mercoledì 12 settembre 2018

Il Paese che ci meritiamo...
dal Corsera di oggi
«Ho la terza media? Sì, ma studio sempre»
di Claudio Bozza

... I leghisti che conoscono il senatore friulano Mario Pittoni da una vita, dicono che abbia una «vera ossessione» per tutti i temi che riguardano la scuola e l’istruzione. Lui conferma, utilizzando però il termine «immensa passione». Il curriculum di Pittoni, che presiede la commissione Istruzione, ha però una particolarità non da poco, rivelata dall’Espresso: ha finito gli studi con la terza media....


La Stampa 12.9.18
La psicoterapia? Ha le stesse basi della “confessione religiosa”: entrambe curano l’anima
Da Pitagora a Jung. Dall’”esame di coscienza” ai percorsi psicanalitici. Così, nei secoli, la scienza e l’uomo hanno esaminato i tormenti più profondi e la scoperta del sé
di Andrea Cionci


«I primordi di ogni trattamento analitico della psiche vanno ricercati nella confessione religiosa». Sono parole di Carl Gustav Jung, psichiatra e psicoterapeuta fondatore della psicologia analitica, vissuto nella prima metà del Novecento. Del resto, se l’etimologia della parola «psicoterapia» significa appunto «cura dell’anima», questa pratica affonda le sue radici nella civiltà greca, secoli prima dell’affermarsi del Cristianesimo.
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Pitagora e la tragedia greca 
«Sull’esame di sé e la “confessione” delle proprie mancanze – spiega Claudio Risé, scrittore e psicoterapeuta autore del recente “La scoperta di sé” (San Paolo ed.) - nasce la filosofia e la psicologia occidentale, con Pitagora, filosofo e scienziato greco. Nel pitagorismo, tuttavia, la “confessione”, veniva fatta a sé stessi per riconoscere le proprie debolezze e gradualmente trasformarle. Questo era l’equivalente dell’”esame di coscienza” che il cristiano deve fare prima della confessione, ed ogni volta che può, per rimanere in contatto con la propria coscienza e mantenerla integra”.
Le intuizioni di Pitagora costituiscono il primo barlume di consapevolezza nella storia umana per sviluppare pratiche volte a organizzare la vita quotidiana, la personalità e la responsabilità delle persone. Per quanto la mentalità attuale spesso e volentieri conduca ad andare “dove ci porta il cuore” (cosa che spesso può coincidere con la soddisfazione immediata di ogni capriccio) già gli antichi Greci mettevano in guardia dal cedere a quelle che, con lessico freudiano, si possono definire pulsioni. 
“Ma tu non essere impulsivo” raccomandava Eschilo nel coro de “I Sette contro Tebe”: nella tragedia greca, il disastro avveniva sempre a causa del cedimento a un impulso. Questo poteva provenire indifferentemente da un dio o da un demone; ecco perché, già secondo gli antichi, esso doveva essere sempre meditato e filtrato dall’uomo in un modo che conducesse a un’azione perfettamente libera». 
Un sentimento umano 
Se l’insegnamento pitagorico giunse fino ai Romani («La confessione dei nostri peccati è il primo passo verso l’innocenza», scriveva il drammaturgo Publilio Siro nel I sec. a.C.) anche nel resto del mondo si è costantemente rivelata l’esigenza tipicamente umana di sgravarsi la coscienza parlando con qualcuno. 
Nel Messico antico, i peccatori andavano a confessarsi dai sacerdoti della dea Tlaçolteotl (la «dea delle sozzure», cioè dei peccati specialmente carnali), i quali imponevano la penitenza. Nell’antico Perù, il penitente si confessava dall’ichuri, lo sciamano. Per espirare le proprie colpe ci si doveva sottoporre a lavacri o a salassi.
«Il senso di colpa – spiega il neuropsichiatra e scrittore Giuseppe Magnarapa – esiste da sempre ed è legato al principio di autorità il quale serve, a propria volta, a garantire la pace sociale. In assenza di un qualunque sistema di regole, infatti, non esiste la società. Se si infrange la regola, la psiche esprime l’esigenza di espiare, di produrre a se stessi lo stesso lutto o danneggiamento che si è procurato all’esterno per “pareggiare i conti” e ritrovare un nuovo adattamento. L’esigenza di confessare anche pubblicamente la propria colpa esprime esattamente questa necessità. Una forma ancestrale di questo bisogno si avverte, ad esempio nella cosiddetta “televisione verità” con persone che spettacolarizzano senza vergogna la propria intimità anche confessando azioni non esattamente edificanti».
Le prime confessioni cristiane 
Pubbliche erano, non a caso, le confessioni dei peccatori nei primi secoli del Cristianesimo: la preghiera, le buone azioni, il digiuno e l’elemosina erano le azioni grazie alle quali si otteneva il perdono del peccato. Questo viene definito dal Catechismo «una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni».
All’inizio, lo stato di penitente era molto gravoso e comportava forme di temporanea emarginazione. Nei secoli, la confessione dei peccati si è sempre più sistematizzata, ha iniziato a svolgersi privatamente, prima col vescovo e poi col semplice sacerdote, il quale è tenuto ancor oggi a osservare il più totale segreto «professionale» su quanto ascoltato durante il sacramento. 
Sovrapposizioni 
Secondo Jung il processo psicoterapico si articola in quattro fasi. Durante quella che lui definisce Confessione, il paziente svuota i propri segreti, estrinsecando la propria condizione e sofferenza. Nella Chiarificazione, egli diventa consapevole dei propri sentimenti, intuisce i motivi che lo hanno condotto al dolore. Nell’Educazione, si propone di assumere nuovi comportamenti e atteggiamenti e infine, nella Trasformazione, il paziente assiste ai risultati dell’effettivo cambiamento nella sua vita. 
Il parallelo col sacramento cattolico è abbastanza evidente, tanto che anche questo si articola in quattro fasi: la Contrizione, in cui il fedele si pente del male commesso, l’Esame di coscienza, in cui riflette su come e dove ha sbagliato; la Confessione, nella quale esprime al sacerdote tutti i peccati che in sincerità ricorda; infine la Soddisfazione, che implica un cambiamento nella propria vita e l’espiazione per il male compiuto con azioni risarcitorie, o con la preghiera. 
Vi è infine da ricordare che alla base di tutto vi è il principio della Misericordia divina, che consente all’uomo di rialzarsi dopo i cedimenti e di proseguire sulla strada del perfezionamento spirituale. Negli ultimi anni, in ambito cattolico, si è parlato molto di Misericordia, meno spesso si è ricordato come questa non possa essere svincolata dal pentimento e dal riconoscimento dei propri peccati. 
L’anonimato 
Fu il cardinale santo Carlo Borromeo, alla metà del ‘500, a regolare e a diffondere il confessionale nella sua classica struttura che, poi, si diffuse in tutto il mondo. Si tratta, come noto, di una cabina di legno dotata di inginocchiatoi; fitte grate metalliche celano il viso del penitente il quale non è tenuto a rivelare la propria identità al prete. Con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha aperto anche alla confessione vis à vis.
Tuttavia, sarebbe interessante indagare quali benefici possa produrre l’atto rituale di liberare la propria coscienza in un soffio di parole, «spifferando» il male compiuto all’orecchio del sacerdote, ieratico e invisibile intermediario fra Dio e l’uomo, senza vederlo e senza farsi da lui vedere. Il diaframma costituito dalla grata era pensato in modo utile anche per il prete, per metterlo al riparo da contatti troppo ravvicinati e forieri di tentazioni. Probabilmente San Carlo aveva intuito, già cinque secoli fa, quello di cui da pochi decenni si occupa la Programmazione Neuro Linguistica, ovvero il linguaggio più o meno volontario che esprimono gli occhi e la posizione del corpo. 
Per quanto, infatti, un pastore debba ascoltare con neutra benevolenza la confessione di un penitente, non è detto che egli riesca a controllare le sottili reazioni della sua postura e del suo sguardo che possono veicolare una quantità di messaggi involontari. 
Non sappiamo se, nel mondo della psicoterapia, si sia mai sperimentata una soluzione tecnica come quella della grata del confessionale tradizionale, magari nell’ottica di assicurare maggiore libertà e comfort emotivo al paziente attraverso il completo anonimato. 
Un terreno ricco di spunti 
Il grande scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton riassumeva: «La psicoanalisi è una confessione senza assoluzione». In effetti, l’ approccio laico non prevede generalmente un sistema morale, né la credenza in un’entità trascendente. Mentre il sacerdote, con un segno di croce, riporta il fedele nella pace con se stesso, lo psicoterapeuta conduce il paziente a sciogliere dai solo i propri nodi attraverso un percorso che può essere lungo e difficile. 
Ciò che emerge è che i contatti fra tradizione religiosa, (cattolica, ma non solo) e il mondo della psicoterapia-psichiatria offrono un fertile terreno di scambio. Ad esempio, oggi si parla spesso di narcisismo, di depressione; di disturbi alimentari come anoressia e bulimia; di sex addiction o ipersessualità. Non ci si trova dunque di fronte a versioni più o meno patologiche degli antichi vizi come superbia, accidia, gola e lussuria?
Margriet Sitskoorn, docente di Neuropsicologia clinica all’Università di Tilburg (Olanda), in un capitolo del suo libro «I sette peccati capitali del cervello» mostra, attraverso vari studi neuroscientifici, come il soddisfacimento dei bisogni più elementari, privi di riflessione etica e di controllo, conduca al rilascio di sostanze come dopamina e oppioidi, che producono piacere immediato anche se questo comporterà conseguenze negative per se stessi e per gli altri. E’ stata scoperta, dunque, la radice biochimica della seduzione del Male? 
Tra religione e scienza «c’è piuttosto antipatia sentimentale che opposizione logica», sentenziava il colombiano Nicolás Gómez Dávila. Tuttavia, considerando che l’esperienza religiosa si è applicata allo studio dell’uomo per alcuni millenni, si potrebbe dare ragione ad Albert Einstein quando aprì al confronto fra i due mondi con una frase rimasta celebre: «La religione senza la scienza è cieca, la scienza senza la religione è zoppa».

