nel parlamento di Strasburgo. Le reazioni delle “democrazie illiberali” non si faranno attendere.
Come gli umori nazionalisti dei Laender dell’est si riflettono sugli equilibri politici dell’intera Germania (il potere di ricatto del ministro degli interni Seehofer sulla coalizione di governo lo testimonia sufficientemente), così il nazionalismo ungherese, polacco, ceco, riverbera sull’assetto politico dell’Unione.
Ma veniamo al secondo frangente. Quello che ad est ha prodotto l’apprendistato al libero mercato, ad ovest è stato opera della grande crisi dei debiti sovrani.
Soprattutto le più indebitate economie meridionali si sono ritrovate in una condizione analoga a quella dei cittadini della ex Ddr. Anche qui si trattava di tornare sui banchi di scuola per imparare la dura disciplina del risparmio e della sobrietà e anche qui bisognava farlo senza alterare gerarchie sociali, rendite e profitti, salvaguardando la sacra legge della concorrenza e dislocando dunque fuori dalla “patria” le cause di ogni male.
Il nazionalismo nordico si fondava invece sulla difesa della rendita dai “parassiti” del sud, dai cosiddetti “turisti del Welfare” e sulla salvaguardia della propria posizione di mercato. Sospingendo a sua volta fuori dai confini nazionali e dal proprio modello di sviluppo contraddizioni e disagio sociale. In questi elementi di conflitto risiede quell’inconsistenza dell’alleanza puramente ideologica tra nazionalismi che, nella sostanza, coltiva il germe della guerra di tutti contro tutti. Come si può agevolmente constatare non appena sul tappeto vi siano questioni concrete. A partire dalle politiche contro l’immigrazione che tutti sembrano accomunare e che invece tutti dividono. Insomma, la “fortezza Europa” va prendendo la forma di un ancor più soffocante mosaico di singoli fortilizi.
A completare un quadro già fosco l’interesse dell’America di Donald Trump e della Russia di Putin a utilizzare la leva nazionalista per disgregare l’Unione europea, minarne la forza economica e cancellarne le potenzialità politiche. Piluccando tra le miserie delle redivive sovranità nazionali in competizione fra loro.
L’“onda nera” si regge su un castello di menzogne e di false promesse, nonché sul sostanziale antieuropeismo degli europeisti al potere prigionieri delle proprie priorità nazionali.

Repubblica 13.9.18
M5S e Lega
L’alleanza rosso-bruna
di Piero Ignazi

Piero Ignazi è professore di Politica comparata presso l’Università di Bologna Il suo ultimo libro è "I muscoli del partito" (il Mulino, 2018) scritto con Paola Bordandini

Che cosa c’è di "unico" nell’alleanza tra 5Stelle e Lega? È il primo caso di un matrimonio tra un partito che ha prevalentemente obiettivi sociali e uno che privilegia quelli nazionalisti- sovranisti e sicuritari. Certo, anche in Grecia, il partito di sinistra radicale, Syriza, si è appoggiato su una forza nazionalista, Anel, ma è Syriza a dominare in tutto e per tutto sia per lo squilibrato rapporto di forze sia per l’inconsistenza politica di Anel ( che non è nemmeno riuscita a evitare che alla fine il governo greco cedesse sulla questione macedone, una diatriba vecchia di quasi trent’anni sul nome della Repubblica balcanica).
Uno studio elaborato dall’Istituto Cattaneo sui programmi elettorali collocava il M5s in un quadrante di sinistra sui temi socio-economici ben lontano dalla posizione neoliberista (pur con alcune sfumature stataliste della Lega). E comunque quello che motivava la scelta degli elettori per i due partiti erano temi radicalmente diversi: reddito di cittadinanza e altre misure "sociali" (più ostilità all’establishment) per i 5Stelle, immigrazione e sicurezza per la Lega. L’incontro tra i due partiti, come è noto, è stato frutto, principalmente, di circostanze peculiari, di una irrefrenabile voluptas governandi dei grillini unita all’incapacità politica del Pd di gestire il rapporto con loro, NON per fare un governo assieme ma per disinnescare la bomba di un accordo tra leghisti e pentastellati.
Ora il governo è nato e il rischio maggiore, al di là delle prevedibili deficienze gestionali, riguarda la saldatura politica tra due mondi: quello delle preoccupazioni sociali e quello delle priorità nazionali. In altri termini, di una unione "nazional-socialista". Intendiamoci: non stiamo parlando di una riedizione del passato nazista; non ci sono squadracce di manganellatori pronti per spedizioni punitive. Il contesto è sideralmente diverso. Ma le pulsioni che animano questo incontro ricordano la sintesi rosso-bruna dei movimenti anti- liberali degli anni Venti- Trenta. Come ricordava il grande storico israeliano del fascismo Zeev Sternhell, la sintesi « al di là della destra e della sinistra » di quegli anni si realizzò grazie al contributo di strati sociali popolari, delusi e sfiduciati dalla incapacità dei propri rappresentanti di fronte alla grande crisi del ’29. La perdita di credibilità della prospettiva socialdemocratica, a cui contribuì anche il massimalismo comunista, gettò le classi popolari nelle braccia dei nazionalisti che offrivano anch’essi un programma di assistenza sociale e, in più, una forte identità nazionale che cementasse una comunità spaesata (come oggi di fronte alla globalizzazione).
Quello che sta accadendo in questi mesi pone le premesse per questa saldatura "nazional-socialista". L’accoglienza che le tirate protomussoliniane di Salvini ricevono dall’opinione pubblica riequilibra e forse sommerge le inclinazione welfariste e socialisteggianti old style ( vedi il ritorno alle nazionalizzazioni) dei pentasellati. Ma il perdurare dell’accordo consente a questa sintesi di rafforzarsi in un solo progetto. E gli applausi di Genova per il governo gialloverde, oltre all’indice di gradimento che continua a livelli inediti, legano a filo doppio l’alleanza. Non per nulla la sferzata antileghista di un leader pur tanto amato dal popolo grillino come Di Battista ha lasciato fredda la classe dirigente del partito. Solo chi è oltre oceano non ha colto il clima dei tempi in terra italiana: anzi, il colore dei tempi che vira dal giallo-verde al rosso-bruno.

