l’espresso 3.6.18
Chiesa. L’ultima tempesta
Francesco papa fragile C
di Emiliano Fittipaldi
Il
clamoroso dossier pubblicato due settimane fa dall’arcivescovo Carlo
Maria Viganò ha mostrato ancora una volta qual è il punto debole del
pontificato di Bergoglio. Perché, al di là delle reali motivazioni per
le quali l’ex nunzio a Washington ha chiesto le dimissioni di Francesco
accusandolo di aver coperto gli abusi sessuali dell’ex cardinale
americano Theodore McCarrick, e dell’uso strumentale che ne stanno
facendo le fazioni ultra tradizionaliste nemiche del papa, la vicenda ha
evidenziato come il pontefice stia perdendo a cinque anni dall’elezione
al soglio petrino una delle battaglie più delicate del suo magistero.
Quella contro la pedofilia degli ecclesiastici, tumore cresciuto nei
decenni grazie alla compiacenza e all’omertà della Chiesa. L’accusa
principale di Viganò appare assai debole. Non solo perché non suffragata
da alcuna prova (l’arcivescovo ha infatti raccontato che in un incontro
privato nel 2013 avrebbe avvertito Francesco che McCarrick aveva
approfittato sessualmente di decine di giovani seminaristi maggiorenni
aggiungendo che il papa, nonostante le rivelazioni, non avrebbe mosso un
dito contro l’anziano presule in pensione), ma anche perché il rapporto
è pieno di omissioni: in primis proprio l’ex nunzio, dopo la sua
denuncia al papa, ha in più occasioni incontrato McCar rick in assoluta
cordialità, tanto da presentare il molestatore a una conferenza pubblica
come «un uomo molto amato da tutti noi». Elementi che compromettono
l’assunto con cui l’arcivescovo giustifica il suo sfogo: «Io agisco solo
perché la verità emerga». Ma seppure i fatti raccontati fossero veri,
seppure Bergoglio avesse avuto nel 2013 la consapevolezza della doppia
vita di un anziano vescovo in pensione allora mai sfiorato da accuse di
pedofilia, arrivate solo nel 2018, le accuse di Viganò sembrano assai
poco significative in un contesto di responsabilità ed evidenze ben più
gravi. Riguardanti il papa e altri alti prelati vicini al vescovo di
Roma «venuto dalla fine del mondo». L’operazione di Viganò mira a
coinvolgere il pontefice in prima persona nel nuovo grande scandalo dei
preti pedofili della Pennsylvania, dove la procura generale lo scorso
agosto ha difuso i risultati di un’indagine su presunti crimini di
ecclesiastici avvenuti nell’arco degli ultimi 70 anni. Un report che
evidenzia come oltre 300 tonache avrebbero abusato e violentato in modi
orrendi oltre mille bambini e bambine. «Abbiamo le prove che il Vaticano
sapeva e ha coperto gli abusi. La copertura era sistematica», ha detto
Josh Shapiro, procuratore generale dello Stato del Nord Est. «Quello che
abbiamo trovato davvero spaventoso è che i leader della Chiesa
avrebbero mentito ai fedeli la domenica, mentito in pubblico, protetto
questi predatori ma contemporaneamente documentavano ogni cosa,
mettendola negli archivi segreti. Le responsabilità del papa? Non posso
parlare specificatamente di Francesco», ha concluso il magistrato. La
stragrande maggioranza dei casi di stupri, in effetti, è precedente al
2000. Ma il nuovo terremoto americano e le reazioni internazionali alla
lettera di Viganò dimostrano che sul tema della lotta alla pedoilia
Francesco sta cominciando a perdere credibilità. Anche perché, se il
papa ha usato parole di fuoco per stigmatizzare gli orchi con il
collarino, di passi in avanti questo magistero ne ha compiuti - al netto
della propaganda bergogliana - davvero pochi. Chi dice che la pedoilia è
un fenomeno del passato non conosce i numeri della Congregazione della
dottrina della fede, che segnalano come negli ultimi cinque anni siano
arrivate in Vaticano circa 2.000 denunce “verosimili” da ogni parte del
mondo, una media doppia rispetto al periodo 2005-2009. Travolto dagli
scandali di Boston e della Chiesa irlandese, Benedetto XVI allungò i
termini di prescrizione del reati di 10 anni, inserì nei codici vaticani
il reato di pedopornografia, ma non intaccò il dispositivo (nefasto)
del «segreto pontificio», ancora oggi applicato a ogni processo canonico
e su ogni notizia di atti contro il sesto comandamento. Francesco non
ha modiicato le regole, che vanno tutte contro la trasparenza tanto
pubblicizzata dalla “rivoluzione”: chi parla rivelando i nomi dei
pedoili compie “peccato mortale”, e va incontro a sanzioni severe decise
da una commissione disciplinare ad hoc. Con sanzioni che comprendono il
licenziamento e persino la scomunica “latea sententiae”. Bergoglio non
ha nemmeno emesso norme né motu proprio pontiici che obblighino senza se
e senza ma i vescovi e i presuli a denunciare preti pedoili
direttamente alla magistratura ordinaria: «La responsabilità morale ed
etica di denunciare gli abusi presunti» non basta più all’opinione
pubblica e ai fedeli traditi. Soprattutto quando “la negligenza”
coinvolge i vertici vaticani. Gli esempi recenti sono molti, e quello
che riguarda Luis Francisco Ladaria, promosso un anno fa prefetto della
Congregazione della fede da Francesco, è emblematico: nel 2012 Ladaria
ha infatti coperto, senza denunciarlo, un prete pedofilo che la
Congregazione aveva ridotto in stato laicale per abusi sessuali su
alcuni bambini, don Gianni Trotta. Ladaria e il cardinale ex prefetto
William Levada ordinano però alla chiesa pugliese che la condanna
canonica passi sotto silenzio, «per non dare scandalo ai fedeli».