Repubblica 12.9.18
I dialoghi. Vittorio Lingiardi e Benedetto Farina
La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia
Dottor Freud aiutaci a cooperare
di Vittorio Lingiardi

Vittorio Lingiardi è uno psichiatra e psicoanalista italiano, professore ordinario di psicologia dinamica presso la Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma. Wikipedia

La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia. Sono giunto a questa conclusione dialogando con un collega che ha una formazione diversa dalla mia. Non che parlare di "scuole" abbia sempre senso, ma la mia educazione, psicoanalitica, e quella del mio interlocutore cognitivista Benedetto Farina, docente all’Università Europea di Roma e allievo di Giovanni Liotti, uno dei padri del cognitivismo italiano, sono oggettivamente diverse.
Cose importanti però ci uniscono: siamo entrambi clinici e ricercatori. Benedetto fa ricerca soprattutto da una prospettiva neuroscientifica; io parto dai trascritti delle sedute di psicoterapia per valutare la qualità dell’alleanza terapeutica: rotture, riparazioni, negoziazioni... Entrambi siamo cresciuti studiando la teoria dell’attaccamento di Bowlby, che pone basi etologiche e motivazionali all’origine delle relazioni e dello sviluppo della personalità. Forse l’unica teoria che ha saputo raccogliere attorno a sé, mettendole in dialogo, discipline tra loro diverse e litigiose. «Oggi – dice Farina – potremmo metterla così: la tua psicoanalisi e il mio cognitivismo considerano la relazione con il paziente il principale strumento terapeutico. Ma non è forse questo il fattore comune che secondo la ricerca spiega l’efficacia di tutti i trattamenti?».
Vittorio Lingiardi: Sì, l’esito di una terapia è in gran parte associato alla qualità della relazione che si stabilisce tra paziente e terapeuta. Detto questo, le variabili in gioco sono molte. Anche perché molte sono le psicoanalisi e molti i cognitivismi.
Nonostante il marchio di fabbrica, un paziente in cerca di terapia non sa mai esattamente quello che trova. E poi ci sono le diverse tipologie, anche caratteriali, di terapeuta. Un terapeuta riservato e uno espansivo funzionano nello stesso modo? Con tutti i pazienti?
Per tornare alla relazione come fattore terapeutico, mi domando se è più in gioco l’accudimento o la cooperazione, pur sapendo che il bravo clinico sa dosare il loro contributo.
Benedetto Farina: È un tema che appassionava Liotti, il quale ha sempre sostenuto che è più efficace impostare la terapia sul piano cooperativo, soprattutto con pazienti gravi che hanno alle spalle un’infanzia traumatica.
Stimolare troppo il sistema dell’attaccamento è rischioso, può riattivare memorie traumatiche di accudimenti mancati o distorti.
Molte ricerche dimostrano che la promozione di un clima di cooperazione favorisce invece la capacità di provare empatia, di sintonizzarsi con i pensieri degli altri, di comprendere il funzionamento della mente propria e altrui e di lavorare sugli aspetti che portano a soffrire.
VL: È quello che in psicologia viene chiamato mentalizzare, una funzione che inizia a svilupparsi nei primi anni e ci accompagna tutta la vita. Ed è il pane quotidiano di molte terapie. La sua complessità sta nel riuscire a "tenere in mente" i nostri stati mentali e quelli degli altri.
Sofisticate tecniche di registrazione simultanea dell’attività cerebrale di due individui che interagiscono mostrano che l’attività elettrica dei loro cervelli, nelle aree evolutivamente più recenti come la corteccia frontale, si sincronizza quando devono compiere azioni coordinate e cooperative.
BF: Molte discipline indicano che l’eccezionale espansione del cervello e lo sviluppo delle funzioni cognitive e culturali di cui l’uomo è capace sono il risultato di una traiettoria evolutiva finalizzata alla relazione e alla cooperazione. La spinta motivazionale alla cooperazione ha richiesto lo sviluppo di capacità cognitive sempre più sofisticate come il linguaggio, l’empatia, la condivisione di scopi e decisioni, l’insegnamento.
VL: E dunque delle strutture cerebrali per sostenerle. Ma se la capacità di instaurare legami cooperativi è così fondata sul piano etologico e biologico, come può essere tanto in disgrazia sul piano sociale? Il discorso va affrontato sul piano dell’evoluzione. Proprio Liotti ci insegnava a non perdere di vista la tripartizione evolutiva e gerarchica del nostro cervello e dei nostri sistemi motivazionali. Il livello più arcaico presiede le condotte non-sociali legate alla regolazione delle funzioni fisiologiche, alla difesa dai pericoli, al controllo del territorio, ecc. Quando è molto attivato può avere la meglio. Il secondo livello corrisponde all’attività delle reti neurali che definiscono le condotte di attaccamento, accudimento, richiesta/offerta di cura, ecc. Il terzo livello, prerogativa della specie umana, è nella neo-corteccia e riguarda le dimensioni cognitive dell’intersoggettività e della costruzione di significati. Regola i livelli più arcaici ed è influenzato dalla cultura di appartenenza.
BF: Ed è proprio qui che poggia il sistema cooperativo paritetico. La spinta a cooperare non solo ha promosso le nostre capacità empatiche e intellettuali, ma ha anche favorito la nascita della cultura. Il vantaggio di condividere ciò che si è appreso dall’esperienza individuale è alla base delle capacità culturali che caratterizzano la nostra specie.
VL: Ha dunque ragione l’antropologo Robert Boyd quando sostiene che il nostro successo nell’adattamento è dovuto alla capacità di imparare dagli altri, una capacità che ci permette di accumulare informazioni tra le generazioni e sviluppare strumenti, credenze e pratiche che sarebbe troppo complesso per il singolo individuo concepire durante l’arco della vita. La cosiddetta social brain hypothesis ci spiega infatti che, nei primati, l’espansione del cervello è avvenuta per gestire rapporti sociali sempre più complessi e cooperare al meglio. Un fatto che ci aiuta a capire lo sviluppo di tutte quelle relazioni non finalizzate alla riproduzione, "cognitivamente" impegnative e specificamente umane, come quella psicoterapeutica. Se la mente umana si è sviluppata per cooperare non sorprende che, quando si ammala o soffre, la sua cura non possa che basarsi su una relazione cooperativa. L’aspetto più "miracoloso" dell’evoluzione è forse proprio l’abilità di generare cooperazione in un mondo competitivo. Al punto che c’è chi sostiene che, alla mutazione e alla selezione naturale, andrebbe aggiunta la cooperazione come terzo principio fondamentale dell’evoluzione.

il manifesto 12.9.18
Migranti, la strage nascosta: 100 dispersi il 1 settembre
Tragedia in mare. I sopravvissuti hanno raccontato i dettagli al personale di Msf che li ha assititi in Libia. Erano partiti su due gommoni, oltre 160 persone su ognuno, provenienti da Sudan, Mali, Nigeria, Camerun, Ghana ma anche dalla stessa Libia oltre che da Algeria ed Egitto
di Marina Della Croce


Sono rimasti per ore in mare, intorno ai resti del gommone affondato. Il primo soccorso è arrivato sotto forma di giubbotti e scialuppe gonfiabili, lanciati dagli aerei delle missioni ufficiali che pattugliano il Mediterraneo, ma hanno dovuto attendere ore perché la Guardia costiera di Tripoli arrivasse con le motovedette. Il risultato sono stati oltre cento dispersi, tra cui una ventina di bambini, due i cadaveri recuperati.
IL NAUFRAGIO È AVVENUTO il primo settembre, i 55 sopravvissuti hanno raccontato i dettagli al personale di Medici senza frontiere, che li ha assistiti in Libia. Erano partiti all’alba del primo settembre su due gommoni, oltre 160 persone su ognuno, provenienti da Sudan, Mali, Nigeria, Camerun, Ghana ma anche Libia, Algeria ed Egitto.
Uno dei due mezzi si è fermato quasi subito per un guasto al motore però i tubolari hanno retto, così il giorno dopo sono stati tutti recuperati dalla Marina libica. L’altro ha continuato la traversata ma, verso le 13, ha cominciato a sgonfiarsi: «Il telefono satellitare ci indicava che non eravamo lontani da Malta – hanno raccontato i superstiti -. Abbiamo chiamato la Guardia costiera italiana dando le nostre coordinate e chiedendo assistenza. Ci hanno detto che avrebbero mandato qualcuno. Le persone cominciavano a cadere in acqua perché il gommone affondava». I soccorsi sono arrivati ma non via mare: «Da un aereo hanno lanciato zattere di salvataggio – hanno spiegato – ma eravamo già tutti in acqua, il gommone si era capovolto. In pochi avevano i giubbotti di salvataggio, quelli che potevano aggrapparsi ai resti del relitto sono rimasti in vita. Poche ore dopo, sono arrivati altri soccorritori, sempre in aereo, lanciando altre zattere».
Solo in 55 sono sopravvissuti. Tra i morti due gemelli di 17 mesi, annegati con i genitori. «Potevano essere salvati se i soccorsi fossero arrivati prima» raccontano i naufraghi che, alla fine, sono stati raccolti dalla Guardia costiera libica, insieme a quelli che erano sull’altro gommone. In 276 il 2 settembre sono stati portati indietro a Khoms, 120 chilometri a est di Tripoli.
GLI OLTRE CENTO ANNEGATI dell’ennesimo naufragio rendono sempre più difficile la posizione del governo italiano, alle prese con le accuse delle procure siciliane per il caso Diciotti. Così da Roma ieri pomeriggio è arrivato il tentativo di liquidare la vicenda: l’intervento sarebbe avvenuto in area Sar (Ricerca e soccorso, ndr) libica, con Tripoli che ne ha assunto la gestione. La centrale operativa della Guardia costiera italiana ha ricevuto la segnalazione e l’ha girata alle autorità Sar competenti, recita la giustificazione.
I sopravvissuti al naufragio avevano bruciature causate dalla miscela di carburante e acqua salata, infezioni polmonari e problemi respiratori. «Siamo riusciti a trattare 18 casi urgenti, tra cui nove persone con ustioni chimiche estese fino al 75% del corpo – ha spiegato ieri Jai Defransciscis, infermiera di Msf a Misurata -. Un paziente in pericolo di vita è stato trasferito in ospedale».
IL GRUPPO È STATO PORTATO in un centro di detenzione sotto il controllo delle autorità di Tripoli. Tra gennaio e agosto di quest’anno, la Guardia costiera, supportata dall’Ue, ha riportato in Libia 13.185 migranti e rifugiati. Nei centri di Khoms e dintorni ci sono anche bambini, neonati, donne incinte e persone in gravi condizioni di salute. «Come possono guarire – prosegue Defransciscis – se sono rinchiusi in celle con condizioni igieniche precarie, dormono su coperte direttamente sul pavimento, che causano un dolore incredibile per chi ha ustioni gravi? Alcuni di loro non possono nemmeno sedersi o camminare. Ci sono pazienti con gravi infezioni toraciche causate dalla prolungata permanenza in acqua».
I MIGRANTI E I RIFUGIATI, spiega ancora Msf, vengono imprigionati per un tempo indefinito senza alcuna protezione di base o la possibilità di fare ricorso legale. Tra i detenuti, il team di Medici senza frontiere ha incontrato migranti che hanno avuto accesso alla protezione dell’agenzia Onu Unhcr ma il percorso avviato nel 2017, che prevede l’evacuazione e il rimpatrio nel paese d’origine (per chi accetta), è ormai bloccato da mesi. Così restano in una detenzione arbitraria, in balia dei trafficanti.
I combattimenti a Tripoli, iniziati il 26 agosto, hanno reso la situazione ancora più pericolosa. «Bisogna accelerare con i percorsi per farli uscire dal paese – conclude Msf -. Soprattutto, bisogna smettere di intercettarli in mare per riportarli in Libia come mezzo per bloccare gli arrivi in Europa».
Dal primo gennaio 2018 sono oltre 1.600 le vittime decedute durante la traversata del Mediterraneo centrale (rispetto ai 2.564 dello stesso periodo del 2017), nonostante il calo dell’80% degli sbarchi: da 99mila del 2017 a 20mila.

Il Fatto 12.9.18
L’allarme e l’intervento ma muoiono in cento
Nuova strage al largo delle coste libiche nonostante l’allerta degli italiani
di P. C.


