martedì 11 settembre 2018

internazionale 7.9.18
Il lato oscuro del sogno cinese
Di Nicholas Bequelin, The Diplomat, Giappone
Pechino non può consolidare l’identità nazionale con la forza, avverte un responsabile di Amnesty international


Cosa rende forte una nazione? Gli intellettuali cinesi dell’ottocento si arrovellavano su questa domanda mentre osservavano il declino di un impero che era stato potentissimo. Più di un secolo dopo, i leader cinesi sono più che mai mossi dal bisogno di promuovere la coesione interna e di proiettare un’immagine di potenza all’estero, specialmente nel momento in cui il ritmo frenetico di modernizzazione degli ultimi trent’anni comincia a rallentare. Sotto il pugno di ferro del presidente Xi Jinping, le autorità cinesi vogliono dimostrare l’ineluttabilità storica del “ringiovanimento della nazione”, unita nella realizzazione del “sogno cinese”. Per questo, secondo Pechino, serve una popolazione omogenea, in cui le differenze di cultura, religione ed etnia, per non parlare delle idee politiche che potrebbero rimettere in discussione il regime del partito unico, devono essere cancellate. Gli uiguri e i tibetani, che insieme costituiscono la maggioranza della popolazione nella Cina occidentale, sono il principale bersaglio di questi sistematici tentativi di cancellare l’identità etnica. Ogni parvenza di tolleranza nei confronti di queste comunità è scomparsa. Al suo posto è subentrata la criminalizzazione di culture e religioni, nella convinzione che il fine della “coesione nazionale” giustifichi i mezzi. Il costo umano è stato denunciato recentemente alle Nazioni Unite. Gary McDougall, del comitato dell’Onu contro la discriminazione razziale, ha dichiarato che la regione autonoma dello Xinjiang è ormai una “zona senza diritti” in cui circa un milione di persone è detenuto nei centri anti­estremismo. I funzionari cinesi smentiscono queste affermazioni. Un editoriale del Global Times sostiene che è stato grazie “alla guida del Partito comunista cinese e alla forza nazionale del paese che lo Xinjiang è stato salvato dal caos”. Eppure oggi la regione si distingue per un’onnipresente sorveglianza ad alta tecnologia, l’espansione dei campi di “educazione” di massa, le pattuglie armate, i posti di blocco ovunque e altre misure intrusive che violano i diritti umani. L’uso della lingua uigura è vietato, così come molte pratiche religiose e culturali musulmane. Portare il burqa o avere una barba “anormale” sono considerate pratiche “estremistiche” e sono proibite in base alle norme di “deradicalizzazione”. Le autorità locali hanno imposto varie restrizioni: le famiglie devono consegnare le copie del Corano e altri oggetti religiosi al governo; i bambini con nomi islamici sono costretti a sceglierne uno diverso; gli studenti non possono più osservare il digiuno durante il Ramadan. Chi viene scoperto mentre prega o in possesso di libri religiosi è spedito nei campi di “educazione”, un termine orwelliano per deinire l’internamento di massa dei musulmani cinesi. L’emarginazione degli uiguri comincia a scuola. Le autorità vogliono che entro il 2020 più del novanta per cento degli studenti della minoranza riceva un’“istruzione bilingue”. Questo significa che il cinese mandarino è la lingua ufficiale del sistema scolastico, mentre la loro lingua, l’uiguro, è solo una delle materie insegnate.
Nuove identità
Nelle aree abitate da tibetani le autorità applicano la stessa logica di coesione e identità nazionale per giustificare la persecuzione etnica e religiosa. A maggio Tashi Wangchuk, un attivista per il diritto a usare la lingua tibetana, è stato imprigionato per aver “incitato al separatismo”. Le sue dichiarazioni in un documentario che denunciava la mancanza di tutela per la lingua e la cultura tibetane è stato usato come prova del fatto che stava “tramando per minare l’unità nazionale”. Il dalai lama è deinito un “separatista” ed è illegale appendere il suo ritratto o pregare in gruppo per lui. Migliaia di funzionari sono stati mandati nei monasteri per raforzare la sorveglianza sui monaci e sulle loro famiglie. Per indebolire i loro legami con la comunità, ai monasteri sono vietate molte attività tradizionali, come l’insegnamento della lingua tibetana. Ogni anno migliaia di studenti delle scuole elementari tibetane sono mandati in collegi in province lontane. Imparano il programma scolastico nazionale, con poco spazio per la lingua tibetana, e vivono in un ambiente dominato dai cinesi han, senza poter partecipare alle pratiche culturali tibetane e a quelle religiose buddiste. Gli viene insegnato il sistema delle “cinque identificazioni”, ovvero con “il paese, la nazione cinese, la cultura cinese, il Partito comunista cinese e il socialismo con caratteristiche cinesi”. Misure di questo tipo possono cancellare l’identità delle minoranze, ma questo non significa forgiare una nazione più forte. L’esperienza mostra che chi è vittima di una sistematica violenza di stato ha più probabilità di legarsi a nuove identità fondate sul risentimento e il sentimento d’ingiustizia. La repressione messa in atto in queste due regioni sarà estesa a un numero sempre maggiore di segmenti “sospetti” della società cinese, nel tentativo di creare una popolazione uniforme e ubbidiente che non metta mai in dubbio la saggezza del “grande timoniere”, come la stampa ufficiale ha cominciato a riferirsi a Xi. Troppo spesso i leader politici credono di poter ottenere un’identità nazionale compatta favorendo l’esclusione e l’intolleranza. Credono che infondere paura in persone che non pensano, parlano e pregano come la maggioranza sia il collante che terrà insieme la nazione. Ma si sbagliano. La risposta non sta nella repressione, ma nell’uguaglianza. Gli uiguri, i tibetani e altri gruppi etnici si sentiranno parte della nazione cinese quando saranno trattati come cittadini a pieno titolo, uguali di fronte alla legge e titolari di diritti umani protetti e rispettati dallo stato. Gli stati prosperano quando accettano la diversità e trattano tutti i cittadini – a prescindere dalla loro appartenenza razziale, origine etnica, religiosa e così via – con dignità, rispetto e uguaglianza di fronte alla legge. Sopprimere le differenze e cercare d’imporre un’identità nazionale uniforme ha sempre portato al conlitto. La Cina è ancora in tempo per cambiare: ascoltare i consigli delle Nazioni Unite sarebbe un buon inizio.

L’AUTORE Nicholas Bequelin è responsabile di Amnesty international per l’Asia orientale.