martedì 11 settembre 2018

“Goebbels sosteneva anche che destra e sinistra erano concetti superati”…
l’espresso 3.6.18
Le lezioni della storia e i demagoghi del presente: molte differenze e qualche analogia. Inquietante
La libertà muore con calma
di Emanuele Felice


Luglio 1932. I nazisti prendono il 38 per cento e sono il primo partito in Germania. Ma non riescono a formare il governo, perché le altre forze politiche si rifiutano di collaborare con loro. Si torna al voto a novembre e i nazisti scendono, al 33. È solo allora che i conservatori, pensando che Hitler sia in declino, decidono di appoggiarlo come cancelliere. A gennaio 1933 nasce il primo governo Hitler, di coalizione. Sceglie con molta cura il ministro dell’Interno, ovviamente di incrollabile fede nazista (Wilhelm Frick, lo sarebbe rimasto ino al 1943). A febbraio i nazisti orchestrano l’incendio del Reichstag (il Parlamento), incolpando i comunisti: appena una settimana dopo si torna a votare, fra intimidazioni e violenze, e i nazisti balzano al 44 per cento. Con maggioranza dei due terzi (si allineano ai nazisti non solo i conservatori ma anche il Partito di Centro), a marzo il nuovo Parlamento vota il Decreto dei pieni poteri, che consente a Hitler di promulgare leggi senza passare per il Reichstag. Vi erano state diverse scorrettezze, piuttosto gravi nella sostanza. Ma formalmente la trasformazione della democrazia in una dittatura era avvenuta nella legalità, rispettando le procedure dettate dalla Costituzione. A quel punto rimanevano solo due ostacoli sulla via del potere assoluto. Uno era l’ala più sociale e radicale del nazionalsocialismo: capeggiata da Ernst Röhm, fondatore delle potenti Sa (le Squadre d’assalto naziste, un’organizzazione paramilitare con centinaia di migliaia di effettivi), primo grande sostenitore di Hitler e fautore di un programma rivoluzionario che inquietava esercito e industriali. Hitler arrestò e decapitò i vertici delle Sa nella famosa «notte dei lunghi coltelli», dal 30 giugno al 2 luglio 1934, rievocata fra l’altro ne La caduta degli dei di Visconti. L’altro ostacolo era il presidente della Repubblica, l’ottantaseienne maresciallo Hindenburg, un eroe di guerra, che si era imposto proprio contro Hitler nella primavera 1932. Vecchio e ormai malato, morirà poco dopo la notte dei lunghi coltelli, nell’agosto 1934. Hitler dichiarò formalmente vacante la carica di presidente del Reich e si attribuì ufficialmente il titolo di Führer. La Germania che finì preda del nazismo era uno dei paesi più colti e avanzati del mondo, multiculturale e progressista. Se non fosse stato per la crisi del 1929, Hitler non avrebbe mai raggiunto la maggioranza relativa dei voti. Ma se non fosse stato per le rivalità fra i suoi avversari, per gli errori di quanti sistematicamente lo sottovalutarono, anche con un seguito così largo non avrebbe mai raggiunto il potere, men che meno assoluto. Le istituzioni democratiche della repubblica di Weimar si sgretolarono in appena tre mesi, sotto i colpi di una minoranza corposa, bene organizzata disposta a tutto: guidata da un leader di grandissime capacità oratorie e completamente privo di scrupoli. Forse è questo l’insegnamento principale che possiamo trarre da quegli eventi, destinati a segnare così tragicamente la storia di tutto il genere umano: la democrazia è fragile. Non bisogna darla per scontata. E guai a pensare di poter facilmente controllare i demagoghi rozzi e spregiudicati, alla guida di forze strutturate e compatte. Può rivelarsi un errore fatale, per il vecchio establishment liberal-conservatore: fra l’altro, i tedeschi avrebbero potuto capirlo guardando a quel che era successo dieci anni prima proprio in Italia.
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Oggi possiamo consolarci notando che i demagoghi sovranisti di allora erano ben altra cosa, rispetto a quelli di oggi. C’è del vero. Si scorgono differenze lampanti, che sono il prodotto di circostanze storiche diverse.
Primo, l’uso della violenza: i nazisti, come anche i fascisti, ne facevano ampio ricorso nella lotta politica, attingendo al clima sociale instauratosi in tutto il vecchio continente a seguito della prima guerra mondiale (la militarizzazione della società, i milioni di reduci spesso traumatizzati che facevano fatica a riadattarsi alla vita civile).
Secondo: il discorso esplicitamente razzista dei nazisti, che riprendeva idee ancora largamente diffuse in ampi strati della società europea e americana e che circolavano persino nel dibattito scientifico (e a volte erano tradotte in leggi anche al di là dell’Atlantico). Sarà solo dopo l’Olocausto, dopo il nazismo appunto, che qualsiasi discorso esplicitamente razzista divenne improponibile in (quasi) tutto il mondo. Non è un caso che i demagoghi sovranisti dei nostri giorni non ne parlino apertamente; piuttosto il loro razzismo è nei fatti, o si palesa di tanto in tanto in apparenti gaffe.
