internazionale 7.9.18
I demoni della razza
Di Catherine Mary, Le Monde, Francia
Secondo
il genetista David Reich le differenze biologiche tra le popolazioni ci
sono e hanno un peso. Una tesi che ha suscitato grande clamore
La
biologia può delimitare dei gruppi umani che giustificherebbero
l’esistenza delle razze nella specie umana? Negli anni settanta i
genetisti avevano dato una risposta definitiva a questa domanda: la
razza è una costruzione sociale senza nessun fondamento biologico. Si
liberavano così di una questione scottante, all’origine, nell’ottocento,
delle teorie che riempiono le pagine più brutte della storia della loro
disciplina. Ma David Reich, un rinomato genetista dell’università di
Harvard, negli Stati Uniti, ha pubblicato un libro, Who we are and how
we got here? (Chi siamo e come siamo arrivati in qui?), con cui soffia
sulle ceneri che si credevano spente. Reich denuncia “l’ortodossia” del
discorso sulla diversità genetica che si è imposto negli ultimi decenni e
che ha trasformato la razza in un argomento tabù. “Come dobbiamo
prepararci alla probabilità che nei prossimi anni gli studi genetici
mostrino che molti tratti sono influenzati da varianti genetiche e che
questi tratti sono diversi nelle popolazioni umane?”, si chiede Reich in
un articolo apparso a marzo sul quotidiano The New York Times.
“Affermare che non è possibile avere differenze significative tra le
popolazioni umane favorirà solo la strumentalizzazione razzista della
genetica che, giustamente, vogliamo evitare”, conclude lo scienziato.
Proprio quando la Francia propone di cancellare la parola “razza” dalla
sua costituzione, con un voto dei deputati il 27 giugno del 2018, la
discussione aperta da Reich ricorda che per molto tempo la genetica è
andata a braccetto con l’eugenetica, per poi pentirsene. E ricorda anche
che la pretesa della genetica di poter analizzare tutto o quasi può
portarla a ignorare i suoi limiti, un aspetto denunciato da molti
antropologi in risposta all’articolo del genetista statunitense.
Una costruzione sociale
Come
hanno fatto i genetisti a cancellare la nozione di razza dalla loro
disciplina? E perché oggi questa nozione ritorna nelle tesi di Reich, i
cui studi paradossalmente dimostrano che le popolazioni umane sono il
frutto di molti incroci? Per capirlo bisogna vedere come nella biologia
si è evoluto il concetto di razza dopo la tragedia della seconda guerra
mondiale. “In realtà la razza è più un mito sociale che un fenomeno
biologico. Questo mito ha causato un male immenso”, riconosceva nel 1950
la dichiarazione dell’Unesco sulla razza. Ma a quell’epoca la
maggioranza dei genetisti, tra cui il russo Theodosius Dobzhansky e il
britannico Ronald Fisher, pensavano ancora che da un punto di vista
biologico le razze umane esistessero. Avevano cominciato a ridefinirle
dagli anni trenta basandosi su alcuni caratteri, in particolare i gruppi
sanguigni, che consideravano più affidabili di quelli morfologici.