Corriere 13.9.18
L’altolà di Mattarella: i politici non sono al di sopra della legge
di Marzio Breda


La replica è arrivata. In punto di diritto. Con parole sue e di Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica in una stagione difficile. «Nessuno è al di sopra della legge. Neanche i politici», sillaba Sergio Mattarella, e in questa sintesi è chiaro il riferimento al ministro dell’Interno Matteo Salvini, in polemica con le toghe per un doppio «sequestro»: quello dei fondi della Lega e quello della nave Diciotti. Attacchi compiuti rivendicando d’essere «eletto dal popolo» mentre «altri», i magistrati, «non sono eletti da nessuno e non rispondono a nessuno».
Certo: dopo quella dichiarazione, che ha creato tensioni con gli alleati 5 Stelle, il leader leghista ha poi corretto il tiro. Ma il capo dello Stato non voleva lasciar passare un simile schiaffo senza un ammonimento. Un memorandum che vale per Salvini (non nominato) come per ogni esponente politico e di cui bisogna considerare che, se fosse pronunciato davanti al plenum del Csm, sarebbe assai più dirompente. Meglio allora cogliere l’occasione del centesimo anniversario della nascita di Scalfaro, ieri a Montecitorio, per entrare in tema. Con un ricordo di ciò che il suo predecessore disse alla Costituente: «La magistratura non può e non deve fermarsi mai nella sua opera di giustizia nei confronti di chicchessia; ma non si deve neppure dare l’impressione che in quest’opera vi possa essere la contaminazione di una ragion politica».
Per scongiurare tale rischio Scalfaro si oppose, con Calamandrei e Leone, a chi proponeva giudici eletti dal popolo o sottoposti al controllo del ministro della Giustizia. E la sua obiezione era questa: «Non potrà mai esservi giustizia di destra, centro o sinistra. Guai a porre a fianco del sostantivo giustizia un qualunque aggettivo». In definitiva, e stavolta quella di Mattarella non è una citazione storica, «poiché nel nostro ordinamento non esistono giudici elettivi», va sempre tenuto conto che «i nostri magistrati traggono legittimazione e autorevolezza dal ruolo che loro affida la Costituzione. Non sono, quindi, chiamati a seguire gli orientamenti elettorali, ma devono applicare la legge e le sue regole». Regole che «valgono per tutti, senza aree di privilegio per nessuno, neppure se investito di pubbliche funzioni, neppure per gli esponenti politici. Perché nessun cittadino è al di sopra della legge».
Acuminata la controreplica di Salvini. «Il presidente ha ricordato che nessuno è al di sopra della legge: ha ragione. Per questo io, rispettando la legge, la Costituzione e l’impegno preso con gli italiani, ho chiuso e chiuderò i porti a scafisti e trafficanti di esseri umani... Indagatemi e processatemi, io vado avanti».

il manifesto 13.9.18
«Nessuno è sopra la legge». Ma Salvini risponde picche
Il presidente della Repubblica. Conte al senato, slalom sulla Diciotti: difende Salvini, e attacca chi rompe il vincolo di solidarietà della Ue: e cioè Orbàn, l'amico del ministro degli interni. Contro cui 5S ha votato
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte
di Daniela Preziosi


Nei giorni degli attacchi di Salvini ai pm, un grande revival a destra, la celebrazione del centenario della nascita di Oscar Luigi Scalfaro – il presidente della Repubblica che Berlusconi chiamava «golpista» e che da ex guidò le piazze contro la riforma costituzionale di Berlusconi – era l’occasione perfetta per un intervento quirinalizio sul rapporto fra giustizia e politica, anzi politici.
Tre giorni fa il ministro dell’interno aveva pubblicato su facebook l’avviso di garanzia ricevuto per la vicenda della nave Diciotti e a sua volta aveva «avvertito» i pm: «Io sono eletto dal popolo», voi no. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Legnini aveva parlato di «lesione dell’indipendenza dei magistrati», la reazione dei magistrati era stata dura, l’imbarazzo di M5S palpabile.
Ma Mattarella, che del Csm è presidente, ha un temperamento ben diverso da quello del predecessore: ha lasciato sfiammare la polemica per due giorni e al momento più opportuno, ieri, senza mai nominare Salvini, ha messo il suo carico istituzionale sulle parole del ministro: «Nessuno è al di sopra della legge, neppure gli esponenti politici. Il rispetto delle regole è rispetto della democrazia», ha detto, e quanto alla non elettività dei giudici, «nel nostro ordinamento non esistono giudici elettivi: i giudici traggono la loro legittimazione dalla Costituzione».
Mattarella corregge Salvini anche sul punto della politicizzazione dei magistrati, altro grande classico berlusconiano che l’ex alleato ha riesumato da quando la Lega è chiamata a risarcire – anche a rate – 49 milioni all’erario pubblico. «Non potrà mai esservi giustizia di destra, di centro o di sinistra. Guai a porre a fianco del sostantivo giustizia un qualunque aggettivo. Alla base della democrazia due colonne stanno, entrambe salde: la libertà e la giustizia».
Ma se Mattarella non è Scalfaro, anche Salvini non è Berlusconi. Il leghista, azionista di peso crescente di un governo giustizialista non può reggere fino in fondo la polemica contro le toghe come faceva il Cavaliere. Non gli resta che spingere i toni al limite dello sberleffo, sua specialità: Mattarella «ha ragione», twitta, «per questo io, rispettando legge, Costituzione e impegno preso con Italiani, ho chiuso e chiuderò i porti a trafficanti di esseri umani». Come ha fatto nella vicenda della Diciotti, ora al vaglio della giustizia. Ieri il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, che ha aperto l’inchiesta, ha ricevuto per posta un proiettile e minacce di morte.
Del caso Diciotti ieri ha parlato anche il premier Conte, chiamato al senato a riferire dei dieci giorni in cui il governo ha negato l’attracco a una nave della Guardia costiera italiana. Conte ha rivendicato tutto e scaricato la responsabilità del comportamento dell’Italia verso i migranti e l’equipaggio sul disimpegno di Malta. E, nel giorno in cui M5S a Strasburgo votava contro il sovranista ungherese Orbàn, ha attaccato le (abbondanti) falle Ue: «L’Italia non è più disponibile ad accogliere indiscriminatamente i migranti» «supplendo alla responsabilità che spetta all’Unione, ottundendo il vincolo di solidarietà che grava su ciascuno Stato membro». Quel vincolo che Orbàn non rispetta. Applaudito da Salvini, regista del caso Diciotti. E che lui, Conte, difendeva in aula.

