mercoledì 12 settembre 2018

Il Sole Domenica 9.9.18
A zonzo per Praga. Il tour nei molti luoghi dove ha abitato lo scrittore è un esercizio che aiuta a comprendere la sua natura di autore sempre in lotta con i suoi fantasmi
La vita raminga di Kafka
di Giuseppe Lupo


In una piazzetta circolare e poco appariscente dove convergono quattro strade che radunano gli odori di cibo speziato e di prodotti fastfood - V?ze?ská, Kolkovn?, Dušní e Široká -, Praga rende omaggio al più illustre dei suoi scrittori con una scultura di Jaroslav Róna: un uomo di taglia robusta, ma senza volto e senza mani, regge sulle spalle un omino vestito di giacca, cravatta e bombetta in testa.
C’è poco da sbagliarsi: il padre di Kafka e Kafka stesso rivolgono il petto al visitatore che percorre la strada verso la sinagoga spagnola, dentro il cuore di una civiltà che conserva i segni dell’essere un crocevia ebraico. Il piccolo signor K., l’individuo che si sarebbe svegliato scarafaggio, è in balia di un omone dall’aspetto oppressivo, ma non scende piedi a terra.
Il monumento è un simbolo di come il più debole si avvale del più forte senza soccombergli, sfrutta a suo vantaggio le caratteristiche dell’altro. Il mondo avrebbe goduto di un’opera come quella di Kafka se il piccolo Franz non avesse avuto un genitore dalle caratteristiche che ci vengono narrate nella celebre Lettera al padre? La risposta è banale e a questa lotta verticale sembra ispirarsi non soltanto il monumento all’autore del Processo, ma anche l’esistere di Kafka nella città che ha dato i natali alla sua allucinata fantasia. Mai come per Kafka i luoghi dove ha trascorso la vita sono il frutto di una miscela tra desiderio di fuga e desiderio di radicamento, tra il seguire le orme della famiglia d’origine e il fuggire dal destino degli antenati. Sembrerebbe una contraddizione, eppure quest’uomo che svolgeva il lavoro di perfetto burocrate, al contrario di quanto faccia intuire l’eleganza impiegatizia esibita nelle foto, era corroso da un’inquietudine domestica: un tarlo che lo avrebbe portato a continui traslochi, a volte semplici spostamenti da un numero civico all’altro, ma sempre nei dintorni di Starom?stské nám?sti, la Piazza della Città Vecchia, così come viene identificata ora, almeno fino al compimento dei trentatré anni.
Dal 1883, anno in cui viene al mondo, al 1916, quando fa ritorno al quartiere di Staré M?sto, Kafka è costretto a seguire le ambizioni del padre che cambia almeno tre appartamenti per ingrandire l’attività commerciale. Nel quartiere di Staré M?sto si consuma gran parte dell’esistenza dello scrittore. Il palazzo dove nasce ha sulla sinistra l’ingresso secondario della chiesa di San Nicola. Ma qui il piccolo Franz vive solo un paio d’anni, per poi subito trasferirsi nella più elegante via Celetná, in un palazzo dalla facciata barocca dove la tradizione dice che sia stato ospite anche Petrarca. Anche qui l’inquietudine avrebbe imposto al capifamiglia di scegliere un’altra sistemazione, forse ancora più comoda, in Malé nám?stí, che è l’ipotenusa di un triangolo su cui affacciano edifici con finestroni alti, balconi d’angolo con verande, tetti spioventi e abbaini.
Ammesso che sia mai esistita una Mitteleuropa, qui se ne respira l’aria, sia pure fino al settembre del 1896, quando il padre obbliga di nuovo a fare valigie e tornare in via Celetná, stavolta al numero civico 3 anziché al 2. Kafka non aveva ancora compiuto ventitré anni quando dovette lasciare questa zona della città per trasferirsi in un appartamento nei pressi del ?ech?v most, il ponte sulla Moldava, dove le statue degli angeli suonano le trombe in cima a otto colonne.
Chissà che non siano state proprio queste trombe a risvegliare nella sua testa gli incubi delle Metamorfosi, perché proprio nell’appartamento di un palazzo ormai inesistente, sulle cui rovine ora sorge l’Hotel InterContinental, Kafka diede inizio al suo capolavoro. Seguirlo nei traslochi è un esercizio che aiuta a comprendere la sua natura di autore in lotta con i fantasmi, da cui magari allontanarsi anziché affrontarli, prestando il fianco ai pericoli di una vita raminga che lo avrebbe portato dapprima alla casa Oppelt, nel 1913, di spalle della chiesa di San Nicola (cioè alla casa dov’era nato), poi nelle stanze umili e silenziose di Nerudagasse, l’unica abitazione lontana dal centro, in via Polská, dove si fermò appena il tempo di veder morire un anno tragico per l’Europa come il 1914, per poi tornare nuovamente a battere le strade del quartiere di Staré M?sto, anche se lontano dalla sinagoga e dal cimitero ebraico, dove le lapidi sembrano tante pietre scomposte come sagome ubriache. I due palazzi dove Kafka poté risiedere tra il 1915 e il 1917, uno in via Bílkova e l’altro in via Dlouhá, conservano ancora oggi un che di anonimo e di regolare, ma rappresentano l’addio in sordina al quartiere a cui era rimasto sostanzialmente fedele.
I fantasmi non si mandano via con un’infinita fuga, specie quando assumono la fisionomia della malattia e della morte. Sappiamo che Kafka assaporò l’aria ventilata del Vicolo d’Oro, in cima al Castello, dove soggiornò pochi mesi con una delle sorelle in un vano di pochi metri quadrati con una finestra che affaccia su un vallone di alberi. E sappiamo che da questa Zlatá uli?ka intitolata agli alchimisti andò via presto, per trasferirsi nell’elegante Palazzo Schönborn, oggi sede dell’Ambasciata statunitense, al culmine di una salita dove finisce il Karl?v must, il Ponte Carlo. Qui Kafka avvertì i primi sintomi della malattia e sentì la vita sfuggirgli sotto i piedi, esattamente come scorrevano sotto i suoi piedi le acque solenni della Moldava.
Ciò che segue è solo cronaca di un tempo destinato a svanire prima ancora che Kafka raggiungesse la maturità. Da un punto di vista urbanistico si tratta di un ritorno, come a chiudere un cerchio, nel quartiere di Staré M?sto, in quella stessa casa Oppelt in cui aveva abitato qualche anno prima, di spalle a dov’era nato.