Avevano osservato che il gruppo 0 era presente nel 90 per cento dei
nativi americani, quindi pensavano di poter descrivere gruppi umani
omogenei e stabili. Tuttavia si erano resi conto che la particolarità di
questi popoli non rifletteva una purezza di razza, ma veniva dalla loro
storia, in quanto popolazione perseguitata e isolata. Né il colore
della pelle né il gruppo sanguigno sono espressione di un insieme di
varianti comuni a uno stesso gruppo umano. Le varianti tra gli esseri
umani sono al tempo stesso il risultato del loro adattamento
all’ambiente, come il clima o l’altitudine, e delle diverse origini
geografiche delle popolazioni. Appurato questo, alcuni genetisti, come
lo statunitense Richard Lewontin e il francese Albert Jacquard,
dichiararono che qualunque tentativo di classificare gli esseri umani in
categorie biologiche era il frutto di scelte arbitrarie, perché tutte
queste categorie si basano su una parte molto ridotta di varianti. Ci
sono più varianti tra due persone prese a caso in uno stesso gruppo
umano che tra due gruppi nel loro insieme. Da qui un cambiamento di
prospettiva, confermato dal sequenziamento del genoma umano negli anni
novanta. Infatti il sequenziamento rivelava che le varianti riguardano
solo una piccolissima parte del genoma umano, dell’ordine dello 0,1 per
cento. Di conseguenza in biologia si è imposto un discorso antirazzista
sulla diversità genetica, di cui oggi Reich denuncia “l’ortodossia”. “La
‘razza’ è una costruzione sociale. Noi genetisti non usiamo quasi mai
questo termine negli articoli scientifici perché allude troppo a
signiicati non scientiici. Inoltre, la sua deinizione cambia a seconda
dell’epoca e del luogo”, osserva Reich. Se nel suo articolo Reich usa la
parola razza tra virgolette è per mettere in guardia dal fatto che
l’attuale discorso scientiico rischia di aprire la porta a posizioni
settarie e a falsi esperti, che tra l’altro già ci sono. Mesi dopo aver
lanciato la polemica, Reich resta sulle sue posizioni: “Non accetto
l’idea secondo cui le diferenze biologiche medie tra due gruppi – per
esempio tra gli abitanti di Taiwan e quelli della Sardegna – sarebbero
così piccole da essere considerate prive di significato biologico e
quindi ignorate”, dice. “Da tempo questa è la linea di molti professori
universitari. Ma è un pensiero pericoloso, perché danneggia la
comprensione e la considerazione della diversità umana”. Categorie
arbitrarie “Le recenti scoperte in genetica hanno confermato che la
nozione di razza non ha nessun fondamento biologico”, replica la
genetista Évelyne Heyer del Museo nazionale di storia naturale di
Parigi. “Non ci sono limiti distinti tra i gruppi umani che permettano
di definire categorie ‘chiuse’. E caratteristiche come il colore della
pelle riguardano solo una piccolissima parte del genoma umano. Infine,
le differenze non giustificano l’esistenza di una gerarchia tra gli
esseri umani in base alle loro capacità”. La mostra Nous et les autres ,
organizzata al Museo dell’uomo di Parigi nel 2017 e curata da Heyer, si
basava su queste osservazioni per evidenziare la rottura della scienza
contemporanea con le derive razziste dell’ottocento e per lodare gli
studi sulla diversità biologica. Ma è proprio attraverso lo studio di
questa diversità che oggi riaffiora la questione della razza. Il motivo è
che il sequenziamento del genoma umano ha inaugurato vasti programmi di
ricerca incentrati su due campi: la genetica delle popolazioni e la
genetica medica. Nel primo i genetisti, contro il monopolio degli
studiosi di preistoria, di antropologia e di linguistica, cercano di
tracciare i grandi lussi migratori all’origine del popolamento della
Terra studiando le espressioni delle origini geografiche contenute nei
genomi. Le loro importanti scoperte permettono di riscrivere la storia
di popoli come i vichinghi, gli ebrei, i sardi o gli amerindi. Nel
secondo campo, i genetisti cercano delle predisposizioni genetiche in
grado di spiegare, in alcuni gruppi umani, la frequenza elevata di
malattie come i tumori, il diabete, l’obesità o la depressione. Gli
Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, l’Islanda o l’Estonia
finanziano progetti di genomica per realizzare una medicina
personalizzata, in grado di adattarsi a un particolare profilo genetico