Repubblica 13.9.18
Il Quirinale e l’equilibrio dei poteri
di Stefano Folli


Il richiamo di Sergio Mattarella alla Costituzione, cui tutti devono deferire, non è il primo passo di uno scontro istituzionale. Certo, chiunque ha inteso che le parole del presidente della Repubblica erano rivolte a Salvini.
Ma non è nell’interesse di nessuno che sia varcata la soglia che separa il monito — come si dice in questi casi — dall’apertura di un conflitto devastante. Non è questo che vuole il capo dello Stato, non a caso attento a calibrare con scrupolo ogni parola. E a ben vedere non è nemmeno nell’interesse del frenetico ministro. Il quale non può non sapere che il suo consenso pubblico, ormai imponente, ha pur sempre un tallone d’Achille. Ed è il rischio di generare instabilità e incertezza presso un elettorato, che vuole sicurezza e un freno agli immigrati, ma apprezza poco tutto ciò che minaccia il lavoro, la produzione e il mercato.
Salvini si muove sempre sul crinale.
Attacca i magistrati, rinfaccia loro di "non essere eletti", lascia intendere che le inchieste che lo riguardano a proposito della nave Diciotti sono parte di un’operazione politica, ironizza, appende l’avviso di garanzia sulla parete dell’ufficio... insomma si comporta come nessun ministro dell’Interno ha fatto in tempi recenti.
Il meno che poteva attendersi è che Mattarella lo redarguisse con un "memento" circa i doveri istituzionali, il primo dei quali è il rispetto dei propri ambiti e degli altri poteri dello Stato. Ma sarebbe un errore non leggere l’altra parte dell’intervento del presidente.
Laddove ricorda anche ai magistrati — e non è la prima volta — i loro doveri: il primo dei quali consiste nel non abusare dell’autonomia garantita dalla Costituzione. Fare politica con la toga è un peccato civile, si potrebbe dire, che scardina l’equilibrio generale, creando le premesse per un’eterna sfida all’Ok Corral.
In breve, ora tocca al leader leghista mostrare senso della misura. Tutti i sondaggi registrano un successo così ampio del messaggio nazionalista che adesso la scommessa è un’altra: riuscirà il vicepremier a fermarsi per consolidare sul piano istituzionale la propria immagine? Ovvero proseguirà a testa bassa a costo di rendere inquieto il suo stesso elettorato? Le parole di Mattarella, sotto questo profilo, sono un buon test (uno "stress-test", si potrebbe dire) per valutare quale indirizzo prevarrà.
Continuare infatti a contrapporre il successo elettorale al diritto, cioè alle regole di fondo di una democrazia, è una strada che porta in un vicolo cieco.
Mattarella in fondo ha fornito a Salvini un buon consiglio, se saprà coglierlo senza dar retta agli oltranzisti.
Altra cosa è il dibattito politico con il contrapporsi delle opposte propagande.
Ci sono pochi dubbi che siamo agli esordi della campagna elettorale per le europee di maggio. Sarà una campagna aspra. Il voto che ha condannato Orbán a Strasburgo equivale all’inizio di una corsa senza esclusione di colpi.
Europeisti contro sovranisti, viene sottolineato. Nella speranza che la guerra non porti alla dissoluzione dell’Unione.
Vero è che mai come il prossimo anno l’Europa sarà protagonista del voto, nel bene o nel male. Sulla carta gli europeisti prevalgono (come nel voto anti-Orbán), ma nessuno oggi può dirsi sicuro vincitore. Anzi, la debolezza del fronte europeista è duplice. Primo, il rischio di dover difendere l’Europa così com’è, con tutte le sue storture. Secondo, non disporre di un leader davvero credibile.
Dovrebbe essere Macron, ma la sua popolarità ai minimi termini e la sua inimicizia verso l’Italia in Libia complicano il quadro in modo imprevisto.

Repubblica 13.9.18
L’ambasciatore d’Italia
Perrone non torna in Libia: " È in pericolo"
di Vincenzo Nigro


Tripoli, Libia
L’ambasciatore Giuseppe Perrone non rientra a Tripoli dall’Italia. E molto probabilmente non ci ritornerà mai più. Ieri il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha confermato in Senato a Roma che Perrone è stato considerato "in pericolo" dopo le reazioni a una lunga intervista in arabo rilasciata a una tv libica.
Intervista che aveva provocato una reazione dura della parte politica che fa capo al generale Khalifa Haftar: una commissione del Parlamento in Cirenaica aveva dichiarato l’ambasciatore "persona non grata". Da mesi il campo di Haftar per accusare l’Italia aveva messo nel mirino anche il suo inviato diplomatico che, seguendo le direttive del governo, difendeva di continuo il Consiglio presidenziale di Fajez Serraj.
Perrone quindi è "congelato", sospeso. Da metà agosto l’ambasciatore era in Italia: prima aveva deciso lui stesso di mettersi in ferie. A un certo punto è stato il ministero a scegliere di non rimandarlo più a Tripoli. Ieri Moavero l’ha detto apertamente: «Preoccupazioni sulla sua sicurezza e incolumità personale e di quelli che lavorano con lui consigliano in questa fase di restare in Italia».
Ha confermato che «a seguito di un’intervista a una tv che l’ambasciatore aveva deciso autonomamente di dare in lingua araba sono sorti quelli che se fossimo in un contesto italiano definiremmo malintesi. Essendo purtroppo il contesto libico molto più difficile, questi malintesi provocano emozioni molto più forti di quelli che si manifesterebbero nel nostro contesto, ci sono stati manifestazioni di piazza, prese di posizione forti». Non è possibile fare un collegamento diretto, ma due settimane fa accanto all’ambasciata è piombato anche un razzo Grad: ha colpito l’albergo Al Waddan, ma per molti il vero obiettivo era proprio il palazzotto bianco italiano sul lungomare di Tripoli. Quel razzo potrebbe essere un esempio delle "emozioni forti" temute da Moavero. Delle sorti di Perrone si parlava ormai da settimane: la notizia del suo congelamento e addirittura della sua sostituzione era stata anticipata per esempio dalla newsletter francese Africa intelligence il 30 agosto con il titolo «l’Italia sacrifica Perrone per far piacere ad Haftar».