Due gommoni stracolmi di migranti in difficoltà al largo delle coste libiche, la traversata della speranza si trasforma nell’ennesima tragedia del mare. Sarebbero cento le vittime del naufragio avvenuto il 1° settembre e di cui si è avuta notizia grazie ai racconti fatti dai superstiti del naufragio al personale di Medici Senza Frontiere. Tra loro 20 bambini, due avevano appena un anno e mezzo. È bastato alleggerire la presenza del sistema Saf (Search and rescue) libico nel canale di Sicilia per tornare alla straziante conta delle vittime nel Mediterraneo. Ad attivare i soccorsi la nostra Guardia costiera che ha girato l’sos alle autorità libiche, competenti per territorio marittimo, ma non è bastato per evitare una strage. Con le navi delle ong al palo, lo specchio d’acqua tra Italia e Libia diventa ancora più a rischio.
Secondo l’Oim, l’agenzia Onu per i migranti, nel 2018 le vittime di naufragi sono state 1.130, mentre per l’Unicef il bilancio è di 1.565, con un calo del 39% rispetto al 2017: “Meno migranti e più vittime, significa che i viaggi della disperazione sono diventati più pericolosi che mai”, ha commentato il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini. A bordo dei due precari gommoni si trovavano, nel complesso, 276 persone. I migranti salvati, di origini diverse (tra loro anche alcuni libici), sono stati portati nel centro di detenzione di Khoms, 120 chilometri a est di Tripoli. Si tratta di uno dei centri gestiti dal Ministero libico della migrazione (Dcim) dove entrano le organizzazioni internazionali. Appena accolti dal personale di Msf sono emerse le solite terribili testimonianze: “Tra i sopravvissuti – ha riferito Jai Defransciscis, infermiera di Msf, tra le prime ad accogliere i naufraghi nulla prigione di Khoms – c’erano casi di ustioni chimiche causate dalla miscela tra carburante e acqua salata che si era accumulata sul fondo del gommone. Siamo riusciti a trattare 18 casi gravissimi, con il 75% del corpo ustionato”.
Sono stati gli stessi naufraghi, una volta in difficoltà, a contattare la guardia costiera italiana con il telefono satellitare “Mentre chiedevamo assistenza, la gente ha iniziato a cadere in acqua quando il gommone si è sgonfiato. Ho visto morire dei bambini”, è il racconto di uno dei sopravvissuti.
Intanto Francia e Italia hanno espresso cordoglio e condanna a Fayez al-Sarraj, leader del Governo di concordia nazionale (Gna), dopo l’assalto alla sede del Noc a Tripoli. Il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, di ritorno dal vertice con il generale Haftar a Bengasi, attraverso una telefonata, Parigi tramite un comunicato ufficiale secondo cui “l’attacco ha come obiettivo il processo politico”. In un clima così confuso, al centro del dibattito resta lo svolgimento delle elezioni libiche, fissate per il 10 dicembre. La Francia ribadisce il suo impegno e l’improrogabilità dell’appuntamento, ma è lo stesso uomo forte di Tobruk a frenare: “In Libia non ci sono le condizioni per andare al voto tra 3 mesi” ha spiegato Haftar.

Il Fatto 12.9.18
“È sempre tempo di Emergency”
L’incontro- L’organizzazione non governativa tra critiche al Pd e all’ondata populista
di Sandra Amurri

“Di Guerra e di Pace” è il titolo del 17° incontro di Emergency. Tanti giovani, volontari, formichine laboriose in un Paese che al degrado morale oppone “la Resistenza del fare cose, aiutare le persone, costruire diritti” come la definisce Gino Strada. Le Canzoni contro l’odio di Nerì Marcorè. Tutto esaurito al Teatro Sociale: “Leggo che il fascismo viene evocato come concetto anacronistico – esordisce Luciano Canfora ricordando la frase di Piero Gobetti, morto giovanissimo per le botte dei fascisti – Fascismo, autobiografia della nazione, per cogliere il pericolo incombente di un suo ritorno. Vengono da noi a rubarci il lavoro quindi mobilitatevi popolo e noi ci impegniamo a difendervi”.
Le parole sono pietre. Chiamare “un essere umano ‘migrante’ è alludere al fatto che posso metterlo alla porta”. Un ministro dell’Interno “curioso” che “non so se, intenzionalmente, adotta alcune formule tipicamente ducesche come ‘molti nemici molto onore’”.
La soluzione a “un problema che appare insolubile, forse c’è, è il mondo immenso dell’educazione dove si insegna e si impara, dove c’è la vera libertà del pensiero, un’immensa fucina”. “Essere qui – confessa il direttore del Tg La7 Enrico Mentana – è un tributo a chi ha nuotato controcorrente per tanto tempo, in un momento in cui la corrente si è fatta impetuosa contro chi ha portato avanti un’idea bella della solidarietà e dell’accoglienza”.
Riferimento chiaro a Salvini, che in risposta a Gino Strada che lo aveva invitato ad andare “nelle strutture dove si vive la pacchia” rispose: “La vostra retorica ha i giorni contati, preparate le valigie, ora tocca a noi”. I partiti, spiega, “sono divenuti sigle che scelgono la linea programmatica dai sondaggi alla ricerca del consenso, ma la democrazia senza la politica è uno schema vuoto”. La responsabilità è del “fallimento del governo Renzi che non ha capito il fenomeno dell’accoglienza e ha vissuto l’ondata migratoria del 2015 con la retorica del Paese che sapeva accogliere, ma a parole. Se non ci fosse la crisi della sinistra non ci sarebbero gli ultimi diventati penultimi che se la prendono con gli ultimi. Le periferie dimenticate sono divenute terreno di coltura del nuovo razzismo. Se oggi Salvini incontra Orban, prima di lui lo hanno fatto altri governanti e Orban era sempre lo stesso”. Tocca un tema dolente, la delegittimazione delle Ong che “ha portato tanti, anche in buona fede, a covare diffidenza”. Ricorda le dichiarazioni del procuratore di Catania, Zuccaro “l’inchiesta non c’era ma lui sapeva già cosa era successo. Raccontò di un accordo fra scafisti e Ong e ricevette la solidarietà da centrodestra e Di Maio. Quando l’inchiesta fu archiviata senza indagati nessuno gliene chiese conto”. Ma la partita non è persa: “Facce, idee, sigle nuove. Non si può pensare che chi ha perso coltivi la sua rivincita solo con un po’ di maquillage o mettendo figure di seconda fila al posto di quelle di prima fila perché li riconosciamo”. Chiude Gino Strada, ricordando che “la situazione è peggiorata, povertà e guerre sono aumentate ma quella che istiga alla paura del diverso è una piccola minoranza rumorosa ben organizzata, non è la maggioranza degli italiani e a questo dobbiamo crederci”. Mentre dal palco Fiorella Mannoia, in concerto con Ermal Meta e Fabrizio Moro, ripete: “Restiamo umani”.

il manifesto 12.9.18
La destra illiberale cerca lo scontro frontale
Parlamento europeo. Orban all'offensiva a Strasburgo, non cede niente. Oggi il voto sull'articolo 7. La destra tradizionale del Ppe è spaccata. I governi di Italia e Austria a pezzi. Orban inneggia al "popolo" contro la democrazia rappresentativa
di Anna Maria Merlo


PARIGI Muro contro muro. Viktor Orbán sceglie lo scontro diretto e non cede niente di fronte all’europarlamento. Il primo ministro ungherese, leader del fronte illiberale, è intervenuto ieri a Strasburgo, la vigilia del voto di oggi degli europarlamentari per avviare la procedura dell’articolo 7, una risoluzione che, se approvata, chiederà al Consiglio di “constatare l’esistenza di un rischio chiaro di violazione grave da parte dell’Ungheria dei valori su cui si fonda l’Unione europea”. Anche se il risultato del voto di oggi resta estremamente incerto, Orbán ha accusato preventivamente il parlamento europeo di voler “condannare” non un governo ma un popolo, “che da mille anni è membro della famiglia europea”, che sarà punito “perché ha deciso che non sarà patria di immigrati”.
Orbán: “Volete escludere un popolo”. Ha urlato: sono venuto a Strasburgo “per difendere la mia patria”, anche “contro di voi se necessario”, perché “non accettiamo minacce e ricatti delle forze pro-immigrazione, difenderemo le nostre frontiere, fermeremo l’immigrazione clandestina”. Il fronte illiberale getta la maschera e afferma il disprezzo per la democrazia rappresentativa: in Italia, Salvini riprende la tesi di Orbán, il “parlamento non processi il popolo”.
Marie Le Pen lo complimenta: “Bravo! Orbán è rimasto inflessibile di fronte ai maestrini del Parlamento europeo, che calpestano la democrazia pretendendo di difenderla”. Orbán rilegge la storia e ingloba nella sua deriva autoritaria anche la rivolta contro i sovietici del ’56: “condannerete l’Ungheria che con il suo lavoro e il suo sangue ha contribuito alla storia della nostra magnifica Europa, che si è sollevata contro l’esercito più potente del mondo, quello sovietico, e che ha pagato un forte scotto per difendere la democrazia”.
Oggi l’Europarlamento vota sull’articolo 7 da applicare all’Ungheria (ci vogliono i due terzi di voti per presentare la richiesta al Consiglio, ma la procedura potrà poi essere bloccata da un veto, la Polonia è implicata in una procedura analoga avviata dalla Commissione nel dicembre 2017). Ma l’offensiva del fronte illiberale sta spaccando il Ppe, il principale gruppo parlamentare a Strasburgo con 218 seggi.
Emmanuel Macron, indicato come “nemico” principale dal fronte illiberale, qualche giorno fa ha inviato un messaggio al Ppe, perché chiarisca la sua posizione: “non si può essere contemporaneamente a fianco della cancelliera Angela Merkel e di Viktor Orbán” (in Francia, i Républicains sono già spaccati, in Germania la coabitazione tra Merkel e il ministro degli Interni Seehofer è sempre più problematica, soprattutto dopo le manifestazioni di Chemnitz e Köthen).
La Fidesz di Orbán fa ancora parte del Ppe. Oggi, tutti gli occhi saranno puntati sul voto del capogruppo, il tedesco (Csu) Manfred Weber, che ambisce alla successione di Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione e che ha cercato di calmare Orban, con una telefonata. Oltre a quello italiano, spaccato anche il governo austriaco, con l’Austria presidente semestrale del Consiglio Ue: il cancelliere Sebastian Kurz (Ppe) ha indicato che il suo partito voterà a favore dell’applicazione dell’articolo 7 all’Ungheria, mentre il vice-premier, Heinz-Christian Strache, dell’Fpö, ha invitato Orbán a raggiungere il gruppo dell’Europa delle nazioni e a creare un forte polo di estrema destra a Strasburgo. Per Juncker (Ppe) “l’appartenenza di Fidesz al Ppe è un problema”.
Oggi, al Ppe si conteranno i voti e l’entità della spaccatura (Forza Italia voterà contro l’applicazione dell’articolo 7, in sintonia con la Lega e l’estrema destra). A favore della procedura di sanzione dell’Ungheria ci sono la sinistra della Gue, il Pse, i Verdi, i centristi dell’Alde. Alexis Tsipras – la Grecia ha sofferto dell’intransigenza europea quando si tratta di soldi, mentre oggi il rischio del voto sull’Ungheria è di un cedimento di fronte alla difesa dei valori –  ha riassunto a Strasburgo la situazione a pochi mesi dalle elezioni europee: sarà “una battagli di valori e di principi” e “tutte le forze progressiste, democratiche, pro-europee devono essere unite, non dobbiamo lasciare l’Europa fare un salto nel passato”.
Orbán vuole forzare la Ue, scardinarla dall’interno, ma non intende portare l’Ungheria fuori dall’Unione. I Fondi strutturali Ue sono il 4,4% del pil ungherese. La ministra delle relazioni con la Ue, Judith Varda, ha respinto “vigorosamente” il contenuto del rapporto dell’Europarlamento, redatto dalla verde (olandese) Judith Sargentini, considerato “una vendetta” per il rifiuto di Budapest di accogliere migranti. Ma l’Ungheria ha anche cercato di convincere gli europarlamentari delle sue buone ragioni. Ha inviato un documento di 109 pagine, dove pretende di smontare le critiche del rapporto Sargentini, si difende, sui Rom, sul sistema giudiziario. A luglio, la Commissione ha già contestato di fronte alla Corte di giustizia la legge anti-immigrazione dell’Ungheria.

il manifesto 12.9.18
Zitti zitti i 5S votano contro Budapest
Voto per le sanzioni all'Ungheria. «Denunciati dati di fatto da non ignorare». Ma il Movimento evita proiezioni nazionali del voto
L’incontro a Milano tra Matteo Salvini e Orbán
di Giuliano Santoro


