Repubblica 12.9.18
I dialoghi. Vittorio Lingiardi e Benedetto Farina
La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia
Dottor Freud aiutaci a cooperare
di Vittorio Lingiardi
Vittorio
Lingiardi è uno psichiatra e psicoanalista italiano, professore
ordinario di psicologia dinamica presso la Facoltà di Medicina e
Psicologia della Sapienza Università di Roma. Wikipedia
La
psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma
di psicoterapia. Sono giunto a questa conclusione dialogando con un
collega che ha una formazione diversa dalla mia. Non che parlare di
"scuole" abbia sempre senso, ma la mia educazione, psicoanalitica, e
quella del mio interlocutore cognitivista Benedetto Farina, docente
all’Università Europea di Roma e allievo di Giovanni Liotti, uno dei
padri del cognitivismo italiano, sono oggettivamente diverse.
Cose
importanti però ci uniscono: siamo entrambi clinici e ricercatori.
Benedetto fa ricerca soprattutto da una prospettiva neuroscientifica; io
parto dai trascritti delle sedute di psicoterapia per valutare la
qualità dell’alleanza terapeutica: rotture, riparazioni, negoziazioni...
Entrambi siamo cresciuti studiando la teoria dell’attaccamento di
Bowlby, che pone basi etologiche e motivazionali all’origine delle
relazioni e dello sviluppo della personalità. Forse l’unica teoria che
ha saputo raccogliere attorno a sé, mettendole in dialogo, discipline
tra loro diverse e litigiose. «Oggi – dice Farina – potremmo metterla
così: la tua psicoanalisi e il mio cognitivismo considerano la relazione
con il paziente il principale strumento terapeutico. Ma non è forse
questo il fattore comune che secondo la ricerca spiega l’efficacia di
tutti i trattamenti?».
Vittorio Lingiardi: Sì, l’esito di una
terapia è in gran parte associato alla qualità della relazione che si
stabilisce tra paziente e terapeuta. Detto questo, le variabili in gioco
sono molte. Anche perché molte sono le psicoanalisi e molti i
cognitivismi.
Nonostante il marchio di fabbrica, un paziente in
cerca di terapia non sa mai esattamente quello che trova. E poi ci sono
le diverse tipologie, anche caratteriali, di terapeuta. Un terapeuta
riservato e uno espansivo funzionano nello stesso modo? Con tutti i
pazienti?
Per tornare alla relazione come fattore terapeutico, mi
domando se è più in gioco l’accudimento o la cooperazione, pur sapendo
che il bravo clinico sa dosare il loro contributo.
Benedetto
Farina: È un tema che appassionava Liotti, il quale ha sempre sostenuto
che è più efficace impostare la terapia sul piano cooperativo,
soprattutto con pazienti gravi che hanno alle spalle un’infanzia
traumatica.
Stimolare troppo il sistema dell’attaccamento è rischioso, può riattivare memorie traumatiche di accudimenti mancati o distorti.
Molte
ricerche dimostrano che la promozione di un clima di cooperazione
favorisce invece la capacità di provare empatia, di sintonizzarsi con i
pensieri degli altri, di comprendere il funzionamento della mente
propria e altrui e di lavorare sugli aspetti che portano a soffrire.
VL:
È quello che in psicologia viene chiamato mentalizzare, una funzione
che inizia a svilupparsi nei primi anni e ci accompagna tutta la vita.
Ed è il pane quotidiano di molte terapie. La sua complessità sta nel
riuscire a "tenere in mente" i nostri stati mentali e quelli degli
altri.
Sofisticate tecniche di registrazione simultanea
dell’attività cerebrale di due individui che interagiscono mostrano che
l’attività elettrica dei loro cervelli, nelle aree evolutivamente più
recenti come la corteccia frontale, si sincronizza quando devono
compiere azioni coordinate e cooperative.
BF: Molte discipline
indicano che l’eccezionale espansione del cervello e lo sviluppo delle
funzioni cognitive e culturali di cui l’uomo è capace sono il risultato
di una traiettoria evolutiva finalizzata alla relazione e alla
cooperazione. La spinta motivazionale alla cooperazione ha richiesto lo
sviluppo di capacità cognitive sempre più sofisticate come il
linguaggio, l’empatia, la condivisione di scopi e decisioni,
l’insegnamento.
VL: E dunque delle strutture cerebrali per
sostenerle. Ma se la capacità di instaurare legami cooperativi è così
fondata sul piano etologico e biologico, come può essere tanto in
disgrazia sul piano sociale? Il discorso va affrontato sul piano
dell’evoluzione. Proprio Liotti ci insegnava a non perdere di vista la
tripartizione evolutiva e gerarchica del nostro cervello e dei nostri
sistemi motivazionali. Il livello più arcaico presiede le condotte
non-sociali legate alla regolazione delle funzioni fisiologiche, alla
difesa dai pericoli, al controllo del territorio, ecc. Quando è molto
attivato può avere la meglio. Il secondo livello corrisponde
all’attività delle reti neurali che definiscono le condotte di
attaccamento, accudimento, richiesta/offerta di cura, ecc. Il terzo
livello, prerogativa della specie umana, è nella neo-corteccia e
riguarda le dimensioni cognitive dell’intersoggettività e della
costruzione di significati. Regola i livelli più arcaici ed è
influenzato dalla cultura di appartenenza.
BF: Ed è proprio qui
che poggia il sistema cooperativo paritetico. La spinta a cooperare non
solo ha promosso le nostre capacità empatiche e intellettuali, ma ha
anche favorito la nascita della cultura. Il vantaggio di condividere ciò
che si è appreso dall’esperienza individuale è alla base delle capacità
culturali che caratterizzano la nostra specie.
VL: Ha dunque
ragione l’antropologo Robert Boyd quando sostiene che il nostro successo
nell’adattamento è dovuto alla capacità di imparare dagli altri, una
capacità che ci permette di accumulare informazioni tra le generazioni e
sviluppare strumenti, credenze e pratiche che sarebbe troppo complesso
per il singolo individuo concepire durante l’arco della vita. La
cosiddetta social brain hypothesis ci spiega infatti che, nei primati,
l’espansione del cervello è avvenuta per gestire rapporti sociali sempre
più complessi e cooperare al meglio. Un fatto che ci aiuta a capire lo
sviluppo di tutte quelle relazioni non finalizzate alla riproduzione,
"cognitivamente" impegnative e specificamente umane, come quella
psicoterapeutica. Se la mente umana si è sviluppata per cooperare non
sorprende che, quando si ammala o soffre, la sua cura non possa che
basarsi su una relazione cooperativa. L’aspetto più "miracoloso"
dell’evoluzione è forse proprio l’abilità di generare cooperazione in un
mondo competitivo. Al punto che c’è chi sostiene che, alla mutazione e
alla selezione naturale, andrebbe aggiunta la cooperazione come terzo
principio fondamentale dell’evoluzione.