Repubblica 13.9.18
Il reportage
La guerra in Siria
L’ultima preghiera di Idlib " Non lasciateci soli a morire"
Tre milioni di persone aspettano lo scontro che deciderà il conflitto. Per l’Onu "sarà la peggiore catastrofe umanitaria del secolo". Ma Assad e Putin sono decisi a conquistare la sacca di resistenza: anche a costo di sacrificare i civili
di Pietro Del Re


IDLIB.Terrorizzata dal rombo dei caccia russi, così persistente in queste ore, Nur non chiude occhio da una settimana. E sebbene rintanata assieme ai genitori nello scantinato di un palazzo alto tre piani, dopo lo schianto di ogni missile sparato dal cielo e di ogni barile di esplosivo sganciato dagli elicotteri da combattimento di Damasco, la bambina comincia a tremare. «Abbiamo già subìto questo tipo di bombardamenti massicci ad Aleppo, da dove siamo fuggiti nel 2016, e per lei ogni bomba è un annuncio di morte: a 9 anni ha visto cose che nessuno dovrebbe vedere», sospira il padre della piccola, Mahmoud, 38 anni, baffi ispidi e capelli irti, che con la sua vecchia Peugeot mi fa da guida nella provincia nord-occidentale di Idlib. Ex ingegnere, Mahmoud insegna oggi in una scuola di Maarat al-Numan, cittadina a una trentina di chilometri dal capoluogo Idlib, bersagliata dallo scorso weekend dai Sukhoi di Mosca.
Per arrivarci attraversiamo buona parte dell’ultima roccaforte della rivolta contro il regime siriano, costretti a lunghe deviazioni per aggirare le porzioni della provincia nelle mani di Hayat Tahrir al-Sham, l’alleanza jihadista legata ad Al Qaeda.
Questa regione, che era una volta il granaio della Siria, presenta ora un’infinita distesa di campi profughi, sparsi in mezzo a edifici sventrati e a radure butterate dai crateri. Tra colline spelacchiate e campi incolti non vedo una casa o una moschea che non sia stata ferita dalle bombe. Nulla è rimasto intatto. «I raid di questi giorni sono soltanto l’assaggio di quello che ci aspetta perché, com’è capitato altrove, i bombardamenti dell’aviazione russa serviranno a spianare la strada all’offensiva di terra delle truppe del regime con l’aiuto delle forze iraniane».
Nel 2011, prima che scoppiasse la guerra, qui vivevano 700mila persone, ma con l’afflusso di chi è fuggito dalle città riconquistate dall’esercito lealista - fra cui Homs, Aleppo, la Ghouta orientale e più recentemente Daraa - nella provincia se ne contano oggi 3milioni. Di queste, più dei due terzi sopravvivono soltanto grazie agli aiuti umanitari, per lo più forniti dalla vicina Turchia, in campi dove mancano elettricità, acqua corrente e fogne. Lunedì scorso, il responsabile umanitario delle Nazioni Unite, Mark Lowcock, ha dichiarato che un attacco da terra su grande scala provocherebbe «la peggiore catastrofe umanitaria nel 21esimo secolo, con la più grande perdita di vite umane». Per credergli, basta vedere quello che sta accadendo dopo i raid degli ultimi giorni, che hanno spinto 30mila profughi a lasciare le tende dov’erano accampati nel sud della provincia, perché anch’esse centrate dai razzi. Avvicinandoci a Maarat al-Numan, intercettiamo alcuni di questi disperati che adesso vagano senza meta, intrappolati in una terra che ha così tanti rifugiati da non poterne più accogliere. Già, perché sempre secondo l’Onu, è proprio in questa regione che si registra la più grande concentrazione di rifugiati al mondo. «Troveranno rifugio tra le rovine di qualche edificio distrutto perché non hanno altri posti dove andare», dice ancora Mahmoud.
Certo, la provincia s’è anche trasformata in un santuario per jihadisti, anch’essi provenienti da tutto il Paese dopo le sconfitte di questi anni (sarebbero circa 15mila, secondo le stime degli esperti). Sono loro che il regime di Assad e suoi alleati russi e iraniani vogliono sterminare. Lo stesso Vladimir Putin ha dichiarato che il regime siriano ha il diritto di incidere questo bubbone «e di riprendersi il controllo della regione». E il presidente iraniano Hassan Rouhani gli ha subito fatto eco sostenendo che «il terrorismo va sradicato dalla Siria, in particolare da Idlib».
Ma nel vasto mosaico dell’insurrezione queste milizie estremiste non prevalgono, sebbene la propaganda governativa ne abbia sempre esagerato l’importanza per giustificare i suoi massacri. Per questo, Mahmoud è certo che ancora una volta saranno i civili a pagare il prezzo più alto: «Solo sabato, i russi hanno lanciato 60 raid in tre ore, lasciando sotto le macerie 120 persone e centrando 4 ospedali. Ad ogni morto ammazzato che vedo, bruciato dall’esplosione di un razzo o avvelenato da un’arma chimica, mi chiedo che cosa fanno le grandi potenze, e che cosa aspettano a intervenire per evitare un ennesimo bagno di sangue».
I ribelli, intanto, siano essi jihadisti o appartenenti al nuovo Fronte di liberazione nazionale in cui è confluito l’Esercito libero siriano, si preparano tutti all’avanzata delle truppe lealiste facendo saltare i pochi ponti ancora non abbattuti da un missile, scavando trincee o creando nuove alleanze tra fazioni avverse per contrastare il nemico comune. Anche Ankara si accinge a fermare la potenziale ondata di profughi che l’offensiva di terra farebbe inevitabilmente tracimare in Turchia, con Erdogan che ha già avvisato di non essere disposto a farsi carico di altri 800mila profughi (tanti ne prevede l’Onu) poiché il suo Paese già ne accoglie 3,5 milioni.
All’alba di ieri, avvicinandomi alla frontiera siriana, ho per caso assistito a parte di un imponente dispiegamento di mezzi blindati e tank turchi lungo la confinante regione di Antakya.
Spaventate dalle conseguenze di un possibile attacco, quali per esempio la dispersione dei foreign fighters oggi concentrati a Idlib, le cancellerie occidentali lanciano moniti e minacce. Ma dipende tutto da Putin: soltanto lui potrà decidere se scatenare una tempesta di fuoco anche su Idlib, come ha già fatto sulle altre roccaforti della rivolta, oppure se frenare i suoi caccia lasciando combattere alle truppe lealiste una guerra di posizione dall’esito incerto. I bombardamenti degli ultimi giorni lasciano presagire il peggio.
A sera, accomiatandomi dalla piccola Nur m’accorgo che il suo viso è di un biancore azzurrognolo. Le faccio una carezza, e alla fine riesco anche a strapparle un sia pur mesto sorriso.

