La Stampa 12.9.18
La psicoterapia? Ha le stesse basi della “confessione religiosa”: entrambe curano l’anima
Da
Pitagora a Jung. Dall’”esame di coscienza” ai percorsi psicanalitici.
Così, nei secoli, la scienza e l’uomo hanno esaminato i tormenti più
profondi e la scoperta del sé
di Andrea Cionci
«I
primordi di ogni trattamento analitico della psiche vanno ricercati
nella confessione religiosa». Sono parole di Carl Gustav Jung,
psichiatra e psicoterapeuta fondatore della psicologia analitica,
vissuto nella prima metà del Novecento. Del resto, se l’etimologia della
parola «psicoterapia» significa appunto «cura dell’anima», questa
pratica affonda le sue radici nella civiltà greca, secoli prima
dell’affermarsi del Cristianesimo.
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Pitagora e la tragedia greca
«Sull’esame
di sé e la “confessione” delle proprie mancanze – spiega Claudio Risé,
scrittore e psicoterapeuta autore del recente “La scoperta di sé” (San
Paolo ed.) - nasce la filosofia e la psicologia occidentale, con
Pitagora, filosofo e scienziato greco. Nel pitagorismo, tuttavia, la
“confessione”, veniva fatta a sé stessi per riconoscere le proprie
debolezze e gradualmente trasformarle. Questo era l’equivalente
dell’”esame di coscienza” che il cristiano deve fare prima della
confessione, ed ogni volta che può, per rimanere in contatto con la
propria coscienza e mantenerla integra”.
Le intuizioni di
Pitagora costituiscono il primo barlume di consapevolezza nella storia
umana per sviluppare pratiche volte a organizzare la vita quotidiana, la
personalità e la responsabilità delle persone. Per quanto la mentalità
attuale spesso e volentieri conduca ad andare “dove ci porta il cuore”
(cosa che spesso può coincidere con la soddisfazione immediata di ogni
capriccio) già gli antichi Greci mettevano in guardia dal cedere a
quelle che, con lessico freudiano, si possono definire pulsioni.
“Ma
tu non essere impulsivo” raccomandava Eschilo nel coro de “I Sette
contro Tebe”: nella tragedia greca, il disastro avveniva sempre a causa
del cedimento a un impulso. Questo poteva provenire indifferentemente da
un dio o da un demone; ecco perché, già secondo gli antichi, esso
doveva essere sempre meditato e filtrato dall’uomo in un modo che
conducesse a un’azione perfettamente libera».
Un sentimento umano
Se
l’insegnamento pitagorico giunse fino ai Romani («La confessione dei
nostri peccati è il primo passo verso l’innocenza», scriveva il
drammaturgo Publilio Siro nel I sec. a.C.) anche nel resto del mondo si è
costantemente rivelata l’esigenza tipicamente umana di sgravarsi la
coscienza parlando con qualcuno.
Nel Messico antico, i peccatori
andavano a confessarsi dai sacerdoti della dea Tlaçolteotl (la «dea
delle sozzure», cioè dei peccati specialmente carnali), i quali
imponevano la penitenza. Nell’antico Perù, il penitente si confessava
dall’ichuri, lo sciamano. Per espirare le proprie colpe ci si doveva
sottoporre a lavacri o a salassi.
«Il senso di colpa – spiega il
neuropsichiatra e scrittore Giuseppe Magnarapa – esiste da sempre ed è
legato al principio di autorità il quale serve, a propria volta, a
garantire la pace sociale. In assenza di un qualunque sistema di regole,
infatti, non esiste la società. Se si infrange la regola, la psiche
esprime l’esigenza di espiare, di produrre a se stessi lo stesso lutto o
danneggiamento che si è procurato all’esterno per “pareggiare i conti” e
ritrovare un nuovo adattamento. L’esigenza di confessare anche
pubblicamente la propria colpa esprime esattamente questa necessità. Una
forma ancestrale di questo bisogno si avverte, ad esempio nella
cosiddetta “televisione verità” con persone che spettacolarizzano senza
vergogna la propria intimità anche confessando azioni non esattamente
edificanti».
Le prime confessioni cristiane
Pubbliche
erano, non a caso, le confessioni dei peccatori nei primi secoli del
Cristianesimo: la preghiera, le buone azioni, il digiuno e l’elemosina
erano le azioni grazie alle quali si otteneva il perdono del peccato.
Questo viene definito dal Catechismo «una mancanza contro la ragione, la
verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore
vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento
a certi beni».
All’inizio, lo stato di penitente era molto
gravoso e comportava forme di temporanea emarginazione. Nei secoli, la
confessione dei peccati si è sempre più sistematizzata, ha iniziato a
svolgersi privatamente, prima col vescovo e poi col semplice sacerdote,
il quale è tenuto ancor oggi a osservare il più totale segreto
«professionale» su quanto ascoltato durante il sacramento.
