Il Sole Domenica 9.9.18
A zonzo per Praga. Il tour nei molti
luoghi dove ha abitato lo scrittore è un esercizio che aiuta a
comprendere la sua natura di autore sempre in lotta con i suoi fantasmi
La vita raminga di Kafka
di Giuseppe Lupo
In
una piazzetta circolare e poco appariscente dove convergono quattro
strade che radunano gli odori di cibo speziato e di prodotti fastfood -
V?ze?ská, Kolkovn?, Dušní e Široká -, Praga rende omaggio al più
illustre dei suoi scrittori con una scultura di Jaroslav Róna: un uomo
di taglia robusta, ma senza volto e senza mani, regge sulle spalle un
omino vestito di giacca, cravatta e bombetta in testa.
C’è poco da
sbagliarsi: il padre di Kafka e Kafka stesso rivolgono il petto al
visitatore che percorre la strada verso la sinagoga spagnola, dentro il
cuore di una civiltà che conserva i segni dell’essere un crocevia
ebraico. Il piccolo signor K., l’individuo che si sarebbe svegliato
scarafaggio, è in balia di un omone dall’aspetto oppressivo, ma non
scende piedi a terra.
Il monumento è un simbolo di come il più
debole si avvale del più forte senza soccombergli, sfrutta a suo
vantaggio le caratteristiche dell’altro. Il mondo avrebbe goduto di
un’opera come quella di Kafka se il piccolo Franz non avesse avuto un
genitore dalle caratteristiche che ci vengono narrate nella celebre
Lettera al padre? La risposta è banale e a questa lotta verticale sembra
ispirarsi non soltanto il monumento all’autore del Processo, ma anche
l’esistere di Kafka nella città che ha dato i natali alla sua allucinata
fantasia. Mai come per Kafka i luoghi dove ha trascorso la vita sono il
frutto di una miscela tra desiderio di fuga e desiderio di radicamento,
tra il seguire le orme della famiglia d’origine e il fuggire dal
destino degli antenati. Sembrerebbe una contraddizione, eppure
quest’uomo che svolgeva il lavoro di perfetto burocrate, al contrario di
quanto faccia intuire l’eleganza impiegatizia esibita nelle foto, era
corroso da un’inquietudine domestica: un tarlo che lo avrebbe portato a
continui traslochi, a volte semplici spostamenti da un numero civico
all’altro, ma sempre nei dintorni di Starom?stské nám?sti, la Piazza
della Città Vecchia, così come viene identificata ora, almeno fino al
compimento dei trentatré anni.
Dal 1883, anno in cui viene al
mondo, al 1916, quando fa ritorno al quartiere di Staré M?sto, Kafka è
costretto a seguire le ambizioni del padre che cambia almeno tre
appartamenti per ingrandire l’attività commerciale. Nel quartiere di
Staré M?sto si consuma gran parte dell’esistenza dello scrittore. Il
palazzo dove nasce ha sulla sinistra l’ingresso secondario della chiesa
di San Nicola. Ma qui il piccolo Franz vive solo un paio d’anni, per poi
subito trasferirsi nella più elegante via Celetná, in un palazzo dalla
facciata barocca dove la tradizione dice che sia stato ospite anche
Petrarca. Anche qui l’inquietudine avrebbe imposto al capifamiglia di
scegliere un’altra sistemazione, forse ancora più comoda, in Malé
nám?stí, che è l’ipotenusa di un triangolo su cui affacciano edifici con
finestroni alti, balconi d’angolo con verande, tetti spioventi e
abbaini.
Ammesso che sia mai esistita una Mitteleuropa, qui se ne
respira l’aria, sia pure fino al settembre del 1896, quando il padre
obbliga di nuovo a fare valigie e tornare in via Celetná, stavolta al
numero civico 3 anziché al 2. Kafka non aveva ancora compiuto ventitré
anni quando dovette lasciare questa zona della città per trasferirsi in
un appartamento nei pressi del ?ech?v most, il ponte sulla Moldava, dove
le statue degli angeli suonano le trombe in cima a otto colonne.
Chissà
che non siano state proprio queste trombe a risvegliare nella sua testa
gli incubi delle Metamorfosi, perché proprio nell’appartamento di un
palazzo ormai inesistente, sulle cui rovine ora sorge l’Hotel
InterContinental, Kafka diede inizio al suo capolavoro. Seguirlo nei
traslochi è un esercizio che aiuta a comprendere la sua natura di autore
in lotta con i fantasmi, da cui magari allontanarsi anziché
affrontarli, prestando il fianco ai pericoli di una vita raminga che lo
avrebbe portato dapprima alla casa Oppelt, nel 1913, di spalle della
chiesa di San Nicola (cioè alla casa dov’era nato), poi nelle stanze
umili e silenziose di Nerudagasse, l’unica abitazione lontana dal
centro, in via Polská, dove si fermò appena il tempo di veder morire un
anno tragico per l’Europa come il 1914, per poi tornare nuovamente a
battere le strade del quartiere di Staré M?sto, anche se lontano dalla
sinagoga e dal cimitero ebraico, dove le lapidi sembrano tante pietre
scomposte come sagome ubriache. I due palazzi dove Kafka poté risiedere
tra il 1915 e il 1917, uno in via Bílkova e l’altro in via Dlouhá,
conservano ancora oggi un che di anonimo e di regolare, ma rappresentano
l’addio in sordina al quartiere a cui era rimasto sostanzialmente
fedele.
I fantasmi non si mandano via con un’infinita fuga, specie
quando assumono la fisionomia della malattia e della morte. Sappiamo
che Kafka assaporò l’aria ventilata del Vicolo d’Oro, in cima al
Castello, dove soggiornò pochi mesi con una delle sorelle in un vano di
pochi metri quadrati con una finestra che affaccia su un vallone di
alberi. E sappiamo che da questa Zlatá uli?ka intitolata agli alchimisti
andò via presto, per trasferirsi nell’elegante Palazzo Schönborn, oggi
sede dell’Ambasciata statunitense, al culmine di una salita dove finisce
il Karl?v must, il Ponte Carlo. Qui Kafka avvertì i primi sintomi della
malattia e sentì la vita sfuggirgli sotto i piedi, esattamente come
scorrevano sotto i suoi piedi le acque solenni della Moldava.
Ciò
che segue è solo cronaca di un tempo destinato a svanire prima ancora
che Kafka raggiungesse la maturità. Da un punto di vista urbanistico si
tratta di un ritorno, come a chiudere un cerchio, nel quartiere di Staré
M?sto, in quella stessa casa Oppelt in cui aveva abitato qualche anno
prima, di spalle a dov’era nato.