La Stampa 13.9.18
Il sessantotto della scienza
Nell’anno della contestazione, James Watson pubblica il libro in cui racconta come ha scoperto il segreto della vita, con Francis Crick, rivelando anche la competizione feroce tra ricercatori
di Piergiorgio Odifreddi


Quando si pensa al ’68, di cui quest’anno si celebra il cinquantenario, si ricordano soprattutto gli eventi politici e sociali che i giornali e le televisioni avevano portato alla ribalta.
Ce n’è per tutti i gusti: o meglio, per tutti, meno quelli scientifici. Eppure almeno due eventi, uno tecnologico e uno culturale, non solo non sfigurerebbero tra gli altri della lista, ma ne farebbero sfigurare molti di quell’anno formidabile. Si tratta, da un lato, della missione Apollo 8, che ci portò per la prima volta vicino alla Luna, facendoci vedere da lontano l’insignificanza cosmica di quell’“aiuola che ci fa tanto feroci”. E, dall’altro lato, del libro La doppia elica di James Watson, che ci fece invece vedere da vicino la scienza nuda e cruda, spogliata di tutte le romantiche visioni del “seguir virtute e canoscenza” di cui fino ad allora amava agghindarsi. Il libro di Watson fu, e rimane, una splendida eccezione nel campo della divulgazione e della sociologia scientifiche. Non era infatti, come spesso sono i best seller, l’opera di uno dei soliti divulgatori o sociologi da strapazzo, usi a infiocchettare cose che non capiscono, o criticare cose che non conoscono. Si trattava invece del resoconto della più importante scoperta scientifica di metà Novecento, fatto in prima persona da quello che è tuttora il più famoso scienziato vivente.
La scoperta era la struttura a doppia elica del Dna, che dà appunto il titolo al libro, e costituisce una delle icone scientifiche del Novecento. Watson la trovò insieme a Francis Crick la mattina del 28 febbraio 1953, e quando quel giorno i due andarono a pranzo con dei colleghi, il secondo annunciò loro: “Oggi abbiamo svelato il segreto della vita”. E non era una boutade, ma la pura e semplice verità: dopo millenni di inconcludenti discorsi religiosi e filosofici al proposito, si era infatti finalmente capito come si trasmettono i caratteri ereditari dai genitori ai figli, aprendo la strada alla genetica moderna.
Quando Watson pubblicò il suo libro nel 1968 erano passati solo quindici anni da quello storico momento, ma erano già successe molte cose. Sul lato personale, lui e Crick avevano vinto nel 1963 il Nobel per la Medicina, e il premio aveva fatto di Watson uno dei suoi più giovani vincitori: al momento della scoperta egli era infatti soltanto un ragazzo di 24 anni, che andava ancora letteralmente in giro con i calzoni corti, e al momento della premiazione ne aveva dunque soltanto 34.
Sul lato scientifico, invece, alla fine del loro primo e storico articolo Watson e Crick (con i nomi in quest’ordine, visto che l’idea cruciale dell’accoppiamento delle basi l’aveva avuta il primo) lasciarono cadere questo tipico understatement inglese, che divenne una delle più memorabili citazioni scientifiche: “Non è sfuggito alla nostra attenzione che lo specifico accoppiamento che abbiamo postulato suggerisce immediatamente un possibile meccanismo di copiatura del materiale genetico”.
Le promesse implicite in quella profezia erano puntualmente state mantenute, e nel 1968 si conosceva ormai completamente il codice genetico che tutta la vita, “dal batterio all’elefante”, usa per riprodursi. Gli stessi Watson e Crick avevano parzialmente contribuito alla sua determinazione, anche se fu soprattutto Marshall Nirenberg a stabilire nel dettaglio il legame tra le 64 triplette di basi azotate che costituiscono le parole del linguaggio genetico e i 20 aminoacidi che costituiscono i mattoni delle proteine: per questo anch’egli vinse il premio Nobel per la medicina, proprio nel 1968.
Ma tutto era iniziato appunto dalla scoperta della doppia elica del Dna, e il libro di Watson ne racconta la storia come se fosse un romanzo: talmente bene dal punto di vista scientifico, e in maniera talmente avvincente dal punto di vista umano, che ebbe un successo strepitoso, diventando il libro scientifico più letto del Novecento. Esso rimane tuttora la migliore introduzione all’argomento, e le messe da requiem sul ’68 non verrebbero cantate invano, se raggiungessero anche solo il risultato di farlo leggere a chi ancora non lo conosce, e rileggere a chi già lo conosce.
La doppia elica esibiva il proprio stile fin dall’incipit: “In vita mia non ho mai visto Francis Crick in vena di modestia”. Poiché il resto proseguiva sullo stesso tono, Crick non la prese bene, ma non potendo cambiare la testa di Watson, lo costrinse almeno a cambiare editore: convinse infatti la Harvard University Press a non pubblicare il libro, e le fece perdere un affare da milioni di copie. Crick pensò a suo tempo di replicare con un proprio libro, intitolato L’elica svitata, che a sua volta avrebbe dovuto incominciare così: “Jim è sempre stato maldestro con le mani, bastava guardarlo mentre sbucciava un’arancia”, ma poi lasciò perdere.
Molti altri scienziati si seccarono perché Watson aveva raccontato non soltanto la storia scientifica della ricerca della doppia elica, ma anche quella umana della competizione senza esclusione di colpi fra coloro che gareggiavano per trovarla. Watson e Crick, che lavoravano nella Cambridge inglese, avevano due avversari principali: Linus Pauling a Pasadena, il massimo chimico vivente, che avrebbe poi vinto ben due premi Nobel (uno per la Chimica e l’altro per la Pace), e Rosalind Franklin a Londra, una cristallografa che non si rivelò essere all’altezza delle fotografie a raggi X che scattava al Dna.
Pauling si mise fuori gioco da sé quando propose un modello astratto a tripla elica, senza tener conto dei dati concreti che erano a disposizione: Watson e Crick si accorsero subito del suo errore, e capirono che dovevano sbrigarsi, perché presto se ne sarebbe accorto anche Pauling. La Franklin invece non entrò nemmeno nel gioco, perché riteneva che fosse troppo presto fare modelli del Dna, e che bisognasse invece continuare a far foto.
La svolta avvenne quando Maurice Wilkins, che non sopportava la Franklin, mostrò di nascosto a Watson una delle foto, che gli rivelò immediatamente il segreto che la Franklin non aveva saputo vedere. Anche Wilkins prese poi il premio Nobel nel 1963: ufficialmente per la medicina, ma ufficiosamente per lo spionaggio. La Franklin ormai era morta di cancro nel 1958, ma se fosse sopravvissuta l’avrebbe forse vinto lei, per la fotografia: in ogni caso nessuno la candidò mai da viva, per motivi che non sono ovvi solo alle femministe.
Queste e altre vicende si trovano nel libro di Watson, e ancor più ce ne sono nell’edizione ampliata uscita nel 1980 (pubblicata in Italia da Garzanti), che riporta una lunga serie di recensioni che danno voce anche ai critici di Watson. Leggere il quale è un po’ come leggere Voltaire: non c’è bisogno di essere d’accordo con tutto ciò che dice, ma non si può che ammirarne l’intelligenza, l’arguzia e la non convenzionalità. Voltaire e Watson sono i veri sessantottini, mentre quelli di allora non erano che pallide caricature.