in base al rischio di malattia a cui è associato. Da qui il paradosso:
come negare l’esistenza di categorie tra gli esseri umani e, allo stesso
tempo, individuare dei gruppi di popolazione in cui si studiano
determinate varianti genetiche? In che modo l’esistenza di questi gruppi
fluidi chiama in causa la nozione di razza, che affermava la presenza
di entità stabili e chiuse chiamate dai genetisti del passato
“categorie”? Queste classificazioni arbitrarie in biologia non hanno
forse delle basi politiche? “Dagli anni settanta c’è un’ambiguità nella
rottura con la nozione di razza da cui non siamo ancora usciti”, dice lo
storico Claude-Olivier Doron. “Si può affermare che le razze sono
categorie arbitrarie, che non valgono per una classificazione. Ma questo
non toglie che la diversità tra due categorie, per quanto minima, possa
servire per molti usi”. I gruppi delimitati dai genetisti sono anche il
frutto di una storia sociale e politica, di una cultura a cui, lo si
voglia o no, appartengono gli stessi scienziati. “Secondo i genetisti,
gli studi sulla genetica delle popolazioni non hanno nulla a che vedere
con quelli antropologici su cui è stata fondata la nozione di razza. Ma
anche se le tecniche, le discipline e gli interessi in gioco sono
cambiati, le grandi categorie di popolazioni su cui si basano questi
studi – come gli ebrei, gli africani o i vichinghi – rimangono
invariate”, sostiene lo storico Amos Morris-Reich dell’Università di
Haifa, in Israele. “Il contesto sociale e politico degli studi sul
genoma non è neutrale. Essere neri negli Stati Uniti non ha lo stesso
signiicato che esserlo in Brasile, e i risultati delle analisi genetiche
alimentano i dibattiti locali e possono essere strumentalizzati”,
sottolinea l’antropologa Sarah Abel dell’università di Reykjavík, una
delle firmatarie della risposta a Reich pubblicata sempre sul New York
Times. “Sono d’accordo con Reich sul fatto che non parlare di
determinate cose permette ad alcuni discorsi razzisti di svilupparsi e
difondersi, in particolare su internet”, dice Doron. “Inoltre è vero che
serve una guida precisa su quello che dicono e non dicono le conoscenze
genetiche”, continua. “Ma nell’articolo pubblicato sul New York Times
Reich si mostra incapace di deinire questi limiti. Confonde molte cose:
gruppi che si sono dichiarati tali o sono stati creati dall’ufficio del
censimento statunitense; gruppi costruiti ad hoc dai ricercatori per
esigenze di studio, vecchie categorie provenienti dai periodi coloniali.
Non si interroga mai sui limiti, sulle approssimazioni e sulle
interpretazioni della genetica”, aferma lo storico. Reich si basa sui
lavori del suo gruppo di ricerca, che ha identiicato nei genomi di
uomini afroamericani regioni che li predispongono al tumore alla
prostata. Di fronte a questo argomento, le reazioni degli specialisti in
scienze umane sono unanimi: “Nel valutare il rischio che una malattia
si sviluppi bisogna pensare a una complessità di fattori. Nel caso del
tumore alla prostata citato da Reich, si guarda sempre di più agli
effetti congiunti dei componenti chimici dell’ambiente, non si può
ridurre il rischio maggiore di questo tumore alla sua sola dimensione
genetica”, afferma Catherine Bourgain del Cermes 3, nel Centro nazionale
di ricerca scientifica di Parigi. Bourgain è molto critica verso i
modelli statistici usati da Reich, poco aidabili per valutare
l’influenza dei fattori ambientali che possono condizionare i risultati.
Del resto le popolazioni afroamericane, latine o native americane (su
cui si basano gli studi di ricerca biomedica negli Stati Uniti) sono le
più povere. Questo le espone ad ambienti e stili di vita (inquinamento,
stress o alcolismo) che favoriscono l’insorgenza di malattie per cui si
cercano predisposizioni genetiche. Nel 2004 la Food and drug
administration (Fda), l’agenzia statunitense che regolamenta gli
alimenti e i medicinali, ha approvato il BiDil, un farmaco per
correggere l’effetto di una mutazione che rende le persone afroamericane
più a rischio di infarto del miocardio. “Il problema su cui bisogna
insistere nel caso del BiDil, e non solo, è che occulta altre variabili,
per esempio quelle ambientali, che in alcuni casi sono molto più
importanti”, insiste Doron.