«Sono partiti i cori da stadio delle due fazioni di tifosi qui in plenaria a Strasburgo», commenta Ignazio Corrao, eurodeputato del Movimento 5 Stelle, a proposito della seduta plenaria che a Strasburgo discute della applicazione delle sanzioni contro l’Ungheria.
È L’UNICO DELLA PATTUGLIA a 5 Stelle a commentare la vicenda: tutto il M5S tiene un profilo basso e non interviene in aula. Così, mentre la capogruppo leghista Mara Bizzotto si stringe a Viktor Orbán e dice «questa Europa va cambiata e noi la cambieremo da cima a fondo», gli europarlamentari grillini non entrano nel merito.
Ciò accade nonostante i 5S abbiano deciso di restare coerente al voto già espresso in commissione diritti civili e di approvare il report sulle violazioni dello stato di diritto in Ungheria. L’imbarazzo è dovuto al fatto che per l’ennesima volta lo scenario continentale per il M5S diventa il collo sottile dentro al quale passano i grossi rospi della politica nazionale. Non è un mistero che parte del M5S in passato abbia avuto una vera e propria fascinazione per Orbán, come testimonia un testo a favore dell’ungherese apparso sul blog di Beppe Grillo nel 2015 e come confermano i commenti non entusiasti della base grillina quando viene comunicata la decisione di votare le sanzioni. A Strasburgo casca l’asino, come accadde agli albori di questa legislatura, quando gli eletti dovettero accettare di allearsi con Nigel Farage.
O come nelle giornate del rocambolesco tentativo di approdare nel gruppo dei liberali dell’Alde. «La relazione della europarlamentare olandese Sargentini denuncia alcuni dati di fatto che non possono essere ignorati – spiegano i 5 Stelle da Strasburgo – Diritti costituzionali messi a repentaglio, indipendenza della magistratura compromessa, diritti delle minoranze calpestati, corruzione endemica dell’amministrazione, conflitti di interessi di componenti del governo».
I GRILLINI CERCANO in tutti i modi di evitare proiezioni nazionali del voto. Nel giorno in cui il centrodestra italiano si ritrova unito al fianco del leader ungherese, cercano comunque di esprimere una posizione che li distingua dagli altri gruppi.
Per questo, la parlamentare europea Laura Agea precisa che il report sullo stato di diritto dell’Ungheria «non è una materia inserita nel contratto di governo Lega-M5S» e ribadisce che «il governo Lega-5 Stelle sta procedendo a passi spediti ed efficaci laddove c’erano dei punti estremamente importanti che già sono stati realizzati e che andranno avanti con le priorità per i prossimi mesi ». Però Orbán nella sua replica in aula non perde occasione per rinnovare la sua stima per il governo gialloverde: «Sulla migrazione sono disposto a cooperare con qualsiasi governo che voglia difendere le frontiere, non è per me una questione partitica, e devo dire che mi tolgo il cappello di fronte agli italiani per il coraggio che stanno avendo e hanno avuto per quanto hanno fatto». Il comunicato congiunto di tutto il gruppo M5S giustifica il voto contro l’Ungheria proprio in virtù degli impegni sui migranti sottoscritti con la Lega: «Nostro obiettivo è arrivare a sbarchi zero, come è scritto nell’accordo per il governo del cambiamento.
MA NEL FRATTEMPO I BARCONI arrivano e noi spendiamo quattro miliardi l’anno per affrontare da soli l’emergenza migranti. Orbán finora con il suo no ai ricollocamenti ha in maniera chiara voltato le spalle al nostro paese. Lui, così come tutti quelli che chiudono i porti o non accettano i ricollocamenti, per noi uguali sono».
Dunque, Orbán per il Movimento 5 Stelle è paragonabile Macron o Merkel. In serata Matteo Salvini ripropone la similitudine quando afferma a proposito della ricollocazione dei migranti: «L’Ungheria doveva prendere 300 persone, ma Orbán almeno non viene a darmi lezioni. A Macron, invece, dico di aprire a Ventimiglia». Proprio un paio di settimane fa Di Maio aveva detto che dopo le elezioni europee di primavera l’Europa che conosciamo non ci sarà più e tutto sarà diverso per il governo gialloverde. Paiono lontani i giorni in cui i grillini sembravano aver scelto proprio Macron come riferimento europeo e puntavano a fare gruppo dopo il voto di primavera proprio con l’aggregato post-ideologico del presidente francese.

Il Fatto 12.9.18
Migranti, giudici e media: tutte le leggi di Orbán sotto accusa
“Minaccia i valori fondanti della Ue”. Ecco perché il Parlamento è chiamato a decidere se l’Ungheria va punita o tollerata - Il processo a Bruxelles
di Stefano Feltri


Dice Matteo Salvini che “non si processano i popoli e i governi liberamente eletti”. Ma l’Unione europea prevede invece questa possibilità per gli Stati che minacciano i valori fondanti del progetto comunitario, lo stabilisce l’articolo 7 del trattato, e la Commissione europea nel 2003 ha stabilito che questo potere d’intervento vale “anche nei campi in cui gli Stati possono agire in modo autonomo dall’Unione”.
Dopo varie contestazioni nel 2011 e nel 2013, il Parlamento europeo a marzo del 2017 ha chiesto alla commissione Libertà civili e Giustizia di stilare un rapporto che, presentato lo scorso aprile, è la base per il voto di oggi sulle eventuali sanzioni contro l’Ungheria di Viktor Orbán, il premier tornato al potere nel 2010 che ha impresso una svolta autoritaria al Paese, dopo che la crisi finanziaria del 2008 aveva fatto vacillare la fiducia nelle promesse dell’integrazione europea. Le 26 pagine del report firmato dall’eurodeputata verde Judith Sargentini, raccolgono la sintesi di tutte le contestazioni ricevute dall’Ungheria da parte dell’Onu, della Corte europea dei diritti dell’uomo, dell’Osce che vigila sulla correttezza dei processi elettorali. Contestazioni che Orbán ha di solito ignorato. E non si tratta soltanto di migranti, che pure sono l’argomento di cui più si discute nel resto d’Europa perché l’Ungheria rifiuta di accogliere i rifugiati arrivati in altri Paesi (Italia e Grecia) e prevede “l’obbligo di incarcerazione” per i richiedenti asilo, bambini inclusi, fino al termine della procedura di analisi della loro domanda.
L’Ungheria di Orbán mette in discussione tutti quegli equilibri tra poteri tipici delle democrazie occidentali. Il report Sargentini parte dalle fondamenta, la Costituzione: nel 2012 Orbán l’ha riformata con una restrizione dei poteri della Corte costituzionale, che non può più neppure rifarsi alla propria giurisprudenza precedente alla riforma. Orbán ha cancellato il passato e si è assicurato di poter condizionare il futuro, rivedendo l’età di pensionamento dei giudici così da poterli sostituire. Ha usato lo stesso sistema per l’intero apparato giudiziario con una riforma del 2012, contestata dalla Corte di Giustizia europea: pensionamento obbligatorio a 62 anni di giudici, pubblici ministeri e notai, violando gli obblighi di legge europei di ridurlo gradualmente a 65 con un periodo transitorio di dieci anni. Ma Orbán voleva decapitare i vertici del potere giudiziario, già nel 2011 aveva creato un Ufficio nazionale giudiziario, di nomina politica, che duplicava l’organo di autogoverno della magistratura sottraendogli poteri.
Il controllo politico della giustizia può indurre in tentazione: nel 2018 il comitato dell’Onu per i diritti umani ha denunciato che le leggi attuali in Ungheria sulla sorveglianza segreta motivata da ragioni di sicurezza nazionale “consentono intercettazioni di massa e non prevedono tutele sufficienti contro violazioni arbitrarie della privacy”. E per evitare che la stampa critichi questo genere di norme, Orbán ha varato anche una riforma dei media che prevede criteri stringenti e discrezionali di cosa sia un “contenuto illegale” oltre a obblighi di rivelare le fonti delle notizie.
Il consenso di Orbán si regge sulla costruzione di nemici interni ed esterni per difendersi dai quali servono leggi sempre più dure. Non soltanto i migranti, ma anche le minoranze di ogni genere, una riforma del 2011 ha tolto il riconoscimento a “centinaia di chiese prima riconosciute”, i rom sono discriminati in vari modi al punto che – ha contestato la Commissione Ue nel 2016 – “i bambini rom sono presenti in percentuali sproporzionate nelle scuole per bambini con disabilità mentali e sono segregati in quelle normali”.
Dal 2017 Orbán è poi sotto attacco dalla Ue per le sue leggi contro le università straniere operanti in Ungheria e contro le organizzazioni non governative nel Paese. Il bersaglio, che sollecita pulsioni di un antisemitismo ormai esplicito, è sempre il finanziere George Soros, con la sua Central European University che doveva diffondere i valori occidentali nei Paesi ex sovietici. Anche se Soros ha finanziato gli studi a Oxford del giovane Orbán, a febbraio 2018 il governo ha fatto approvare il pacchetto di norme “stop Soros” che ha messo fuori legge l’università del finanziere nato proprio a Budapest nel 1930.
Oggi il Parlamento deve decidere se tutte queste politiche elencate nel report Sargentini sono compatibili con i valori Ue o vanno sanzionate. Un voto che segna uno spartiacque per capire cos’è rimasto dell’Unione europea.

Repubblica 12.9.18
Intervista a Piotr Stasinski (Gazeta Wyborcza)
"Così in Polonia hanno messo il bavaglio ai media"
Il vicedirettore del quotidiano: "Pubblicità solo a giornali e tv amici del governo"
di Rosalba Castelletti


«Da quando il partito Diritto e Giustizia (PiS) ha preso il potere nell’ottobre 2015, in Polonia sono aumentate le pressioni politiche nei confronti dei media. E tutto è iniziato con lo stop delle pubblicità delle aziende a controllo statale sui giornali che si oppongono al governo». Piotr Stasinski, 65 anni, combatte da sempre per un’informazione libera. Dopo anni di militanza in Solidarnosc ai tempi della legge marziale, oggi è il vicedirettore del quotidiano polacco Gazeta Wyborcza.
Anche il vicepremier italiano Luigi Di Maio sostiene che le aziende partecipate dovrebbero smettere "di fare pubblicità sui giornali". Che cos’è successo in Polonia?
«Il partito Diritto e giustizia innanzitutto ha insediato uomini di fiducia nei posti chiave delle compagnie a controllo statale.
Dopo di che, le aziende partecipate hanno ritirato la pubblicità dai media liberali, come la rete tv privata Tvn, i settimanali Newsweek e Politika e il nostro quotidiano Gazeta Wyborcza, e l’hanno spostata sui media filo-governativi. Il dato sorprendente è che dal 2015 al 2017 è aumentato di 15 volte l’ammontare dei cosiddetti "spot governativi" sui cinque quotidiani e settimanali filo-governativi che nel frattempo hanno perso lettori. Perdono audience, ma prendono più soldi dal governo».
In quali altri modi il governo di Kaczy?ski minaccia la libertà di stampa in Polonia?
«Appena arrivato al potere, ha preso il controllo della tv e radio pubblica Tvp. Da allora 300 giornalisti, presentatori e operatori sono stati licenziati, sono stati costretti a dimettersi o sono andati via perché non volevano lavorare per un "media di propaganda". La radio-tv pubblica è stata battezzata "nazionale" perché deve essere a servizio della "nazione". Da allora i programmi di notizie in prima serata attaccano quotidianamente noi media liberali definendoci "traditori" o accusandoci di "servire gli interessi stranieri". E, dopo che il PiS ha preso anche il controllo della magistratura, ci ha citati in giudizio due volte. Una causa l’abbiamo persa. La rete privata Tvn, invece, viene regolarmente richiamata dall’authority dei media. Siamo diventati il "nemico". Cercano d’indebolirci in tutti i modi: privandoci di entrate economiche, citandoci in tribunale o screditandoci sulle tv di Stato».
Che cosa si nasconde dietro questi attacchi all’informazione?
«Siamo sulla strada verso uno Stato di Partito. Diritto e Giustizia sta distruggendo tutte le istituzioni di una democrazia liberale. Ha preso il controllo dei media e delle aziende pubbliche, poi della magistratura. Attacca i parlamentari d’opposizione o le donne che si battono per il diritto all’aborto. Ora, i parlamentari del partito al governo lo dicono apertamente, non resta loro che sbarazzarsi della stampa libera.
Media come la Gazeta o Tvn sono scomodi per il governo perché coprono tutte le proteste antigovernative e denunciano gli abusi. In ottobre ci saranno le elezioni locali e Gazeta Wyborcza ha 20 edizioni locali. Per cercare di contrastarci, il governo preme sul gruppo editoriale nostro concorrente perché venda. Usa i soldi delle compagnie statali per comprare i giornali».
Vede somiglianze tra quello che è accaduto in Polonia e quello che sta accadendo in altri Paesi dove sono al potere governi cosiddetti "populisti"?
«Ci sono molte somiglianze con quel che sta accadendo in America. Il governo ci attacca ogni giorno così come Trump se la prende ogni giorno con la stampa americana. Kaczy?ski si professa amico del premier ungherese Viktor Orbán. In Ungheria non ci sono più media indipendenti, solo qualcuno marginale online. È il futuro che probabilmente ci aspetta. Tutti i media diventeranno marginali, verranno rilevati dal governo o vedranno la loro libertà sempre più ristretta. Non è in gioco solo la nostra sopravvivenza. Sono in gioco le libertà civili. È in gioco la nostra democrazia».