La terza differenza dipende meno però dalle circostanze storiche, e difatti già le cose cominciano a farsi un po’ più delicate. Il totalitarismo nazista, come anche quello sovietico e prima ancora (ma in maniera più blanda) il fascismo, propugnava lo Stato etico. Puntava cioè alla subordinazione delle coscienze individuali alla volontà collettiva (la nazione, la razza, la classe), sfidando quindi apertamente un principio cardine dell’umanesimo liberale, affermatosi negli ultimi secoli: la libertà di scelta dell’individuo. Questo pilastro fondativo delle democrazie liberali e delle società di mercato, di tipo etico e forse persino teoretico, a tutt’oggi nessuno dei sostenitori delle «democrazie illiberali» (la definizione è del premier ungherese Orbán) l’ha mai messo seriamente in discussione. Nemmeno Putin, né tantomeno Trump o Salvini e gli altri populisti europei?
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Possiamo quindi star tranquilli, i totalitarismi del Novecento non si ripeteranno, continueremo a vivere tutto sommato come persone libere? Fino a un certo punto. Perché un’altra lezione che viene dalla storia è che spesso gli esiti peggiori non si palesano sin dall’inizio, ma sono il risultato di un processo «evolutivo», più o meno lungo. Le cose si mettono in moto in una certa direzione. E il cammino, se pur lento rispetto a quanto successo negli anni Trenta, potrebbe essere già avviato: il ministro dell’Interno che minaccia di togliere la scorta a Saviano per le sue opinioni politiche; il ministro della Famiglia che offende pesantemente gli omosessuali; il fatto che in Italia, così come in Ungheria, si stia cercando di mettere il bavaglio alle organizzazioni non governative. E ancora, ha fatto capolino l’idea di riservare un trattamento speciale alle minoranze indesiderate, i rom, che naturalmente comincia con un censimento ad hoc. Anche i nazisti inizialmente non ammazzavano gli ebrei (né i rom): si limitavano a schedarli, a discriminarli in tutti i modi possibili per costringerli ad andare via; con gli anni, si è passati dal boicottaggio dei negozi alla «soluzione finale». Una preoccupazione simile vale per le istituzioni democratiche, cioè per le regole che formalmente garantiscono la nostra libertà. Anche qui bisogna sapere riconoscere subito i sintomi, non sottovalutare alcun segnale. La posta in gioco è troppo alta. Fascisti e nazisti mettevano esplicitamente in discussione il costituzionalismo liberale, il Parlamento e le sue mediazioni, accusati di non riflettere l’autentica volontà popolare. «Entriamo in Parlamento come il lupo nel gregge», dichiarò il neo deputato Goebbels, nel 1928, la prima volta che i nazisti misero piede nel Reichstag. Massimo artefice della propaganda hitleriana, Goebbels sosteneva anche che destra e sinistra erano concetti superati, e che la propaganda per risultare efficace doveva essere volgarizzata al livello più basso possibile e accomunare tutti i nemici in un’unica categoria (i corrotti, i vecchi politici inconcludenti). Non è difficile trovare assonanze con alcuni discorsi populisti dei nostri giorni. Certo, la situazione attuale è diversa, perché appunto sono diverse le circostanze storiche. I nuovi demagoghi hanno per modello le democrazie illiberali di Ungheria, Polonia, Russia, dove formalmente si continua a votare in regimi multipartitici. Ma la libertà politica, la libertà di stampa, l’autonomia del potere giudiziario in quei paesi sono già fortemente compromesse. E Putin con i suoi metodi si assicura ormai da tempo ampie maggioranze alle elezioni. Erdogan è su quella strada. Orbán è alla guida del partito più forte, in termini percentuali, di tutta l’Unione europea. I demagoghi sovranisti sanno come mantenere il potere, anche in contesti formalmente democratici, manovrando la propaganda, alterando e forzando le regole. Quelli europei godono oggi di ampi appoggi internazionali, da parte di tutti coloro, dalla Russia a Trump, che hanno interesse a sfasciare l’Unione. Attenzione quindi a prenderli sottogamba. In Italia, a onor del vero, l’abbiamo appena fatto. La passività con cui una parte decisiva del Pd ha lasciato che i Cinquestelle finissero fra le braccia della Lega, auspicandolo perfino con infelici battute (i popcorn), si rivela ogni giorno che passa un gravissimo errore; mitigato nei suoi effetti solo dalla fermezza di Mattarella. Se sia stato un errore irrimediabile, che resterà come tale al cospetto della Storia, non è ancora dato saperlo: da quest’esito, ancora aperto, dipende il futuro dell’Italia e in fondo anche dell’Europa.