martedì 11 settembre 2018

internazionale 7.9.18
I demoni della razza
Di Catherine Mary, Le Monde, Francia
Secondo il genetista David Reich le differenze biologiche tra le popolazioni ci sono e hanno un peso. Una tesi che ha suscitato grande clamore


La biologia può delimitare dei gruppi umani che giustificherebbero l’esistenza delle razze nella specie umana? Negli anni settanta i genetisti avevano dato una risposta definitiva a questa domanda: la razza è una costruzione sociale senza nessun fondamento biologico. Si liberavano così di una questione scottante, all’origine, nell’ottocento, delle teorie che riempiono le pagine più brutte della storia della loro disciplina. Ma David Reich, un rinomato genetista dell’università di Harvard, negli Stati Uniti, ha pubblicato un libro, Who we are and how we got here? (Chi siamo e come siamo arrivati in qui?), con cui soffia sulle ceneri che si credevano spente. Reich denuncia “l’ortodossia” del discorso sulla diversità genetica che si è imposto negli ultimi decenni e che ha trasformato la razza in un argomento tabù. “Come dobbiamo prepararci alla probabilità che nei prossimi anni gli studi genetici mostrino che molti tratti sono influenzati da varianti genetiche e che questi tratti sono diversi nelle popolazioni umane?”, si chiede Reich in un articolo apparso a marzo sul quotidiano The New York Times. “Affermare che non è possibile avere differenze significative tra le popolazioni umane favorirà solo la strumentalizzazione razzista della genetica che, giustamente, vogliamo evitare”, conclude lo scienziato. Proprio quando la Francia propone di cancellare la parola “razza” dalla sua costituzione, con un voto dei deputati il 27 giugno del 2018, la discussione aperta da Reich ricorda che per molto tempo la genetica è andata a braccetto con l’eugenetica, per poi pentirsene. E ricorda anche che la pretesa della genetica di poter analizzare tutto o quasi può portarla a ignorare i suoi limiti, un aspetto denunciato da molti antropologi in risposta all’articolo del genetista statunitense.
Una costruzione sociale
Come hanno fatto i genetisti a cancellare la nozione di razza dalla loro disciplina? E perché oggi questa nozione ritorna nelle tesi di Reich, i cui studi paradossalmente dimostrano che le popolazioni umane sono il frutto di molti incroci? Per capirlo bisogna vedere come nella biologia si è evoluto il concetto di razza dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. “In realtà la razza è più un mito sociale che un fenomeno biologico. Questo mito ha causato un male immenso”, riconosceva nel 1950 la dichiarazione dell’Unesco sulla razza. Ma a quell’epoca la maggioranza dei genetisti, tra cui il russo Theodosius Dobzhansky e il britannico Ronald Fisher, pensavano ancora che da un punto di vista biologico le razze umane esistessero. Avevano cominciato a ridefinirle dagli anni trenta basandosi su alcuni caratteri, in particolare i gruppi sanguigni, che consideravano più affidabili di quelli morfologici. Avevano osservato che il gruppo 0 era presente nel 90 per cento dei nativi americani, quindi pensavano di poter descrivere gruppi umani omogenei e stabili. Tuttavia si erano resi conto che la particolarità di questi popoli non rifletteva una purezza di razza, ma veniva dalla loro storia, in quanto popolazione perseguitata e isolata. Né il colore della pelle né il gruppo sanguigno sono espressione di un insieme di varianti comuni a uno stesso gruppo umano. Le varianti tra gli esseri umani sono al tempo stesso il risultato del loro adattamento all’ambiente, come il clima o l’altitudine, e delle diverse origini geografiche delle popolazioni. Appurato questo, alcuni genetisti, come lo statunitense Richard Lewontin e il francese Albert Jacquard, dichiararono che qualunque tentativo di classificare gli esseri umani in categorie biologiche era il frutto di scelte arbitrarie, perché tutte queste categorie si basano su una parte molto ridotta di varianti. Ci sono più varianti tra due persone prese a caso in uno stesso gruppo umano che tra due gruppi nel loro insieme. Da qui un cambiamento di prospettiva, confermato dal sequenziamento del genoma umano negli anni novanta. Infatti il sequenziamento rivelava che le varianti riguardano solo una piccolissima parte del genoma umano, dell’ordine dello 0,1 per cento. Di conseguenza in biologia si è imposto un discorso antirazzista sulla diversità genetica, di cui oggi Reich denuncia “l’ortodossia”. “La ‘razza’ è una costruzione sociale. Noi genetisti non usiamo quasi mai questo termine negli articoli scientifici perché allude troppo a signiicati non scientiici. Inoltre, la sua deinizione cambia a seconda dell’epoca e del luogo”, osserva Reich. Se nel suo articolo Reich usa la parola razza tra virgolette è per mettere in guardia dal fatto che l’attuale discorso scientiico rischia di aprire la porta a posizioni settarie e a falsi esperti, che tra l’altro già ci sono. Mesi dopo aver lanciato la polemica, Reich resta sulle sue posizioni: “Non accetto l’idea secondo cui le diferenze biologiche medie tra due gruppi – per esempio tra gli abitanti di Taiwan e quelli della Sardegna – sarebbero così piccole da essere considerate prive di significato biologico e quindi ignorate”, dice. “Da tempo questa è la linea di molti professori universitari. Ma è un pensiero pericoloso, perché danneggia la comprensione e la considerazione della diversità umana”. Categorie arbitrarie “Le recenti scoperte in genetica hanno confermato che la nozione di razza non ha nessun fondamento biologico”, replica la genetista Évelyne Heyer del Museo nazionale di storia naturale di Parigi. “Non ci sono limiti distinti tra i gruppi umani che permettano di definire categorie ‘chiuse’. E caratteristiche come il colore della pelle