il manifesto 12.9.18
La fame nel mondo torna al livello di dieci anni fa
Rapporto delle Nazioni Unite. 821 milioni di persone soffrono la fame, in crescita negli ultimi quattro anni. Cresce anche l’obesità tra gli adulti. Cambio climatico e guerre, fattori chiave
di Rachele Gonnelli


La fame, questo antico mostro, negli ultimi quattro anni sta riconquistando terreno nel mondo. A dirlo è il rapporto pubblicato ieri dalle cinque agenzie dell’Onu (Fao, Ifad, Unicef, Wfp e Oms) che punta il dito soprattutto sul rapporto tra insicurezza alimentare e l’accentuarsi di fenomeni climatici estremi come piogge torrenziali, uragani e siccità che riducono la disponibilità di cibo e causano impennate dei prezzi agricoli.
Gli «affamati» – cioè coloro che non hanno abbastanza cibo per nutrirsi mettendo così a rischio la propria salute – sono 821 milioni nel 2017 e l’anno prima erano invece 804 milioni. Segno che, rispetto all’obiettivo «Fame Zero» che le Nazioni Unite si sono date entro il 2030, si sta tornando indietro. La situazione sta peggiorando – segnala il rapporto – soprattutto in Sud america e in Africa ma anche in Asia il rallentamento della sotto nutrizione sta rallentando. Negli ultimi tre anni la fame è tornata a livelli addirittura di un decennio fa.
Le cause della difficoltà di accesso a cibi nutrienti e sani – il rapporto classifica l’obesità come «fame nascosta», con incidenza maggiore, ovunque, tra le fasce più povere delle popolazioni – non dipende, certificano le agenzie Onu, soltanto dai cambiamenti climatici che si riflettono sulle colture agricole. Come fattori chiave vengono riconosciuti anche i conflitti armati, le crisi economiche – e conseguenti «perdite di reddito» – e gli «scarsi progressi» a livello globale nel garantire sicurezza alimentare a un crescente numero di persone. Il numero dei disastri legati al clima, come alluvioni e siccità, è raddoppiato rispetto all’inizio degli anni ’90 e «la prevalenza e il numero delle persone sotto nutrite tendono a essere più alti nei Paesi altamente esposti a eventi climatici estremi».
Scarsi anche i progressi della lotta alla malnutrizione infantile, che nel 2017 ha colpito 151 milioni di bambini sotto i cinque anni (nel 2012 erano 165 milioni). In Africa e in Asia, rispettivamente, il 39% e il 55% di tutti i bambini presenta ritardi nella crescita.
Quanto all’obesità, sta crescendo quella degli adulti mentre quella dei bambini si mantiene globalmente intorno al 5%. Nel 2017 più di un adulto ogni otto è sovrappeso in modo patologico. E se questa forma di malnutrizione grave, legata alle abbuffate di cibo ipercalorico a basso costo che riducono lo stress da insicurezza alimentare, colpisce soprattutto il mondo opulento e il Nord America, sta ora aumentando anche in Africa e in Asia. La denutrizione e l’obesità coesistono sempre più spesso e – si legge – «possono essere viste come fenomeni della stessa famiglia». Il rapporto definisce poi «vergognoso» il fatto che una donna su tre in età riproduttiva a livello mondiale sia affetta da anemia, con conseguenze significative sulla salute e lo sviluppo sia delle madri sia dei figli. In Africa e in Asia la prevalenza di questo fenomeno è tre volte superiore del Nord America.

il manifesto 12.9.18
Tim Marshall e la fenomenologia del filo spinato
Intervista. Parla il giornalista britannico autore di «I muri che dividono il mondo», pubblicato da Garzanti. «Un terzo degli stati nazionali hanno costruito recinzioni lungo i confini; metà di quelle erette a partire dalla Seconda guerra mondiale è stata creata tra il 2000 e oggi»
di Guido Caldiron


«Come ogni altro muro, anch’esso era ambiguo, bifronte. Quel che stava al suo interno e quel che stava al suo esterno dipendevano dal lato da cui lo si osservava». Non è forse un caso se Tim Marshall ricorre alle parole di Ursula Le Guin, la scrittrice di fantasy e fantascienza scomparsa quest’anno, creatrice di mondi immaginari che riflettono tutte le contraddizioni del reale, per definire il significato più profondo di quella che si va delineando come una sorta di «età dei muri».
Veterano del giornalismo inglese, a lungo corrispondente della Bbc dalle zone di guerra dei Balcani e del Medioriente, con I muri che dividono il mondo (Garzanti, pp. 272, euro 19), Marshall completa la sua trilogia – nel nostro paese è già stato pubblicato Le 10 mappe che spiegano il mondo) – che indaga il ruolo degli elementi naturali, dei simboli e delle identità collettive nel definire le coordinate del mondo contemporaneo, offrendo delle valide «istruzioni per l’uso» ad una realtà sempre più complessa.
Marshall, che ha presentato in questi giorni il suo libro nel nostro paese, spiega infatti come «negli ultimi vent’anni sono stati eretti in tutto il mondo muri e recinti per migliaia di chilometri. Almeno 75 paesi, più di un terzo degli stati nazionali del mondo, hanno costruito barriere lungo i propri confini; metà di quelle erette a partire dalla Seconda guerra mondiale è stata creata tra il 2000 e oggi». Dall’Europa agli Stati uniti, passando per l’Africa e il mondo arabo, ripercorrendo l’attualità del fenomeno come le tracce della sua storia pregressa, il reporter fotografa attraverso il crinale delle nuove barriere il volto sfuggente e contraddittorio del presente.
Con la caduta del muro di Berlino si è pensato si aprisse una nuova stagione della storia contrassegnata dalla libera circolazione degli individui. La globalizzazione ha fatto il resto, al punto che nel 2005 il premio Pulitzer Thomas Friedman ha scritto un celebre saggio intitolato «Il mondo è piatto». Da queste promesse di libertà ci siamo però destati con i vari Trump, Orbán e Salvini. Cosa è andato storto?
In realtà credo che quella promessa abbia sempre contenuto una certa dose di ambiguità: cercava di celare la natura binaria del mondo, il permanere di profonde divisioni all’interno di ciascuna società, quale che fosse l’estensione dei muri che stavano venendo giù o il superficiale annuncio di uguaglianza con cui si presentava la mondializzazione dei mercati. Inoltre, non si è tenuto conto fino in fondo del fatto che i muri, penso in primo luogo proprio a quello di Berlino, «congelano» le comunità che racchiudono o separano, i cui umori più profondi tenderanno poi ad emergere. Basti guardare il modo in cui il razzismo è emerso nella ex Germania Est, dove non si era neppure mai parlato di «cultura della differenza». Su tutto questo si è poi abbattuta la crisi economica e sociale più devastante dal 1929. Popolazioni impaurite e indebolite hanno cercato rifugio nella propria identità e i «venditori di muri» si sono trasformati negli uomini del momento.
Trump è forse la figura che più ha puntato sulla «politica del muro» e sul significato pervasivo di questo simbolo. Lo slogan «Rendiamo di nuovo grande l’America» si è concretizzato nella promessa di una barriera con il Messico: il suo «muro» serve a ridefinire l’identità americana?
Come spiega il geografo dell’Università delle Hawaii, Reece Jones, nel suo libro Violent Borders, «i muri non funzionano quasi mai, ma sono potenti simboli di azione contro problemi percepiti». Trump ha utilizzato il simbolo del muro per indicare a quella parte dei suoi concittadini preoccupati per la crisi economica come per la crescita del ruolo delle minoranze nella società, l’orizzonte di un nuovo nazionalismo, evocato dallo slogan «America First». Così, il muro, è proposto come un mezzo per preservare il concetto stesso di nazione, la sua «santità» così come il mito vuole sia stata tramandata dai Padri pellegrini che affidarono l’America a Dio. Così, Trump ha messo in moto una potente macchina mitologica, capace di proiettarsi ben oltre i fatti concreti.
Il giornalista britannico Tim Marshall
A proposito di un’altra delle vicende chiave di questi anni, la Brexit, lei cita il Vallo di Adriano, costruito da Cesare per separare la Britannia romana dalle bellicose tribù del Nord, come metafora di quanto è accaduto con il voto del 2016.
In effetti, la tentazione di evocare quella barriera di pietra i cui resti sono ancora oggi visibili nel Northumberland, era troppo forte. Quel «muro» contribuì a dar forma a ciò che sarebbe diventato in seguito il Regno Unito. Al di sotto del vallo l’ambiente divenne sempre più romanizzato, mentre sopra, in quelli che sono oggi il Galles e la Scozia, rimasero forti le tracce della cultura celtica. E quest’ultimo elemento indica anche un altro aspetto che accompagna spesso la costruzione di un «muro», vale a dire le divisioni che produce, o che cerca al contrario di sanare, non oltre la sua cinta, ma all’interno della comunità che lo ha edificato. Proprio il voto in favore della Brexit ha espresso tutta la complessità della situazione, facendo emergere in tanti «muri invisibili» che caratterizzano le nostre società. David Goodhart, un altro autore che cito nel libro, ha sottolineato come alla base del successo del referendum contro la Ue vi sia stata la divisione tra coloro che definisce come «anywhere» e «somewhere», vale a dire, rispettivamente, chi vede il mondo in una prospettiva globale e chi, invece, in quella locale. In qualche modo si tratta di una contrapposizione che sta emergendo in tutto l’Occidente: da un lato chi occupa una posizione sociale più agiata o si trova a vivere una dimensione cosmopolita, dall’altro chi sconta sulla propria pelle le conseguenze più negative della globalizzazione, perché ha perso il lavoro o fatica a trovare un ruolo nelle nuove professioni che richiedono maggiore formazione e cerca rifugio in ciò che conosce, o pensa di conoscere, come la propria identità, le proprie radici. Razzismo, sciovinismo e chiusura identitaria finiscono così per mescolarsi ad una domanda di maggiore tutela che ha una base concreta. Quanto al risultato, è sotto gli occhi di tutti: molti di coloro che hanno votato per la Brexit si sono già pentiti, visto che nelle loro vite non è cambiato assolutamente nulla, mentre per il paese sono iniziati nuovi problemi.
Nel libro si parla di «muri visibili e invisibili» anche a proposito del conflitto tra palestinesi e israeliani. Oltre alla «barriera» costruita da Israele, altri «muri» stanno crescendo laggiù?
All’interno della società israeliana sono emerse via via una serie di divisioni. Dal confronto tra i cittadini ebrei e quelli arabi, a quello tra gli ebrei di origine ashkenazita e sefardita che ha caratterizzato la storia del paese fin dalla sua fondazione. Però, negli ultimi anni è emerso soprattutto un vero e proprio «muro» culturale e politico tra laici e religiosi che sta scivolando verso una forma di scontro quotidiano, talvolta anche violento, che sta modificando il volto stesso di Israele. Non solo. La crescita del ruolo politico dei religiosi, e la loro crescente alleanza con i gruppi nazionalisti – non a caso gli studiosi parlano al riguardo di «destra nazional-religiosa» – peserà sempre più anche sulla già fragile ipotesi di una soluzione equa del conflitto con i palestinesi. Questo perché per coloro che considerano sacra la terra che oggi è contesa tra le due comunità, qualunque concessione o divisione del territorio è percepita come un tradimento nei confronti dei propri valori o, ancor di più, come un’autentica rinuncia alla fede. Qualcosa di inammissibile.
Buona parte dei nuovi muri sono pensati per «tenere fuori» i migranti. Ma dato che le migrazioni sono fenomeni epocali e inarrestabili, che futuro per l’umanità annunciano tutte queste barriere?
Un rischio e una possibilità. Cominciamo da quest’ultima. Nelle società industrializzate che continueranno ad avere bisogno di immigrati si dovrà aprire necessariamente un dibattito salutare su come ridefinire la propria identità collettiva a partire da questo elemento. Il rischio, al contrario, è che «la politica dei muri» sovrasti ogni confronto razionale e ci faccia precipitare in un orizzonte ancora più cupo di quello attuale: quello nel quale ogni paese si contrappone all’altro, fino alle estreme conseguenze.

