internazionale 7.9.18
Il lato oscuro del sogno cinese
Di Nicholas Bequelin, The Diplomat, Giappone
Pechino non può consolidare l’identità nazionale con la forza, avverte un responsabile di Amnesty international
Cosa
rende forte una nazione? Gli intellettuali cinesi dell’ottocento si
arrovellavano su questa domanda mentre osservavano il declino di un
impero che era stato potentissimo. Più di un secolo dopo, i leader
cinesi sono più che mai mossi dal bisogno di promuovere la coesione
interna e di proiettare un’immagine di potenza all’estero, specialmente
nel momento in cui il ritmo frenetico di modernizzazione degli ultimi
trent’anni comincia a rallentare. Sotto il pugno di ferro del presidente
Xi Jinping, le autorità cinesi vogliono dimostrare l’ineluttabilità
storica del “ringiovanimento della nazione”, unita nella realizzazione
del “sogno cinese”. Per questo, secondo Pechino, serve una popolazione
omogenea, in cui le differenze di cultura, religione ed etnia, per non
parlare delle idee politiche che potrebbero rimettere in discussione il
regime del partito unico, devono essere cancellate. Gli uiguri e i
tibetani, che insieme costituiscono la maggioranza della popolazione
nella Cina occidentale, sono il principale bersaglio di questi
sistematici tentativi di cancellare l’identità etnica. Ogni parvenza di
tolleranza nei confronti di queste comunità è scomparsa. Al suo posto è
subentrata la criminalizzazione di culture e religioni, nella
convinzione che il fine della “coesione nazionale” giustifichi i mezzi.
Il costo umano è stato denunciato recentemente alle Nazioni Unite. Gary
McDougall, del comitato dell’Onu contro la discriminazione razziale, ha
dichiarato che la regione autonoma dello Xinjiang è ormai una “zona
senza diritti” in cui circa un milione di persone è detenuto nei centri
antiestremismo. I funzionari cinesi smentiscono queste affermazioni. Un
editoriale del Global Times sostiene che è stato grazie “alla guida del
Partito comunista cinese e alla forza nazionale del paese che lo
Xinjiang è stato salvato dal caos”. Eppure oggi la regione si distingue
per un’onnipresente sorveglianza ad alta tecnologia, l’espansione dei
campi di “educazione” di massa, le pattuglie armate, i posti di blocco
ovunque e altre misure intrusive che violano i diritti umani. L’uso
della lingua uigura è vietato, così come molte pratiche religiose e
culturali musulmane. Portare il burqa o avere una barba “anormale” sono
considerate pratiche “estremistiche” e sono proibite in base alle norme
di “deradicalizzazione”. Le autorità locali hanno imposto varie
restrizioni: le famiglie devono consegnare le copie del Corano e altri
oggetti religiosi al governo; i bambini con nomi islamici sono costretti
a sceglierne uno diverso; gli studenti non possono più osservare il
digiuno durante il Ramadan. Chi viene scoperto mentre prega o in
possesso di libri religiosi è spedito nei campi di “educazione”, un
termine orwelliano per deinire l’internamento di massa dei musulmani
cinesi. L’emarginazione degli uiguri comincia a scuola. Le autorità
vogliono che entro il 2020 più del novanta per cento degli studenti
della minoranza riceva un’“istruzione bilingue”. Questo significa che il
cinese mandarino è la lingua ufficiale del sistema scolastico, mentre
la loro lingua, l’uiguro, è solo una delle materie insegnate.
Nuove identità
Nelle
aree abitate da tibetani le autorità applicano la stessa logica di
coesione e identità nazionale per giustificare la persecuzione etnica e
religiosa. A maggio Tashi Wangchuk, un attivista per il diritto a usare
la lingua tibetana, è stato imprigionato per aver “incitato al
separatismo”. Le sue dichiarazioni in un documentario che denunciava la
mancanza di tutela per la lingua e la cultura tibetane è stato usato
come prova del fatto che stava “tramando per minare l’unità nazionale”.
Il dalai lama è deinito un “separatista” ed è illegale appendere il suo
ritratto o pregare in gruppo per lui. Migliaia di funzionari sono stati
mandati nei monasteri per raforzare la sorveglianza sui monaci e sulle
loro famiglie. Per indebolire i loro legami con la comunità, ai
monasteri sono vietate molte attività tradizionali, come l’insegnamento
della lingua tibetana. Ogni anno migliaia di studenti delle scuole
elementari tibetane sono mandati in collegi in province lontane.
Imparano il programma scolastico nazionale, con poco spazio per la
lingua tibetana, e vivono in un ambiente dominato dai cinesi han, senza
poter partecipare alle pratiche culturali tibetane e a quelle religiose
buddiste. Gli viene insegnato il sistema delle “cinque identificazioni”,
ovvero con “il paese, la nazione cinese, la cultura cinese, il Partito
comunista cinese e il socialismo con caratteristiche cinesi”. Misure di
questo tipo possono cancellare l’identità delle minoranze, ma questo non
significa forgiare una nazione più forte. L’esperienza mostra che chi è
vittima di una sistematica violenza di stato ha più probabilità di
legarsi a nuove identità fondate sul risentimento e il sentimento
d’ingiustizia. La repressione messa in atto in queste due regioni sarà
estesa a un numero sempre maggiore di segmenti “sospetti” della società
cinese, nel tentativo di creare una popolazione uniforme e ubbidiente
che non metta mai in dubbio la saggezza del “grande timoniere”, come la
stampa ufficiale ha cominciato a riferirsi a Xi. Troppo spesso i leader
politici credono di poter ottenere un’identità nazionale compatta
favorendo l’esclusione e l’intolleranza. Credono che infondere paura in
persone che non pensano, parlano e pregano come la maggioranza sia il
collante che terrà insieme la nazione. Ma si sbagliano. La risposta non
sta nella repressione, ma nell’uguaglianza. Gli uiguri, i tibetani e
altri gruppi etnici si sentiranno parte della nazione cinese quando
saranno trattati come cittadini a pieno titolo, uguali di fronte alla
legge e titolari di diritti umani protetti e rispettati dallo stato. Gli
stati prosperano quando accettano la diversità e trattano tutti i
cittadini – a prescindere dalla loro appartenenza razziale, origine
etnica, religiosa e così via – con dignità, rispetto e uguaglianza di
fronte alla legge. Sopprimere le differenze e cercare d’imporre
un’identità nazionale uniforme ha sempre portato al conlitto. La Cina è
ancora in tempo per cambiare: ascoltare i consigli delle Nazioni Unite
sarebbe un buon inizio.
L’AUTORE Nicholas Bequelin è responsabile di Amnesty international per l’Asia orientale.