riguardano solo una piccolissima parte del genoma umano. Infine, le differenze non giustificano l’esistenza di una gerarchia tra gli esseri umani in base alle loro capacità”. La mostra Nous et les autres , organizzata al Museo dell’uomo di Parigi nel 2017 e curata da Heyer, si basava su queste osservazioni per evidenziare la rottura della scienza contemporanea con le derive razziste dell’ottocento e per lodare gli studi sulla diversità biologica. Ma è proprio attraverso lo studio di questa diversità che oggi riaffiora la questione della razza. Il motivo è che il sequenziamento del genoma umano ha inaugurato vasti programmi di ricerca incentrati su due campi: la genetica delle popolazioni e la genetica medica. Nel primo i genetisti, contro il monopolio degli studiosi di preistoria, di antropologia e di linguistica, cercano di tracciare i grandi lussi migratori all’origine del popolamento della Terra studiando le espressioni delle origini geografiche contenute nei genomi. Le loro importanti scoperte permettono di riscrivere la storia di popoli come i vichinghi, gli ebrei, i sardi o gli amerindi. Nel secondo campo, i genetisti cercano delle predisposizioni genetiche in grado di spiegare, in alcuni gruppi umani, la frequenza elevata di malattie come i tumori, il diabete, l’obesità o la depressione. Gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, l’Islanda o l’Estonia finanziano progetti di genomica per realizzare una medicina personalizzata, in grado di adattarsi a un particolare profilo genetico in base al rischio di malattia a cui è associato. Da qui il paradosso: come negare l’esistenza di categorie tra gli esseri umani e, allo stesso tempo, individuare dei gruppi di popolazione in cui si studiano determinate varianti genetiche? In che modo l’esistenza di questi gruppi fluidi chiama in causa la nozione di razza, che affermava la presenza di entità stabili e chiuse chiamate dai genetisti del passato “categorie”? Queste classificazioni arbitrarie in biologia non hanno forse delle basi politiche? “Dagli anni settanta c’è un’ambiguità nella rottura con la nozione di razza da cui non siamo ancora usciti”, dice lo storico Claude-Olivier Doron. “Si può affermare che le razze sono categorie arbitrarie, che non valgono per una classificazione. Ma questo non toglie che la diversità tra due categorie, per quanto minima, possa servire per molti usi”. I gruppi delimitati dai genetisti sono anche il frutto di una storia sociale e politica, di una cultura a cui, lo si voglia o no, appartengono gli stessi scienziati. “Secondo i genetisti, gli studi sulla genetica delle popolazioni non hanno nulla a che vedere con quelli antropologici su cui è stata fondata la nozione di razza. Ma anche se le tecniche, le discipline e gli interessi in gioco sono cambiati, le grandi categorie di popolazioni su cui si basano questi studi – come gli ebrei, gli africani o i vichinghi – rimangono invariate”, sostiene lo storico Amos Morris-Reich dell’Università di Haifa, in Israele. “Il contesto sociale e politico degli studi sul genoma non è neutrale. Essere neri negli Stati Uniti non ha lo stesso signiicato che esserlo in Brasile, e i risultati delle analisi genetiche alimentano i dibattiti locali e possono essere strumentalizzati”, sottolinea l’antropologa Sarah Abel dell’università di Reykjavík, una delle firmatarie della risposta a Reich pubblicata sempre sul New York Times. “Sono d’accordo con Reich sul fatto che non parlare di determinate cose permette ad alcuni discorsi razzisti di svilupparsi e difondersi, in particolare su internet”, dice Doron. “Inoltre è vero che serve una guida precisa su quello che dicono e non dicono le conoscenze genetiche”, continua. “Ma nell’articolo pubblicato sul New York Times Reich si mostra incapace di deinire questi limiti. Confonde molte cose: gruppi che si sono dichiarati tali o sono stati creati dall’ufficio del censimento statunitense; gruppi costruiti ad hoc dai ricercatori per esigenze di studio, vecchie categorie provenienti dai periodi coloniali. Non si interroga mai sui limiti, sulle approssimazioni e sulle interpretazioni della genetica”, aferma lo storico. Reich si basa sui lavori del suo gruppo di ricerca, che ha identiicato nei genomi di uomini afroamericani regioni che li predispongono al tumore alla prostata. Di fronte a questo argomento, le reazioni degli specialisti in scienze umane sono unanimi: “Nel valutare il rischio che una malattia si sviluppi bisogna pensare a una complessità di fattori. Nel caso del tumore alla prostata citato da Reich, si guarda sempre di più agli effetti congiunti dei componenti chimici dell’ambiente, non si può ridurre il rischio maggiore di questo tumore alla sua sola dimensione genetica”, afferma Catherine Bourgain del Cermes 3, nel Centro nazionale di ricerca scientifica di Parigi. Bourgain è molto critica verso i modelli statistici usati da Reich, poco aidabili per valutare l’influenza dei fattori ambientali che possono condizionare i risultati. Del resto le popolazioni afroamericane, latine o native americane (su cui si basano gli studi di ricerca biomedica negli Stati Uniti) sono le più povere. Questo le espone ad ambienti e stili di vita (inquinamento, stress o alcolismo) che favoriscono l’insorgenza di malattie per cui si cercano predisposizioni genetiche. Nel 2004 la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense che regolamenta gli alimenti e i medicinali, ha approvato il BiDil, un farmaco per correggere l’effetto di una mutazione che rende le persone afroamericane più a rischio di infarto del miocardio. “Il problema su cui bisogna insistere nel caso del BiDil, e non solo, è che occulta altre variabili, per esempio quelle ambientali, che in alcuni casi sono molto più importanti”, insiste Doron.