Trotta, le cui gesta erano sconosciute a tutti tranne che alle gerarchie
vaticane, ha potuto così violentare altri minorenni del tutto
indisturbato: dopo essere stato spretato, ha infatti trovato lavoro come
allenatore in una squadra di calcio giovanile, e in due anni ha
molestato una decina di bambini in un paesino vicino a Foggia. Ladaria è
ancora potente prefetto della Congregazione che deve giudicare i preti
pedofili. I fallimenti non si contano: il tribunale contro i vescovi
maniaci, annunciato urbi et orbi nel 2015, non vedrà mai la luce. La
Commissione per la Tutela dei minori voluta dal papa nel 2014 non ha
alcun potere reale, né in Vaticano né sulle Conferenze episcopali dei
vari paesi, tanto che due membri laici, ex vittime dei pedofili, sono
andati via sbattendo la porta, spiegando che l’organismo era solo
«un’operazione propagandistica di Francesco». Sono decine gli altri casi
eclatanti che spiegano bene perché il papa stia perdendo credibilità
sulla questione che contribuì a chiudere l’esperienza di Benedetto XVI, e
perché rischi seriamente che i suoi tanti nemici - in una guerra civile
ormai permanente - possano presto approfittare dei suoi passi falsi.
George Pell, il cardinale chiamato a Roma dal pontefice per mettere a
posto le finanze vaticane e “moralizzare” la corrotta curia romana, un
anno fa è stato infatti incriminato dai magistrati australiani per
alcuni casi di pedofilia considerati più che verosimili da inquirenti e
polizia. Francesco, anche se lo ha sospeso dall’incarico, lo ha sempre
sostenuto, decidendo di non sostituirlo prima della fine del processo.
Le imputazioni dei magistrati e dei ragazzi sono ovviamente tutte da
dimostrare. Ma evidenze del comportamento oscuro del cardinale di fronte
alla tema della pedofilia erano note da anni. In passato, quando era
vescovo di Melbourne, il “ranger” era già stato denunciato da un
chierichetto di 12 anni per gravi molestie (il processo si era chiuso
nel 2002 senza alcuna condanna per mancanza di prove) e Ratzinger -
anche per questo - aveva sempre frenato le sue ambizioni di trasferirsi
presso la Santa Sede. Non solo. Il porporato nel corso degli anni era
inito nel mirino di decine di vittime e di sopravvissuti agli orchi.
Ragazzi e ragazze che nel corso delle audizioni della Royal Commission,
una commissione nazionale voluta dal governo di Canberra per investigare
sugli abusi sessuali nella Chiesa australiana, hanno additato “Big
George” come un insabbiatore, come un prelato che ha sistematicamente
difeso i pedoili australiani (secondo il rapporto finale della
Commissione il 7 per cento dei preti cattolici dell’isola sono implicati
in vicende di pedoilia), come un vescovo che ha inventato un sistema di
risarcimenti usato in realtà «per distruggere e controllare le vittime e
difendere l’immagine e la cassaforte della Chiesa». Qualcuno, come un
padre a cui un preside cattolico ha violentato due bimbe di 4 e 5 anni,
ha definito Pell «un sociopatico». Quattro anni fa L’Espresso aveva
documentato come il braccio destro appena scelto da Francesco aveva
chiesto a famiglie distrutte dai pedoili in tonaca di accettare, per
chiudere deinitivamente il casi di abusi in alcuni processi civili
contro la sua diocesi, la miseria di 30 mila euro. «In caso contrario»
scrivevano gli avvocati di Pell, «noi ci difenderemo strenuamente in
tribunale». Non solo: è un fatto che il cardinale abbia accompagnato
sottobraccio mostri seriali come l’amico ed ex compagno di stanza Gerald
Ridsdale (alla ine condannato in via deinitiva per aver violentato
decine di bambini), e che lo stesso “ranger” ha coperto accuse a suo
dire false contro i Fratelli Cristiani e invece poi rivelatesi
verissime. Altre vittime hanno raccontato - in testimonianze giurate -
come Pell abbia cercato di comprare il loro silenzio. I giudici della
Royal Commission hanno definito in una relazione del 2015 il suo
comportamento «poco cristiano». Al netto degli esiti del processo per
presunti abusi sessuali, tutte le altre informazioni sul lato oscuro di
Pell erano pubbliche già prima che Francesco - tra il 2013 e il 2014 -
nominasse “Big George” capo della Segreteria dell’Economia, poi membro