La Stampa 13.9.18
Remo Bodei
“La verità con-vince non si impone con la violenza”
di Francesca Sforza


La verità è una o sono tante? Il dilemma - antico e modernissimo - è al centro della 18a edizione del Festivalfilosofia, in programma a Modena, Carpi e Sassuolo da venerdì a domenica, dove nel corso di circa 200 appuntamenti, sparsi in oltre 40 luoghi delle tre città, accademici e intellettuali tenteranno di avvicinare la lezione dei classici alle piazze contemporanee. Della sfida abbiamo parlato con Remo Bodei, filosofo e tra i curatori del Festival, a cui non sfugge, nell’epoca del trionfo delle fake news, l’enormità dell’impresa.
Professor Bodei, quando si comincia a interrogarsi sul senso della verità?
«Per la tradizione occidentale l’inizio della domanda sulla verità si ha in Grecia, intorno al V secolo a.C, ma è da Platone in poi, e soprattutto con Aristotele e gli Stoici, che il tema della verità diventa centrale. Rispetto a Erodoto e ai Sofisti, che avevano una visione relativistica della verità (ognuno ha la sua verità), con Platone si pone esplicitamente il problema di un tipo di verità universale, valida per tutti, oggettiva».
Quindi il contrario della verità è l’opinione?
«Fino a un certo punto è stato così, ma già con Platone la verità ha a che fare sia con le opinioni che non sono in grado di giustificarsi, sia con il falso. Il compito del filosofo è proprio quello di mettere a fuoco una verità oggettiva, di cui ognuno possa essere convinto. Che bella la parola “convinto”: essere vinto insieme con gli altri, non dalla violenza di chi impone la propria verità, ma da qualcosa che ciascuno riconosce come vero indipendentemente dalle singole opinioni».
Che spazio c’è per la verità in politica?
«La filosofia e la politica hanno logiche diverse: l’una si occupa della verità, l’altra non può farlo a causa della molteplicità di interessi cui è vincolata e che deve conciliare per soddisfare la maggioranza di chi la sostiene. Il filosofo arabo Al-Farabi diceva che “la filosofia richiede i denti”, ed essendo però la maggior parte delle persone “come i bambini, sdentati”, bisognava limitarsi a dare loro della “pappa”».
La politica deve dare la pappa o aiutare la dentizione?
«Secondo la tradizione ciceroniana classica, che va da Brunetto Latini a Machiavelli, “la politica è l’arte di governare gli Stati secondo ragione e giustizia”. Con Guicciardini e con la nascita della teoria della ragion di Stato la politica diventa però “l’arte di conquistare e mantenere il potere”. È lì che nascono i segreti - la parola segretario è di quell’epoca - e che il governo assolutistico, con astuzia e forza, diventa un modo per controllare, più che per far progredire. Diceva Hobbes: “Auctoritas, non veritas facit legem”».
Trasparenza e «streaming» sono dunque antidoti ai lati oscuri del potere assoluto?
«Con il proto liberalismo inglese torna in auge la discussione pubblica dei problemi dello Stato e nasce l’ideale della democrazia come casa di vetro. Lo streaming non è efficace, ragionare e deliberare richiedono tempo».
Torniamo alla verità oggettiva, quella della scienza ad esempio. Oggi i non scienziati contraddicono gli scienziati: che fare?
«Mi torna in mente quando, subito dopo la Prima guerra mondiale, chiesero al primo ministro francese di chi fosse la colpa della Grande guerra. “Io non lo so“, rispose, “so soltanto che il Belgio non ha invaso la Germania”. Non è vero che tutte le opinioni sono uguali, e lo si può dimostrare logicamente ed empiricamente».
Come si contrasta una falsa opinione?
«Non è facile quando la competenza è un disvalore. Di fronte ai guru, ai complotti, alle cose dette per dire, la logica scorre come acqua sul marmo. Bisogna diffondere educazione, cultura, conoscenze».

