internazionale 7.9.18
Abigail Allwood
Altre forme di vita
È
un’astrobiologa e qualche anno fa ha trovato le più antiche tracce di
vita sulla Terra. Ora la Nasa spera che faccia la stessa cosa su Marte.
Sarà la prima donna a guidare una missione su quel pianeta di Laura
Parker, The Atlantic, Stati Uniti.
Dal 2003 al
2005, quando frequentava la facoltà di scienze della Terra
all’università di Macquarie, a Sydney, in Australia, Abigail Allwood
fece alcune scoperte importanti. Faceva ricerca sul campo nella regione
di Pilbara, dove le avevano assegnato l’incarico di studiare le
stromatoliti fossilizzate, strutture sedimentarie spesso prodotte da
organismi che sarebbero le prime forme di vita conosciute del pianeta.
La regione, una distesa desertica color ruggine di più di 500mila
chilometri quadrati piena di formazioni rocciose che risalgono a due
miliardi di anni fa, è più o meno quello che immaginiamo quando diciamo
che un posto si trova “ai confini del mondo”. Alcune sue parti sono
rimaste praticamente inviolate dagli esseri umani. Allwood ricorda
ancora il giorno in cui lei e Ian Burch, che all’epoca era un collega e
oggi è suo marito, camminarono per ore su una stretta cresta montuosa
lunga una quindicina di chilometri. “Sono sicura che eravamo le uniche
persone che passavano di lì da migliaia di anni”, mi ha detto. “Ricordo
che un quall settentrionale (un marsupiale australiano simile a un topo)
si è avvicinato a noi per guardarci meglio. Non aveva mai visto un
essere umano, quindi non aveva paura”. Ancora più sorprendenti della
fauna locale erano però le formazioni geologiche. Sembravano coni gelati
rovesciati, una configurazione tipica delle stromatoliti, che di solito
si formano nell’acqua poco profonda. La loro presenza faceva pensare
che quella parte del deserto un tempo fosse stata umida, forse una
barriera corallina. Poco tempo dopo Allwood capì che quelle rocce erano
la prova più antica della presenza di vita sulla Terra. All’epoca
all’interno della comunità scientifica era in corso un acceso dibattito
sull’origine delle prime forme di vita. Era stato da poco dimostrato che
gli ambienti idrotermali potevano produrre formazioni che somigliavano a
colonie di fossili di microbi pur non avendo mai ospitato esseri
viventi. Di conseguenza alcuni campioni che in precedenza erano stati
considerati come tracce delle prime forme di vita erano stati scartati.
Ed era cominciata la gara per trovare fossili che si fossero veramente
formati in un ambiente “fluviale” freddo e umido, che quasi sicuramente
potevano ospitare forme di vita. Allwood sapeva che quei fossili erano
antichi. Dall’analisi dei campioni risultava che avevano 3,45 miliardi
di anni. Ma sarebbe riuscita a dimostrare che si erano formati in un
ambiente umido ed erano di origine biologica? Dopo mesi di fotografie,
raccolte di campioni e misurazioni, si convinse che si erano formati in
un’antica barriera microbica in mezzo a un oceano. “La maggior parte
delle formazioni di fossili è un gran casino”, mi ha spiegato Allwood,
che spesso aianca alle sue osservazioni scientiiche qualche espressione
colorita. “C’è da aspettarselo da qualcosa che sta lì da tre miliardi e
mezzo di anni. Ma ci sono alcuni punti in cui le rocce non sono così
consumate. Ed è in quelle piccole inestre sul passato che si nasconde il
vero tesoro”.