Corriere 12.9.18
Il pd vuole rinascere? scelga un leader duro che scaldi i cuori
di Antonio Macaluso


Trovare un segretario o un leader? Cambiare nome al partito o mantenerlo? Allargare il perimetro o ripartire da quello attuale? Riscrivere un programma o reinventarlo? Ritrovare se stessi, insomma, o diluirsi nel futuro? Sono scelte che ne determineranno la riscossa o l’irrilevanza quelle che il Pd ha ineluttabilmente davanti. Un muro alto e sempre più vicino per passare oltre il quale — senza sfracellarsi — ci sarà bisogno di intelligenza, passione, generosità. Ma anche fortuna.
La rovinosa caduta che accompagna ormai i democratici da quel maledetto 4 dicembre 2016 sconta — oltre alla evidente, perdurante incapacità interna a rigenerarsi — l’esplosione di popolarità del binomio sovranista-populista. Una tenaglia che giorno dopo giorno ha stritolato la struttura centrale e periferica, la fiducia dell’elettorato e l’idea stessa di ciò che il Pd è stato. Come liberarsi da questa tenaglia?
La prima lapalissiana constatazione è che quel partito non potrà mai più essere lo stesso. In conseguenza, i suoi capibastone dovranno dimostrare nei fatti se restano solo per tenersi la loro ridotta fetta di potere (sperando magari di rosicchiarne altri pezzetti a qualcuno più incapace di loro) o per dare finalmente qualcosa, per essere generosi, lasciare strada al nuovo, aprire le finestre. Alzi la mano chi ha — anche solo per sentito dire — notizia di gesti del secondo tipo. Non se ne vedono. Dunque, già si parte male. Anche perché — come sempre — si comincia dalla ricerca di un capo in quanto dotato (o dotabile) di più truppe di altri, anziché di più idee, migliori, nuove. Al momento, l’unica vera candidatura è quella del Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. Oltre alla riconosciuta onestà e capacità come amministratore della cosa pubblica, la sua vera forza interna al Pd sta nel fatto di essersi sempre tenuto alla larga da Matteo Renzi, anche quando questi era all’apice della carriera. Davvero qualcuno può pensare di ribaltare la storia con un uomo che potrà essere forse un buon segretario ma è meno scontato possa essere il leader che serve? E quale asso ha nella manica Renzi da opporre a Zingaretti? Se i nomi sono quelli che circolano — e questa volta ce li risparmieremo — il pantano si fa palude. E il tandem Salvini-Di Maio continua a impadronirsi delle viscere debilitate del Paese. Volendo rifarsi alla sempre attuale analisi gramsciana, il potere è basato sulla presenza contemporanea di forza e consenso: se prevale l’elemento della forza si ha dominio; se prevale il consenso si ha l’egemonia. Per come si sono messe le cose, Lega e M5S quel potere — sia a livello di società politica che di società civile — lo gestiscono con tutti i crismi.
È evidente che per ribaltare un assetto del genere, per riconquistare il proprio popolo e guadagnare nuovi consensi, occorre un signor leader, un capo vero, autorevole, capace, duro ma che sappia anche scaldare i cuori. Perché la durezza dei tempi, per dirla con Che Guevara, non deve far perdere la tenerezza dei cuori. Ma per fare questo, bisogna tornare nella testa e nella pancia della gente, nelle sue giornate vissute e nei suoi sogni. Non basta fare qualche riunione in questa o quella periferia cittadina, girare in treno, andare davanti alla nave Diciotti o a qualche fabbrica in lotta per dire «siamo tornati». Tornati da dove, poi? Dai salotti che invitano i potenti di turno? Da scissioni suicide? Da talk show dove si abbaia alla luna? Carlo Calenda lancia l’idea del Fronte Democratico, ci mette passione, è tosto e franco con gli avversari. Sgomita, si sente il nuovo, la carta da giocare. Ma plana da mondi diversi, belli, comodi, eleganti. Certo, in una folla di dirigenti inebetiti, è dirompente, fa la sua figura, ma ha la stoffa del leader? Ci risiamo. Eppoi: per essere alternativi, per convincere la gente che non è vero che i populisti li capiscono e li aiutano e loro invece no, che la sicurezza non è per forza di destra, che la sinistra non è porte aperte a tutti gli immigrati che sbarcano, che la sinistra non si è venduta l’anima al grande capitale ma con i mercati bisogna fare i conti: per tutti questi motivi e tanti altri ancora, che proposte innovative sapranno tirare fuori? Al punto in cui siamo, davvero servono cilindri dai quali far saltare fuori idee e facce nuove. E magari anche qualche cotillon perché sorridere, sognare e divertirsi è solo l’altro lato — necessario — di credibilità, capacità, passione.

Repubblica 12.9.18
Mafia Capitale
Una verità che fa paura
di Attilio Bolzoni


Esultavano con una mezza dozzina di anni di carcere in più sul groppone e adesso si disperano con una condanna più mite da scontare. Potere del 416 bis. Con le prime reazioni a questo verdetto — e ora possiamo ancora utilizzare l’espressione "Mafia Capitale" senza eccessive prudenze — viene da pensare che il problema non fossero soltanto gli odierni imputati ma piuttosto una " questione" un po’ più seria e complessa: può esistere o non può esistere la mafia nella capitale d’Italia? Il varco si era già aperto con le sentenze sui Fasciani di Ostia e sui Casamonica, ma la sentenza di ieri — per tutto ciò che è accaduto prima e dopo — ha davvero un altro peso e porta con sé una " carica" in grado di aprire nuovi e ancora più sorprendenti scenari. Questo pronunciamento della Corte di Appello è un punto di arrivo ma sembra anche un punto di partenza.
Ci mancava solo il "bollo" di un collegio giudicante sulla mafiosità di Massimo Carminati e di Salvatore Buzzi. Ed è arrivato un anno e un’estate dopo un verdetto di primo grado che aveva escluso un condizionamento mafioso di un’associazione criminale sulla vita politica ed economica di Roma, una mafia che non era mafia e che non si sarebbe potuta mai trasformare in "vera" mafia in quanto "de’ Roma", non siciliana e non calabrese o napoletana, una mafietta buona per « un processetto » ( definizione ribadita ieri in aula ancora da Giosuè Naso, l’avvocato difensore del " Cecato"), qualcosa magari di un po’ sgradevole ma mai da elevare a mafia e soprattutto con una " M" maiuscola. Lo scrivevamo qualche riga più su: potere del 416 bis nel far perdere la trebisonda anche con pene carcerarie più lievi e far sproloquiare chi direttamente o indirettamente lo subisce.
Potere del 416 bis, arma insidiosissima che a tutti i costi si è voluta disinnescare nel dibattito pubblico approfittando di una sentenza di primo grado che non ha avuto il coraggio di riconoscere ciò che era ben riconoscibile. Potere del 416 bis che adesso rimette in discussione il "territorio": Roma. E le sue mafie. A cominciare da quella del " Mondo di mezzo" dell’ex Nar Carminati e del boss delle cooperative rosse Buzzi, i capi di un sodalizio smascherato da preziosissime investigazioni dei reparti speciali dei carabinieri e "inquadrato" dal procuratore capo della Repubblica, Giuseppe Pignatone, e dai suoi aggiunti e sostituti che si sono applicati nello " studio" di una mafia che nessuno aveva mai sfiorato prima. Da questo momento in poi sarà molto faticoso sostenere quella tesi " negazionista" che tanti fan ha trovato a sinistra e a destra in questi quasi quattro anni, da quando è stata svuotata una sacca maleodorante dove crimine e pubblica amministrazione si incrociavano, dove c’era un pezzo di Comune e un altro pezzo di Regione sottomesso alle voglie e agli appetiti di un "nero" e di un "rosso" che andavano amorevolmente d’accordo, dove tutto era controllato come a Palermo o come in Calabria, in modo diverso ma controllato sempre con la violenza e con il denaro della corruzione.
È una sentenza che fa paura perché può fare storia, perché è precedente importante per altre consorterie romane che potrebbero entrare nel mirino delle investigazioni, perché tira una linea molto netta: il prima e il dopo. In ballo al processo non c’erano soltanto quei due e i loro pittoreschi guardaspalle e picchiatori come "Spezzapollici" o certi tirapiedi politici facilmente sostituibili, in ballo c’era una città che non doveva e non poteva essere "sporcata" con la mafia e dalla mafia. Doveva restare fuori Roma, estranea, lontana. E vi ricordate, non c’era anche chi fin dall’inizio era insorto contro i procuratori che avevano infangato "il buon nome" della prima città d’Italia agli occhi del mondo? Ora una Corte di Appello con il suo giudizio ci riprova a "sputtanarla".
Un’ultima annotazione è per il procuratore Pignatone. È la seconda volta, in dieci anni, che "scopre" la mafia fuori dalla sua Palermo e dalla Sicilia che ha lasciato nel 2008. Prima a Reggio, dove sino a quella stagione la lotta giudiziaria alla ’ndrangheta era praticamente all’età della pietra. Poi, fra tante insidie e grida e paure, qui in una Roma che sembrava intoccabile.