Pregiudizi
Inoltre, questi studi potrebbero risvegliare di nuovo alcuni stereotipi radicati nell’inconscio collettivo. Così un programma nazionale messicano mira a sequenziare il genoma di diversi tipi di indigeni e meticci per studiare le loro predisposizioni genetiche allo sviluppo precoce del diabete di tipo 2 e dell’obesità. “La specificità del dibattito messicano è rappresentata dagli incroci di popolazioni europee, afroamericane e asiatiche, ma soprattutto tra diversi tipi di indigeni”, spiega lo storico Luc Berlivet, del Cermes 3. “Nelle discussioni ricompaiono stereotipi diversi da quelli sugli afroamericani o i popoli nativi del Nordamerica. Non si tratta più di distinguere i bianchi dagli afroamericani o dagli ispanici, ma di distinguere diversi tipi di indigeni. Questo pone gli stessi interrogativi, ma in modo più sottile”, dice. Un altro motivo di preoccupazione è la visione semplicistica del concetto di identità prodotta dall’analisi genetica delle origini geografiche. Ci sono aziende come 23andMe, Ancestry.com o MyHeritage che promettono ai clienti di determinare le loro origini geografiche attraverso l’analisi genetica. Diffusi senza precauzione, questi risultati possono alimentare le tensioni locali sulle questioni identitarie o rivelare gli stereotipi razzisti di una cultura, come è successo in Brasile con i test del dna sulle origini africane. Nonostante una storia nazionale che insiste sull’integrazione, in Brasile i pregiudizi razzisti sono radicati a causa del passato schiavista del paese e della diffusione delle teorie eugenetiche che valorizzavano i fenotipi “bianchi”, all’inizio del novecento. Negli anni duemila le università brasiliane hanno istituito delle quote per gli studenti neri. “In quel contesto il punto era capire come definire la razza nera. I test genetici avevano perso molta credibilità dopo la scoperta che il genoma di un famoso ballerino nero di samba conteneva più del 60 per cento di geni europei”, racconta l’antropologa Sarah Abel. “Quei risultati sono stati usati per affermare che le quote nelle università non avevano motivo di esistere, perché non aveva senso parlare di razza in Brasile. Oppure che non serviva a niente avere il 60 per cento di geni europei se poi la polizia ti arrestava per il colore della tua pelle”. In Europa e negli Stati Uniti alcuni militanti di estrema destra, diventati esperti in genetica, non esitano a impadronirsi dei dati e dei risultati degli studi del settore per sostenere ideologie fondate sulla purezza delle origini e sull’esistenza di una profonda identità europea. Gli autori del sito Humanbiologicaldiversity.com hanno anche messo a punto un discorso molto elaborato per ridare credito alla realtà biologica della razza, basandosi paradossalmente sui lavori del genetista italiano Luca Cavalli-Sforza, pioniere degli studi genetici sulle origini geografiche (morto il 31 agosto 2018). Ma se l’impatto di queste strumentalizzazioni è difficile da valutare, le inquietudini sono comunque forti in un contesto dove le tensioni sull’identità sono un terreno fertile per i partiti populisti che minacciano le democrazie occidentali. “È importante ricordare la storia del razzismo scientiico per interrogarsi sulle ripercussioni sociali, politiche ed educative degli studi di genomica. Il mondo non è più quello dei tempi dell’antropologia isica, e anche le relazioni tra la scienza e la politica sono cambiate. Il problema di queste ricadute riguarda tutti noi, giornalisti, bioetici, genetisti, storici o semplici cittadini”, conclude Amos Morris-Reich.