Corriere 13.9.18
Festivalfilosofia Da domani a Modena, Carpi e Sassuolo la diciottesima edizione. La «lectio» di Silvia Vegetti Finzi
Mamma, ho assaggiato la verità
Dal visibile e concreto ai primi dilemmi etici: così i bambini imparano a distinguere sincerità e bugia
di Silvia Vegetti Finzi


Niente è più difficile che definire la verità, tanto che i dizionari se la cavano con una tautologia: per lo Zingarelli la verità è «la qualità di ciò che è vero», per la Treccani il «carattere di ciò che è vero». Solo quando compare l’alternativa tra vero e falso, la verità diviene evidente. Altrimenti è come l’aria: si avverte solo quando manca. Poiché mentire è un’abilità assai precoce e i bambini in proposito la sanno lunga, per prima cosa diamo loro la parola.
Premetto che per essere tale una bugia deve presumere l’intenzione di mentire, ma questa consapevolezza richiede un’evoluzione psichica piuttosto complessa che dobbiamo conoscere per non accusare e punire ingiustamente i bambini per colpe che non sono in grado di comprendere.
Dapprima la verità si riferisce all’esistenza concreta, alla realtà immediata, all’evidenza delle cose. Per i più piccoli la verità si dispiega dinnanzi ai loro occhi, è quello che vedi, che senti, che puoi toccare e assaggiare. Sino a tre anni confondono fantasia e realtà, desiderio e verità. Quando si sentono accusati mentono spontaneamente senza preoccuparsi della verosimiglianza delle loro giustificazioni, come Marcello che incolpa il fratellino di due mesi di aver rotto il lampadario con una pallonata. Nel frattempo, prima di punire un bambino meglio chiedersi: «Perché mente?», «lo abbiamo messo davvero in condizione di essere sincero?».
A quattro la verità è nei fatti per cui è più grave rompere quattro bicchieri senza farlo apposta che uno intenzionalmente. Ma già a sette anni i bambini colgono appieno il valore della verità quando osservano: «È preziosa»; «è una cosa che ti fa star bene», «è nella famiglia», come risulta dalle interviste raccolte dall’insegnante Marta Versiglia , nelle classi seconda e quarta di una scuola elementare di Piacenza.
Verso i nove anni la verità s’interiorizza, diventa una questione personale: «Per me la verità è dire cose che so solo io», «è un segreto», una «emozione che ti comunica un senso di gioia e di liberazione». Mentre prima era nei fatti, ora diventa un impegno morale: «La mia verità è fare cose belle e non cose brutte», «la verità la devi dire altrimenti più nessuno crederà in te».
Il verbo «dovere», sempre più frequente col progredire dell’età, rappresenta la voce degli educatori, genitori e insegnanti, ma già emergono atteggiamenti di autonomia morale. Le motivazioni espresse rivelano una differenza profonda tra la morale maschile, razionale, generica e astratta, e la morale femminile, più attenta ai rapporti interpersonali e ai sentimenti. Per Pietro la verità è pace nel mondo, per Corrado amicizia, per Fabio giustizia, per Guido fiducia e rispetto.
Jasmin invece, come altre compagne, situa la verità nei rapporti reciproci, nello scambio di parole e di affetti: «La verità è essere sinceri anche nei momenti peggiori, non incolpare nessuno e chiedere scusa quando abbiamo sbagliato noi». Per Angela la verità bisogna dirla per non vergognarsi di fronte alle amiche. Per Carlotta per non far male agli altri. Per Michela: «È fiducia nei propri genitori — e osserva — alcune volte però, ma poche, non bisogna dirla per non far stare male le persone». «Io come tutti avrò detto delle bugie — confessa Alba — però crescendo sono consapevole di ciò che sta succedendo».
Emerge tuttavia il sospetto che la bugia non riguardi soltanto i bambini. Scrive un alunno di quarta: «A volte anche i grandi mentono» ma subito si rassicura: «Lo fanno per il nostro bene».
Spesso ci dimentichiamo che i bambini crescono in costante relazione con adulti che mentono quanto e ben più di loro. Mentono per gioco quando li lusingano esclamando: «Sei un campione!» o «ecco la mia principessa». E mentono in modo ben più grave quando, convinti di proteggerli, nascondono o falsificano questioni fondamentali, senza riflettere sulle conseguenze dei loro atti. Gli effetti della menzogna sono diversi se il bambino è soggetto oppure oggetto di una affermazione reticente o falsa.
La bugia del bambino fa parte di un processo di sviluppo che evolve da una spontanea reazione di difesa alla consapevolezza della propria volontà, della propria responsabilità. Quella dell’adulto costituisce invece un’azione responsabile da valutare in termini morali, considerando intenzioni e conseguenze, senza concedersi facili alibi.
Il bambino che sa di mentire si vergogna della sua debolezza mentre quello ingannato dalle persone che ama si sente impotente e smarrito. Tuttavia, nonostante sia un’esperienza dolorosa, l’incontro con la bugia ha un aspetto positivo perché lo aiuta a superare la pretesa di un sapere onnipotente, rivelandogli che ognuno conserva in sé una zona di segreto e di mistero.
Nonostante ogni smentita, la convinzione che il desiderio sia in grado di soddisfarsi da solo perdura nel sogno, nelle fantasie, nel gioco, nel pensiero magico, nelle favole e nei miti.
L’immaginazione, per quanto irreale, svolge una funzione consolatoria e creativa. Basta pensare all’amico immaginario che il bambino troppo solo evoca per farsi compagnia. Se il genitore lo deride o gli ingiunge di non dire stupidaggini, si sentirà ferito e, chiudendosi in se stesso, smetterà di esprimere il suo mondo interiore. La bugia, iscritta nel tessuto della comunicazione, negli equivoci che costellano ogni scambio, si rivela patologica quando diviene una modalità reiterata, quasi coatta di interagire con sé stessi e con gli altri, quando il bambino inganna e si inganna e come forma di vita, come modalità predominante di difesa e di reazione.
Dapprima il bambino, che fa propria la verità dei familiari, è convinto di essere ciò che gli altri pensano di lui. Solo con la pubertà si porrà il compito di definire sé stesso, di delineare la sua identità. Un compito particolarmente arduo in questi anni quando gli adolescenti, alle prese con la difficoltà di crescere, vengono attratti dalle suggestioni del mondo virtuale, dove tutto appare possibile e reversibile. Che cosa possono fare gli educatori per proteggerli e guidarli? Oltre alle regole di comportamento quotidiano, ormai note, è fondamentale rendere le esperienze dei ragazzi concrete e vive, affascinanti e promettenti. Il mondo reale deve proporre un futuro realizzabile attraverso la responsabilità dei propri desideri e la condivisione degli obiettivi.
In ogni caso la verità è una condizione necessaria all’integrità personale e alla vita sociale: di menzogna si muore. Dopo tante variabili, una domanda torna ad assillarci: è possibile raggiungere la coincidenza del vero e del fatto, del sentire e del dire?
Come sostiene Karl Jaspers, la verità non è mai un possesso assoluto e definitivo ma tensione e ricerca. Per noi che viviamo nell’esserci del tempo, la verità è un obiettivo al tempo stesso impossibile e ineludibile. Eppure è questa contraddizione che ci rende umani.