Sovrapposizioni
Secondo
Jung il processo psicoterapico si articola in quattro fasi. Durante
quella che lui definisce Confessione, il paziente svuota i propri
segreti, estrinsecando la propria condizione e sofferenza. Nella
Chiarificazione, egli diventa consapevole dei propri sentimenti,
intuisce i motivi che lo hanno condotto al dolore. Nell’Educazione, si
propone di assumere nuovi comportamenti e atteggiamenti e infine, nella
Trasformazione, il paziente assiste ai risultati dell’effettivo
cambiamento nella sua vita.
Il parallelo col sacramento
cattolico è abbastanza evidente, tanto che anche questo si articola in
quattro fasi: la Contrizione, in cui il fedele si pente del male
commesso, l’Esame di coscienza, in cui riflette su come e dove ha
sbagliato; la Confessione, nella quale esprime al sacerdote tutti i
peccati che in sincerità ricorda; infine la Soddisfazione, che implica
un cambiamento nella propria vita e l’espiazione per il male compiuto
con azioni risarcitorie, o con la preghiera.
Vi è infine da
ricordare che alla base di tutto vi è il principio della Misericordia
divina, che consente all’uomo di rialzarsi dopo i cedimenti e di
proseguire sulla strada del perfezionamento spirituale. Negli ultimi
anni, in ambito cattolico, si è parlato molto di Misericordia, meno
spesso si è ricordato come questa non possa essere svincolata dal
pentimento e dal riconoscimento dei propri peccati.
L’anonimato
Fu
il cardinale santo Carlo Borromeo, alla metà del ‘500, a regolare e a
diffondere il confessionale nella sua classica struttura che, poi, si
diffuse in tutto il mondo. Si tratta, come noto, di una cabina di legno
dotata di inginocchiatoi; fitte grate metalliche celano il viso del
penitente il quale non è tenuto a rivelare la propria identità al prete.
Con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha aperto anche alla confessione
vis à vis.
Tuttavia, sarebbe interessante indagare quali
benefici possa produrre l’atto rituale di liberare la propria coscienza
in un soffio di parole, «spifferando» il male compiuto all’orecchio del
sacerdote, ieratico e invisibile intermediario fra Dio e l’uomo, senza
vederlo e senza farsi da lui vedere. Il diaframma costituito dalla grata
era pensato in modo utile anche per il prete, per metterlo al riparo da
contatti troppo ravvicinati e forieri di tentazioni. Probabilmente San
Carlo aveva intuito, già cinque secoli fa, quello di cui da pochi
decenni si occupa la Programmazione Neuro Linguistica, ovvero il
linguaggio più o meno volontario che esprimono gli occhi e la posizione
del corpo.
Per quanto, infatti, un pastore debba ascoltare con
neutra benevolenza la confessione di un penitente, non è detto che egli
riesca a controllare le sottili reazioni della sua postura e del suo
sguardo che possono veicolare una quantità di messaggi involontari.
Non
sappiamo se, nel mondo della psicoterapia, si sia mai sperimentata una
soluzione tecnica come quella della grata del confessionale
tradizionale, magari nell’ottica di assicurare maggiore libertà e
comfort emotivo al paziente attraverso il completo anonimato.
Un terreno ricco di spunti
Il
grande scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton riassumeva: «La
psicoanalisi è una confessione senza assoluzione». In effetti, l’
approccio laico non prevede generalmente un sistema morale, né la
credenza in un’entità trascendente. Mentre il sacerdote, con un segno di
croce, riporta il fedele nella pace con se stesso, lo psicoterapeuta
conduce il paziente a sciogliere dai solo i propri nodi attraverso un
percorso che può essere lungo e difficile.
Ciò che emerge è che i
contatti fra tradizione religiosa, (cattolica, ma non solo) e il mondo
della psicoterapia-psichiatria offrono un fertile terreno di scambio. Ad
esempio, oggi si parla spesso di narcisismo, di depressione; di
disturbi alimentari come anoressia e bulimia; di sex addiction o
ipersessualità. Non ci si trova dunque di fronte a versioni più o meno
patologiche degli antichi vizi come superbia, accidia, gola e lussuria?
Margriet
Sitskoorn, docente di Neuropsicologia clinica all’Università di Tilburg
(Olanda), in un capitolo del suo libro «I sette peccati capitali del
cervello» mostra, attraverso vari studi neuroscientifici, come il
soddisfacimento dei bisogni più elementari, privi di riflessione etica e
di controllo, conduca al rilascio di sostanze come dopamina e oppioidi,
che producono piacere immediato anche se questo comporterà conseguenze
negative per se stessi e per gli altri. E’ stata scoperta, dunque, la
radice biochimica della seduzione del Male?
Tra religione e
scienza «c’è piuttosto antipatia sentimentale che opposizione logica»,
sentenziava il colombiano Nicolás Gómez Dávila. Tuttavia, considerando
che l’esperienza religiosa si è applicata allo studio dell’uomo per
alcuni millenni, si potrebbe dare ragione ad Albert Einstein quando aprì
al confronto fra i due mondi con una frase rimasta celebre: «La
religione senza la scienza è cieca, la scienza senza la religione è
zoppa».