Repubblica 12.9.18
Il procuratore Pignatone
"Inquinata la vita della città: avevamo ragione noi"
Intervista di Carlo Bonini


ROMA Il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone non è uomo loquacissimo, né facile a tradire le emozioni. Ma nel pomeriggio di una sentenza destinata a segnare una discontinuità cruciale nella storia della città e nella lettura dei suoi fenomeni criminali, si abbandona a un sorriso. Sornione. Ma pur sempre sorriso. «Premesso che la presunzione di non colpevolezza vale fino al terzo grado di giudizio, oggi sono soddisfatto e grato. Grato al grande lavoro sostenuto in questi anni dai colleghi del mio ufficio e dai carabinieri del Ros, e all’impegno dimostrato dalla Procura generale. Oggi posso e devo dirlo. Avevamo ragione» .
Che a Roma la mafia esiste anche se non si chiama ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra o Sacra Corona?
«Che i fatti accertati dalla nostra inchiesta sono risultati sussistenti.
E dunque che una rete criminale di intimidazione, corruzione e turbative d’asta ha inquinato l’amministrazione capitolina per lungo tempo. E che quell’organizzazione criminale aveva le stimmate dell’associazione mafiosa. La sentenza della Corte di Appello conforta e irrobustisce ulteriormente una giurisprudenza che, in questi ultimi anni, ha visto riconoscere la specificità mafiosa a una serie di organizzazioni criminali che inquinavano la vita della città. Penso ai Casamonica, ai Fasciani, agli Spada. Sapevamo bene e non abbiamo mai smesso di ripeterlo che "Mafia Capitale" non era Cosa Nostra o la ‘Ndrangheta.
Né che lo sono i Casamonica, gli Spada o i Fasciani. Ma abbiamo anche sempre ripetuto che l’articolo 416 bis del codice penale non è una norma che parametra la mafiosità di un’associazione criminale sulle caratteristiche antropologiche e organizzative delle mafie tradizionali, bensì sulla forza di intimidazione e la riserva di violenza. Mafia Capitale le presentava entrambi. Insomma, esistono le grandi mafie e le piccole mafie. Ma il fatto di essere piccole non significa che non lo siano».
Una mafia che non controlla il territorio con la violenza non può essere mafia, si è detto e ha detto, per altro, il collegio di primo grado.
«Il lavoro di un magistrato è l’applicazione della legge. E nell’articolo 416 bis del codice penale non si parla né di controllo del territorio, né di uso delle armi. Il controllo del territorio e l’uso delle armi — come ha spiegato egregiamente la Cassazione a partire dal 2014, con la sentenza che confermò le misure cautelari di Mafia Capitale — sono parametri di valutazione per apprezzare la forza di intimidazione di un’associazione mafiosa. Ma quella forza, dice ancora la Cassazione e dice ora la Corte di appello, si può esplicare anche nel controllo dell’ambiente sociale, come nel caso di Mafia Capitale. Naturalmente, fermo restando la cosiddetta "riserva di violenza" dell’associazione. Che, nel caso di Mafia Capitale era assicurata da Carminati, dalla sua storia criminale e dalla provata capacità di mobilitare soggetti che quella violenza erano in grado di esprimere» .
Dire che c’è mafia e mafia non consegna alla magistratura una discrezionalità tale per cui "Procura che vai, mafia che trovi o non trovi"?
«Ogni processo ha una sua peculiarità. E i giudizi servono a questo. Stabilire le responsabilità del caso concreto, apprezzando la specificità di un fenomeno criminale. Non vedo il problema. A maggior ragione di fronte a una ormai costante giurisprudenza di Cassazione il cui scopo è proprio quello di armonizzare i criteri di interpretazione del 416 bis. A meno che qualcuno non pensi di sottrarre al magistrato la discrezionalità della valutazione giuridica di un fatto. E poi trovo la polemica sterile. Io fui il primo, dopo gli arresti, a esprimere parere contrario allo scioglimento per mafia dell’assemblea capitolina. Proprio perché sostenevo che la peculiarità di Mafia Capitale era tale che si poteva ritenere cessata l’associazione mafiosa nel momento in cui era stata disarticolata».
Si obietta che questa giurisprudenza "avanzata" del 416 bis sia di fatto una riscrittura della norma. Compito che spetterebbe al Parlamento.
«No. Siamo di fronte e non da oggi a una interpretazione avanzata della norma che legge una realtà in continuo mutamento. Chiedo: è un male? E chi dovrebbe esserne preoccupato? A Roma, in questi anni, abbiamo potuto perseguire fenomeni criminali con strumenti investigativi particolarmente penetranti proprio grazie a questa interpretazione del 416 bis. E potremo continuare a farlo. Detto questo, non penso che la mafia sia il primo problema di Roma».
E quale è?
«Sono i reati contro la pubblica amministrazione e l’economia.
Sono le corruzioni, le turbative d’asta, le bancarotte, le frodi multimilionarie».
Come è possibile che la Corte di Appello, pur riconoscendo il reato più grave di mafia, abbia poi ridotto le pene?
«Le pene per il 416 bis sono state modificate in senso più afflittivo successivamente agli arresti del dicembre 2014. Noi abbiamo ritenuto che le nuove pene, più alte, potessero applicarsi perché ritenevamo che l’associazione a delinquere, formalmente, dovesse essere considerata "attiva" fino al pronunciamento della sentenza di primo grado. L’Appello, al contrario, penso abbia ritenuto che Mafia Capitale sia cessata al momento degli arresti e dunque che il calcolo delle pene andasse fatto con le vecchie norme» .
Pensa che la posta in gioco in questo processo abbia influito sul giudizio? In primo come in secondo grado?
«Io, ma direi noi, il mio ufficio, riteniamo che i giudici non possano essere condizionati. Sia quando ci viene dato torto che quando ci viene data ragione»

Corriere 12.9.18
Pignatone e la sentenza
«Sì, era mafia ma Roma non è Palermo»
di Giovanni Bianconi


«Smantellato un sistema. Premesso che fino al terzo grado vale la presunzione di non colpevolezza, avevamo ragione noi. Ma Roma non è Palermo». Così il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone sulle sentenza d’appello per Mafia capitale. «Il problema grave resta la corruzione».
Per la Procura di Roma l’11 settembre poteva non essere solo una data sul calendario ma la conferma di una pesante sconfitta, mentre all’improvviso s’è trasformata in una rivincita: Mafia capitale era mafia, non solo un fenomeno di corruzione in grande stile; l’indagine più famosa condotta negli ultimi anni non era una fiction , e il procuratore Giuseppe Pignatone tira le fila di un successo: «Premesso che fino al terzo grado di giudizio vale la presunzione di non colpevolezza, e premesso un sincero ringraziamento al procuratore generale Giovanni Salvi e al suo ufficio che ha sostenuto l’accusa in appello, sono ovviamente soddisfatto per l’esattezza dell’inquadramento giuridico dei fatti ricostruiti dai carabinieri del Ros, oltre che dai sostituti e dai procuratori aggiunti che hanno seguito anche il dibattimento in secondo grado».
Quindi a Roma c’è stata una mafia autoctona, originale e originaria, come sostenevate nei vostri atti d’accusa.
«Sì, ma noi abbiamo sempre detto che, pur essendo il “Mondo di mezzo” un gruppo che utilizzava il metodo mafioso, questo come gli altri gruppi inquisiti o condannati per associazione mafiosa, dai Fasciani agli Spada, ai Casamonica, non sono paragonabili a Cosa nostra, alla ’ndrangheta o alla camorra. E Roma non è Palermo, né Reggio Calabria né Napoli. L’abbiamo sempre sostenuto, anche nel parere contrario allo scioglimento del Comune per mafia. Ritenevamo quella “piccola mafia” debellata con gli arresti, e forse da questo dipendono le pene più basse inflitte dalla corte d’appello».
Allora che cosa contraddistingue la mafiosità del gruppo di Carminati e Buzzi?
«Non il controllo del territorio, ma il controllo di un ambiente sociale, di alcuni settori dell’imprenditoria o della pubblica amministrazione, in questo caso alcuni Dipartimenti del Comune di Roma; che si è verificato non solo attraverso la corruzione praticata da Buzzi, ma con la “riserva di violenza” garantita da un personaggio dello spessore criminale di Carminati e dall’aggregazione di soggetti particolari. Questo l’aveva stabilito la Cassazione quando confermò gli arresti del dicembre 2014. La nostra elaborazione avanzata dell’associazione mafiosa era già basata su alcune pronunce della Corte suprema, che poi l’ha ribadita in altre sentenze. La corte d’appello ne ha preso atto e ha individuato un condizionamento di tipo mafioso».
Ma allargando così tanto il concetto di mafia, non si rischia di sminuire il senso di quel reato? Alla fine se tutto è mafia niente è mafia...
«Non è così. Noi cerchiamo di applicare la legge, e siamo arrivati alla conclusione che a Roma ci sono gruppi criminali che sulla base di una corretta interpretazione dell’articolo 416 bis del codice penale vanno classificate come associazioni mafiose. Altre no. Noi stessi, in alcuni casi, contestiamo il metodo mafioso ma non l’associazione. Non tutti i traffici di droga si possono considerare mafiosi, così come non tutti le corruzioni. Ci dev’essere un condizionamento derivante dal vincolo associativo, ed è necessaria la “riserva di violenza” riconosciuta all’esterno. Detto questo, anche dopo questa sentenza, ripeto che a Roma il problema principale non è la mafia».
E qual è?
«Credo che si possa individuare in quell’insieme di reati contro la pubblica amministrazione e l’economia che va sotto il nome di corruzione ma comprende le grandi bancarotte, le grandi frodi fiscali, le grandi turbative d’asta e fenomeni correlati. La cifra di una metropoli come Roma è la complessità, anche sotto il profilo criminale. Mafia capitale è solo un tassello di un mosaico molto più grande e complicato».
C’è pure chi dice che dopo la bocciatura della vostra tesi in primo grado, la corte d’appello s’è arresa al condizionamento mediatico su un processo molto pubblicizzato.
«Questo ufficio ha un tale e totale rispetto dei giudici da rigettare anche la sola ipotesi che le loro decisioni possano essere condizionate dalla maggiore o minore pubblicità data a un’inchiesta giudiziaria. In ogni grado di giudizio. Del resto il dibattimento in tribunale non aveva avuto molta eco sui mass media, e quello d’appello ancora meno».
Però voi rischiavate molto con questa sentenza.
«Non credo che una corte d’appello si preoccupi granché delle sorti di una Procura. Pur senza negare l’importanza di questo processo, che si è caricato di molti significati, anche di natura politica, ma non per nostra volontà, mi pare che in questi anni abbiamo fatto anche molte altre cose. E non penso che il giudizio sul lavoro di una Procura si possa legare all’esito di una singola inchiesta».

Il Fatto 12.9.18
“Troppo etici questi rumeni, meglio l’amnistia”
Rudolph Giuliani - Lettera dell’avvocato di Trump al presidente-paladino di Bucarest anti-corrotti
di Michela A. G. Iaccarino


Troppo zelanti. Troppo etici: i rumeni stanno diventando troppo onesti. Parla Rudy Giuliani: “Persone innocenti finiscono in prigione per gli eccessi del Dna, dipartimento nazionale anti-corruzione, un’amnistia dovrebbe essere concessa” ai condannati finiti in carcere, l’ufficio contro i criminali è stato “troppo duro”.
Specialmente con quei corrotti che sono clienti dell’ex sindaco di New York. Giuliani è un avvocato del Freeh Group, agenzia legale fondata dal suo amico Loius Freeh, ex direttore dell’Fbi, che difende i tycoon che hanno problemi con la giustizia in Europa dell’Est.
L’uomo che si affaccia da oltreoceano sul cielo di Bucarest è l’avvocato di punta del pool che prova a salvare Trump dal Russiagate. Giuliani ha scritto privatamente al presidente Klaus Iohannis, unico paladino della popolazione nelle istituzioni, con uno scopo ben poco celato: forzare gli equilibri di un paese dove le strade della giustizia sono sempre più strette. Mentre la Romania arrabbiata in piazza affronta la sua questione morale, per Giuliani il Dna “ha superato i limiti, intimidisce avvocati e testimoni, usa confessioni forzate, intercettazioni illegali”.
Nella missiva Giuliani non menziona il nome del suo cliente, Gabriel Popoviciu, magnate milionario ed ex marito della figlia di uno dei funzionari di Ceaucescu, che ha acquisito illegalmente nel 2016 terreni a Bucarest per costruire un centro commerciale. Quando la polizia lo ha trovato a Londra, è stato condannato a 7 anni di carcere per frode e l’agenzia di Giuliani lo difende.
Quando la lettera dell’ex sindaco repubblicano di New York è stata intercettata e diffusa sotto la scritta rossa “esklusiv” dalla stampa rumena, il dipartimento di Stato ha ribadito che “Giuliani parlava solo per se stesso, la Romania fa progressi, la incoraggiamo a continuare”. “Rudy è Rudy, Rudy è great” ha detto invece Trump.
La terra di conquista delle agenzie di consulenza Usa ha tracciato i confini della sua mappa d’azione dal grigiore dell’ex blocco sovietico fino all’America Latina.
Quando i giornalisti americani hanno cominciato a indagare seguendo le scie di denaro dell’agenzia di Giuliani, hanno capito che i tentacoli del vecchio sindaco repubblicano si allungavano fino a Charkov, Ucraina dell’est: la città si è rivolta a lui per creare “un ufficio emergenze”.
Altro cliente della Giuliani&partners è Mujahideen e Khalq, un gruppo di resistenza iraniano che opera in esilio contro il governo di Teheran, che lo stesso dipartimento americano in cui Giuliani agisce, ha inserito nella lista dei gruppi terroristici nel 2012. Gli interessi stranieri dell’avvocato arrivano poi in Brasile e finiscono in Colombia. Quando i reporter hanno posto i loro interrogativi sulle cifre che guadagna all’estero e sui consigli di politica estera che elargisce a Trump, l’avvocato ha risposto “non sono un lobbista, per Trump lavoro pro bono” e il resto delle domande le ha lasciate in sospeso.
Intanto nella capitale rumena è stata appena nominata un’altra donna per riempire il vuoto profondo lasciato da Laura Kovesi, ex dirigente del Dna. La nuova testa del dipartimento che indaga in uno dei paesi più corrotti dell’Unione è Adina Florea: di lei si sa solo che è figlia di un membro attivo del Psd al potere, partito su cui dovrebbe investigare per stanare la corruzione endogena e stratificata dell’apparato politico.
L’ultima parola per la nomina definitiva spetta di nuovo al presidente Iohannis, unico custode nelle istituzioni del sentimento di rinnovamento richiesto dalla piazza.