Corriere 13.9.18
Torino Si è dimesso dalla guida del Circolo dei Lettori. Il direttore Nicola Lagioia: spiace, ma si va avanti
Nuova emergenza al Salone del libro Massimo Bray lascia la presidenza
di Cristina Taglietti


Un’emergenza che sembra non finire mai quella del Salone del libro di Torino, che ora rimane senza presidente. Massimo Bray, nominato ufficialmente meno di un mese fa, ha annunciato di non accettare l’incarico al vertice del Circolo dei lettori per «ragioni strettamente personali»: lo hanno comunicato il governatore Sergio Chiamparino e la sindaca Chiara Appendino, assicurando di impegnarsi «a garantire una soluzione adeguata alla sfida che il Salone del libro deve affrontare, senza interruzioni di sorta e senza pregiudicare in alcun modo l’attività che il Circolo sta già svolgendo per preparare la nuova edizione». Il fatto che l’impegno di presidente di un’istituzione che organizza non soltanto il Salone, ma anche molte altre attività sul territorio piemontese, fosse molto oneroso per Bray, che vive a Roma ed è direttore generale della Treccani, era in qualche modo noto.
La decisione ha lasciato incredulo anche il direttore del Salone, Nicola Lagioia, informato soltanto ieri della nuova, imprevista svolta. Lui e la sua squadra di consulenti sono ancora senza contratto ma, dice, «questo non significa che non siamo operativi. Già da tempo stiamo parlando con autori ed editori ma, certo, non avere un contratto e un incarico ufficiale ci impedisce alcuni passi, anche burocratici». D’altro canto non si può nemmeno dire che si stia lavorando al Salone Internazionale del libro, dal momento che il marchio non è nella disponibilità di nessuno ma verrà messo all’asta, probabilmente a inizio ottobre, dal liquidatore della fallita Fondazione per il libro, Maurizio Gili.
Insomma, allo stato attuale, c’è un’istituzione senza presidente dove un direttore senza contratto sta organizzando un evento fieristico internazionale senza nome che si terrà a maggio. Un pasticcio. Ci vogliono tutto l’ottimismo e la forza di volontà di Nicola Lagioia per continuare a lavorare e a convincersi che questo ennesimo intoppo non rallenti ulteriormente la realizzazione del Salone 2019. «Mi dispiace molto dal punto di vista umano per la rinuncia di Massimo Bray — dice il direttore — ma il Salone va avanti. Per gli editori la garanzia siamo noi e con noi continuano a parlare. Siamo una squadra vincente, abbiamo iniziato a lavorare subito dopo la fine del Salone 2018. L’incontro con Jhumpa Lahiri due giorni fa per Giorni selvaggi, la rassegna del Circolo dei lettori, per esempio, è nato perché a giugno ero a Milano da Guanda per parlare del Salone. Certo, è il terzo anno di emergenza e questo è un po’ seccante».
La decisione di Bray lascia spiazzati anche Comune e Regione, già impegnati a cercare un sostituto che permetta alla macchina di partire. L’assessora alla Cultura della Regione, Antonella Parigi, non nasconde la stanchezza, anche se assicura: «Faremo prima possibile l’avviso di nomina del nuovo presidente. Ci vuole un consiglio di amministrazione e ci stiamo lavorando. Non ci saranno ritardi troppo gravi». Francesca Leon, assessora alla Cultura del Comune che aveva visto nella nomina di Bray a presidente la garanzia necessaria, non vuole dire molto se non che bisogna affrontare una scaletta di azioni molto stringenti. «Di fronte a ragioni personali non si può che accettare la decisione di Bray che per noi è stato un supporto molto importante, pronto a metterci la faccia in momenti difficili. È un’altra emergenza che dobbiamo affrontare, ma ormai siamo abituati. Quello che è certo è che il Salone si farà».

Corriere 13.9.18
La Municipale chiude la casa delle bambole erotiche


Bambole lavate con acqua e non sterilizzate dopo la «prestazione sessuale». Assenza dei requisiti per affittare le camere. Sono alcune delle irregolarità riscontrate dalla polizia municipale di Torino nella casa della LumiDolls, il primo locale per appunta-menti «erotici» con bam-bole gonfiabili in Italia. Ieri l’appartamento è stato fatto chiudere, a nove giorni dall’apertura. Il blitz è scattato in via Vigliani, zona popolare di Mirafiori. Le bambole sono state sequestrate, la titolare della casa è stata diffidata. (E. So.)