Pregiudizi
Inoltre, questi
studi potrebbero risvegliare di nuovo alcuni stereotipi radicati
nell’inconscio collettivo. Così un programma nazionale messicano mira a
sequenziare il genoma di diversi tipi di indigeni e meticci per studiare
le loro predisposizioni genetiche allo sviluppo precoce del diabete di
tipo 2 e dell’obesità. “La specificità del dibattito messicano è
rappresentata dagli incroci di popolazioni europee, afroamericane e
asiatiche, ma soprattutto tra diversi tipi di indigeni”, spiega lo
storico Luc Berlivet, del Cermes 3. “Nelle discussioni ricompaiono
stereotipi diversi da quelli sugli afroamericani o i popoli nativi del
Nordamerica. Non si tratta più di distinguere i bianchi dagli
afroamericani o dagli ispanici, ma di distinguere diversi tipi di
indigeni. Questo pone gli stessi interrogativi, ma in modo più sottile”,
dice. Un altro motivo di preoccupazione è la visione semplicistica del
concetto di identità prodotta dall’analisi genetica delle origini
geografiche. Ci sono aziende come 23andMe, Ancestry.com o MyHeritage che
promettono ai clienti di determinare le loro origini geografiche
attraverso l’analisi genetica. Diffusi senza precauzione, questi
risultati possono alimentare le tensioni locali sulle questioni
identitarie o rivelare gli stereotipi razzisti di una cultura, come è
successo in Brasile con i test del dna sulle origini africane.
Nonostante una storia nazionale che insiste sull’integrazione, in
Brasile i pregiudizi razzisti sono radicati a causa del passato
schiavista del paese e della diffusione delle teorie eugenetiche che
valorizzavano i fenotipi “bianchi”, all’inizio del novecento. Negli anni
duemila le università brasiliane hanno istituito delle quote per gli
studenti neri. “In quel contesto il punto era capire come definire la
razza nera. I test genetici avevano perso molta credibilità dopo la
scoperta che il genoma di un famoso ballerino nero di samba conteneva
più del 60 per cento di geni europei”, racconta l’antropologa Sarah
Abel. “Quei risultati sono stati usati per affermare che le quote nelle
università non avevano motivo di esistere, perché non aveva senso
parlare di razza in Brasile. Oppure che non serviva a niente avere il 60
per cento di geni europei se poi la polizia ti arrestava per il colore
della tua pelle”. In Europa e negli Stati Uniti alcuni militanti di
estrema destra, diventati esperti in genetica, non esitano a
impadronirsi dei dati e dei risultati degli studi del settore per
sostenere ideologie fondate sulla purezza delle origini e sull’esistenza
di una profonda identità europea. Gli autori del sito
Humanbiologicaldiversity.com hanno anche messo a punto un discorso molto
elaborato per ridare credito alla realtà biologica della razza,
basandosi paradossalmente sui lavori del genetista italiano Luca
Cavalli-Sforza, pioniere degli studi genetici sulle origini geografiche
(morto il 31 agosto 2018). Ma se l’impatto di queste strumentalizzazioni
è difficile da valutare, le inquietudini sono comunque forti in un
contesto dove le tensioni sull’identità sono un terreno fertile per i
partiti populisti che minacciano le democrazie occidentali. “È
importante ricordare la storia del razzismo scientiico per interrogarsi
sulle ripercussioni sociali, politiche ed educative degli studi di
genomica. Il mondo non è più quello dei tempi dell’antropologia isica, e
anche le relazioni tra la scienza e la politica sono cambiate. Il
problema di queste ricadute riguarda tutti noi, giornalisti, bioetici,
genetisti, storici o semplici cittadini”, conclude Amos Morris-Reich.