Repubblica 12.9.18
L’asse anti-Trump
La nuova alleanza tra Putin e Xi è un piatto da cento miliardi
I leader cinese e russo si sono incontrati a Vladivostok: maxi intese commerciali e grandi esercitazioni militari
di Rosalba Castelletti


La Russia guarda sempre più verso Est. Nello stesso giorno in cui, nella Siberia orientale e nell’Estremo Oriente russo, prendeva il via Vostok- 2018 (Oriente-2018), la più imponente esercitazione militare russa dai tempi della Guerra fredda con la partecipazione anche di unità cinesi e mongole, a Vladivostok iniziava il Forum economico che, a fine serata, ha visto il leader del Cremlino Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping fianco a fianco ai fornelli in grembiule blu per preparare dei succulenti blini, sorta di crêpes russe. La prova di un’alleanza sempre più estesa tra Mosca e Pechino, sebbene perlopiù di convenienza: una risposta alla «politica di azioni unilaterali e di protezionismo commerciale » degli Stati Uniti, come hanno convenuto i due leader, senza mai nominare Donald Trump.
Per anni le relazioni tra i due Paesi che condividono 4.200 chilometri di confine sono state altalenanti. Nel 1969 si rischiò persino un conflitto tra Cina e allora Urss. Benché in seguito le due potenze abbiano risolto le loro dispute territoriali, Mosca ha sempre visto Pechino come una minaccia ai confini delle regioni scarsamente popolate, ma ricche di risorse, della Siberia orientale ed Estremo Oriente Russo un tempo rivendicavate dalla Cina. Ora la percezione è cambiata, come sostiene Aleksandr Gabuev del Moscow Carnegie Center. Lo dimostrano bene le manovre Vostok-2018, in corso fino a sabato, le più grandi esercitazioni da Zapad- 81 (Occidente-81) che avvennero ai tempi dell’Urss sotto Leonid Breznev e coinvolsero i Paesi del defunto Patto di Varsavia.
L’Esercito di liberazione popolare ( Pla) cinese ha inviato 3.200 uomini, 30 mezzi aerei, 900 carri armati e mezzi corazzati. A ben guardare un contributo esiguo se paragonato alle due flotte navali e ai 300mila soldati, 36mila veicoli corazzati e oltre mille velivoli militari e schierati dall’esercito russo. Non è neppure la prima volta che Mosca e Pechino conducono esercitazioni militari congiunte. Era accaduto già in passato nell’ambito di partnership internazionali. Quel che è inedito è che si tratti delle prime manovre militari domestiche russe a cui è stata invitata una potenza straniera che non faccia parte dell’ex Urss. Il messaggio, come sintetizza Gabuev, è rivolto anche all’Occidente. Se Usa e Ue continueranno a isolarla, la Russia sarà costretta a guardare sempre più verso Est e a stringere alleanze che alla Nato non piacciono.
Su questa linea vanno anche le intese siglate a Vladivostok, come la joint venture da due miliardi di dollari tra il colosso cinese dell’e- commerce Alibaba di Jack Ma e il gigante informatico russo Mail.ru dell’oligarca Alisher Usmanov, con l’auspicio di portare entro fine 2018 gli scambi commerciali a quota 100 miliardi di dollari dopo gli 87 miliardi realizzati lo scorso anno.

Repubblica 12.9.18
Fenomenologia di Corbyn l’antisemita inconsapevole
di Howard Jacobson


Questa avrebbe dovuto essere un’estate dorata per il Labour in Gran Bretagna Il leader del partito invece ha reso possibile la Brexit con il suo inefficace e fievole non-sostegno al "Remain" Dovrebbe importare a tutti, e non soltanto agli ebrei, impedire che un uomo così bigotto e cocciuto possa fare al Paese ciò che sta facendo al soggetto politico di cui è alla guida

Qualcuno si aspetta che io chiami Jeremy Corbyn antisemita. No, non intendo chiamarlo in nessun modo. Lui dice di non essere antisemita. Hamas dice che Corbyn non è antisemita e anche il suprematista bianco David Duke dice che non è un antisemita. A me tanto basta.
Sto facendo dell’ironia? Io non sono capace di ironia.
Sappiamo bene che aspetto ha un antisemita. Indossa stivali di pelle nera, porta una fascia al braccio con una svastica e grida «Juden Raus»; Jeremy Corbyn sotto la camicia indossa una canottiera dei grandi magazzini British Home Stores, e parla a voce bassa. Gli antisemiti accusano gli ebrei di aver ucciso Gesù; Corbyn è ateo e non sembra fregargliene molto se noi ebrei l’abbiamo ucciso o meno. E Corbyn non nega l’Olocausto.
Badate bene: conosce chi lo fa. Se mi è concesso, mi piacerebbe citarvi una frase della commedia mai scritta da Oscar Wilde intitolata La presunzione di chiamarsi Jeremy: « Frequentare un antisemita che lei non sa essere antisemita, signor Corbyn, può essere considerata una sfortuna, mentre frequentare assiduamente gli antisemiti sembra proprio una marcata propensione ».
Quando penso ai mascalzoni con i quali me ne sono andato in giro, capisco quanto sia facile equivocare le persone, anche quando ti si presentano con cappucci in testa e croci ardenti in mano. Jeremy non è mai stato quel tipo di uomo che si potrebbe definire dotato di uno spiccato spirito di osservazione.
Prendiamo in considerazione il murales di cui si è fatto promotore: raffigura alcuni banchieri che giocano a Monopoli sulle schiene nude degli oppressi del pianeta. Jeremy è talmente ingenuo nei riguardi delle caricature antisemite che non vi ha visto nulla di vagamente offensivo. « Non l’ho guardato bene » , ha poi spiegato. Quante volte dovrà ancora ripeterlo. Sì, ci sono andato vicino, forse, ma non pensavo che mi riguardasse.
Se ciò vi riporta alla memoria quelli che vivevano sottovento rispetto alle canne fumarie di Bergen Belsen e affermarono di non aver mai annusato nulla di strano, mi rendo conto che siete sospettosi di natura. Corbyn è un uomo impegnato. E gli uomini impegnati non prendono scorciatoie emotive. Ecco l’immagine di un ebreo succhia- sangue. Corrisponde perfettamente all’immagine dell’ebreo succhia-sangue che ho in testa. Mi chiedo se possa esistere qualcosa di simile a un antisemita inconsapevole. Jeremy afferma di essere un pacificatore. Un pacificatore è chi media tra due parti in guerra tra loro. Perché mai, dunque, lo vediamo sempre portare i palestinesi a prendere il tè? Può darsi che si dimentichi, semplicemente, di invitare gli israeliani? «Stupido che sono, mi sono dimenticato di nuovo di invitare gli ebrei!».
A detta dei suoi sostenitori, Jeremy Corbyn non ha neppure un ossicino razzista nel suo scheletro. La mia è solo una domanda: che cosa è un osso razzista? E come si può capire se una persona ce l’ha o meno? Nel solo braccio umano ci sono 64 ossa… Il fatto è che antisemitismo e razzismo non sono proprio la stessa cosa. L’antisemitismo è più simile a una superstizione: è radicato nella teologia, è ammantato di irrazionalità medievale, è svecchiato per adeguarsi all’economia di sinistra, ed è riesumato ogniqualvolta si cerchi un’unica spiegazione per tutti i mali che affliggono il mondo. Parlare di antisemitismo come di razzismo è una contraddizione in termini per Jeremy Corbyn, dato che per lui gli ebrei non sono né oppressi né sfruttati, ma – in quanto strozzini, colonialisti e cospiratori – sono la fonte e l’origine stessa del razzismo. Una volta considerati gli ebrei razzisti e il sionismo una manovra razzista, nessun antisemita potrà mai essere razzista. E ogni definizione che affermi il contrario deve essere rettificata.
Dedicherò gli ultimi secondi che mi restano – non intendo gli ultimi istanti della mia vita, ma di questo mio discorso – a spiegare per quale motivo dovrebbe importare a tutti, e non soltanto agli ebrei, impedire che un uomo così malvagio, così bigotto e così cocciuto possa fare al Paese quello che egli sta facendo al suo partito.
Coloro che ammirano Corbyn considerano una virtù il fatto che egli non abbia mai cambiato opinione. Signor presidente, virtuoso è restare fedeli alle proprie opinioni soltanto se quelle opinioni meritano che si resti loro fedeli.
Persistere in un’erroneità microscopica è il segno distintivo di un cretino. Persistere in un’erroneità madornale è il segno distintivo di un cretino pericoloso. L’ideologia nella quale Corbyn si è macerato in salamoia per quasi mezzo secolo era già desueta quando lui l’ha abbracciata. E aveva portato alla morte di milioni di persone. Che le ideologie alle quali si oppone abbiano fatto poco meglio di ciò non depone a suo favore.
Questa avrebbe dovuto essere un’estate dorata per il Labour. L’incubo della Brexit, l’inferno di Jacob Rees-Mogg, la pantomima fuori stagione di Boris Johnson: tutto avrebbe dovuto spingere i laburisti a salvarci. Corbyn, invece, ha fatto quanto chiunque altro per rendere possibile la Brexit con il suo inefficace e fievole non-sostegno al "Remain".
Basterebbe questo a portarci alle barricate. L’uomo sbagliato al momento sbagliato e che abbraccia cause sbagliate.
Mi reputo imparziale, prima di ogni altra cosa: di persone limitate in tutto fuorché nel piacere che provano nei loro stessi confronti ce ne sono a bizzeffe in tutti i partiti. Infestano le periferie, come Spiriti del Natale che non credono nel passato e appoggiano le cause perse, organizzando tea party per gli sterminatori, mantenendo l’aspetto di sant’uomini. La disgrazia di Corbyn è essere stato innalzato e portato via da quelle periferie per essere lasciato cadere in modo sventurato in pieno centro.
Non lo chiedo soltanto per il nostro bene, ma anche per il suo: per favore, c’è qualcuno che ne abbia pietà e possa riportarlo indietro?
Howard Jacobson ha pronunciato questo discorso il 6 settembre a favore della mozione " Jeremy Corbyn is Unfit to be Prime Minister", un dibattito organizzato da Intelligence Squared.
Traduzione di Anna Bissanti