del C9, il gruppo dei cardinali che deve consigliare il ponteice nella
gestione della Chiesa universale. Com’è possibile che Bergoglio abbia
protetto Pell? Questo resta un mistero glorioso. Così come incredibili
appaiono - assai più che le accuse di Viganò - altre inaudite ascensioni
di insabbiatori nelle alte sfere della gerarchia, tutte scelte che da
anni stanno minando il credito del magistero bergogliano. Nel C9
Francesco ha infatti chiamato anche il cardinale cileno Francesco
Errazuriz, che per anni ha tenuto nascoste in un cassetto le denunce dei
ragazzi contro il pedofilo seriale Fernando Karadima. Mentre un allievo
dell’orco, Juan Barros, nel 2015 nonostante le accuse circostanziate
delle vittime e le vibranti proteste di parte del clero locale fu
promosso ugualmente da Bergoglio vescovo di Osorno: solo quest’anno -
dopo l’ira del presidente della Commissione per la tutela dei minori
cardinale Seán O’Malley per l’ennesima difesa di Barros da parte di
Francesco davanti alle vittime allibite - il papa ha cambiato linea,
chiedendo scusa per parole inopportune, mandando in fretta e furia un
nuovo visitatore apostolico in Cile per appurare una verità già evidente
a tutti da lustri, e accettando infine le dimissioni di Barros. Un
pesce piccolo, comunque, nella scala gerarchica del clero cileno:
Errazuriz e l’arcivescovo di Santiago Ricardo Ezzati, che hanno sempre
difeso Karadima e Barros e recentemente insultato uno dei sopravvissuti
(«un serpente», dissero in uno scambio email) non solo hanno mantenuto i
loro incarichi, ma sono stati premiati. Errazuriz promosso nel C9,
Ezzati con la berretta cardinalizia. Anche la recente vicenda che ha
travolto il coordinatore del C9 Oscar Maradiaga, primo consigliere di
Bergoglio, e il suo braccio destro Juan Josè Pineda è indicativa di come
Francesco, se a parole propugna la “tolleranza zero”, poi copre troppo
spesso le malefatte dei suoi fedelissimi. Il cardinale honduregno è
stato posto alla destra del trono di Pietro nonostante tra il 2003 e il
2004 abbia ospitato in una delle diocesi del suo arcivescovado a
Tegucigalpa un prete incriminato dalla polizia del Costarica per abusi
sessuali, don Enrique Vasquez (rimase sei mesi in Honduras, poi - quando
l’Interpol lo individuò - scappò via dal paese). E lo ha voluto al suo
fianco nonostante Maradiaga - estimatore dell’insabbiatore seriale
Bernard Law, da cui scaturì lo scandalo Spotlight - abbia detto nel 2002
durante una conferenza pubblica a Roma che anche lui sarebbe stato
«pronto ad andare in prigione piuttosto che danneggiare uno dei miei
preti» accusati di abusi minorili. Qualche mese fa L’Espresso ha svelato
i contenuti dell’inchiesta di un visitatore apostolico argentino
mandato dal Vaticano proprio nella diocesi honduregna: alcuni testimoni a
maggio 2017 hanno infatti accusato Maradiaga di aver percepito
dall’università cattolica locale 35 mila euro al mese per anni, e
indicato il vescovo ausiliare Pineda responsabile di «gravi
comportamenti inappropriati» (traducendo: abusi e relazioni sessuali)
nei confronti di alcuni sacerdoti maggiorenni. Il coordinatore del C9 ha
negato con forza ogni addebito, spiegando di aver girato i denari
ricevuti alla diocesi affinché fossero investite in opere di beneicenza,
e ha aggiunto che Pineda era innocente, calunniato da forze oscure e
giornalisti «che scrivono libri infami. È stato Pineda stesso, per
dimostrare la sua innocenza al mondo, a chiedere al Vaticano l’invio di
un visitatore apostolico», disse furibondo il consigliere del papa. Dopo
pochi mesi, però, documenti interni della diocesi hanno evidenziato che
dei soldi di Maradiaga non c’è alcuna traccia nei bilanci di
Tegucigalpa, mentre Bergoglio, lo scorso luglio ha accettato le
dimissioni da ausiliare di Pineda. «Il fatto è che il papa ha tenuto per
mesi i risultati dell’inchiesta del vescovo Casaretto sulla sua
scrivania. Solo quando le accuse sono infite sulla stampa s’è finalmente
mosso», spiegano oggi prelati honduregni. «Pineda comunque ha mantenuto
il titolo di vescovo e Maradiaga è rimasto saldo al suo posto. Come
dite voi in Italia? Parlare bene e razzolare male. Ecco, da Francesco
proprio non ce lo aspettavamo».