Verso lo spazio
Le scoperte di Allwood
hanno dimostrato che sul nostro pianeta la vita è cominciata almeno 3,45
miliardi di anni fa. Le sue ricerche sono inite sulla copertina della
rivista Nature. Allwood ha anche attirato l’attenzione della Nasa, che
voleva scienziati di talento per trovare forme di vita nei luoghi più
remoti. E così ha inito per lavorare al Jet propulsion laboratory (Jpl)
in California, un laboratorio dedicato alla progettazione e alla
costruzione di sonde spaziali, dove oggi dirige la ricerca sul prossimo
rover da mandare su Marte. La sua missione consiste nel cercare segni di
vita extraterrestre. Gli scienziati sono tutti d’accordo che su Marte
potrebbe esserci stata vita. Come la Terra, il pianeta ha poco più di
4,5 miliardi di anni. E, sempre come la Terra, un tempo il suo clima è
stato caldo e umido, due condizioni ritenute indispensabili per la
nascita della vita. Ormai non è più né caldo né umido, naturalmente: la
sua atmosfera è stata erosa dai venti solari ed è diventata troppo
rarefatta per consentire la presenza di acqua allo stato liquido. Quando
esistevano i microbi studiati da Allwood, però, la Terra e Marte si
somigliavano. Se la vita ha attecchito sul nostro
pianeta perché
non avrebbe dovuto farlo su Marte? “La nascita degli organismi viventi
non è un evento raro e improbabile”, ha scritto Allwood su Nature nel
2016, riflettendo sulle condizioni iniziali della Terra e su quello che
ci potrebbero rivelare riguardo alla presenza di forme di vita da altre
parti. “Se dai alla natura una minima opportunità, la prenderà al volo”,
ha aggiunto la scienziata. La Nasa organizza missioni su Marte da più
di cinquant’anni, a partire da quella della navicella Mariner 4 (che nel
1965 fornì all’agenzia le prime foto ravvicinate del pianeta) ino ad
arrivare alle tre missioni con i rover degli ultimi ventun anni. Ma
anche se la ricerca di organismi viventi è sempre stata uno dei
principali obiettivi del programma – oltre a quello di deinire il clima e
la geologia del pianeta e di valutare la possibilità di esplorarlo –
inora non ne è stata trovata nessuna traccia. Ma ogni missione si è
avvicinata sempre di più all’obiettivo. Nel 2013, l’ultimo rover, il
Curiosity, è finito sui giornali per aver individuato alcuni dei
componenti fondamentali della vita – carbonio, idrogeno, azoto,
ossigeno, fosforo e zolfo – vicino a un antico corso d’acqua. Questa
scoperta ha spronato la missione successiva. Il nuovo rover, chiamato
provvisoriamente “Mars 2020”, sarà il primo a individuare possibili
campioni di roccia da analizzare, nella speranza che portino le tracce
di forme di vita passate. In una missione successiva questi campioni
saranno raccolti e portati sulla Terra. Ma quali campioni dovrebbero
essere scelti? Perfino sulla Terra è molto difficile trovare fossili che
hanno miliardi di anni. Considerato l’immenso costo e la difficoltà di
trasportare per decine di milioni di chilometri pezzi di roccia, anche
se piccolissimi, ogni campione dovrà essere esaminato attentamente in
anticipo per essere sicuri che valga la pena di portarlo sulla Terra.
Nel 2013 la Nasa ha annunciato una gara, aperta a tutta la comunità
scientifica, per stabilire quali strumenti dovrebbe avere a bordo il
Mars 2020. La concorrenza era feroce, ma Allwood, che all’epoca lavorava
già al Jpl, non si è lasciata sfuggire l’occasione. Rocce e raggi X
Abigail Allwood pensava già da tempo a uno strumento in grado di imitare
alcune metodologie che aveva usato per esaminare le stromatoliti in
Australia, ma in modo più veloce, più efficiente e da lontano. Lo
strumento con cui ha partecipato alla gara, che ha chiamato Pixl, si
serve dei raggi X per individuare gli elementi chimici che compongono un
campione di roccia, anche se piccolo come un granello di sale. Il Pixl
sarebbe molto più preciso di qualsiasi altro strumento inviato su Marte.
Inoltre sarebbe il primo a condurre un’analisi petrologica, cioè a
cercare di determinare le origini delle rocce studiandone la struttura e
la composizione. Grazie alle immagini inviate dai rover precedenti gli
scienziati sono riusciti a individuare varie caratteristiche geologiche
dei campioni, ma non sono stati in grado di capire di che cosa erano
fatti. Il Pixl, secondo Allwood, potrebbe analizzare la composizione
chimica anche dei campioni più piccoli ripresi dalle telecamere. Questo
“farebbe una grande differenza e potrebbe permetterci di scoprire di più
sul passato del pianeta”. Misurando la quantità e la distribuzione
spaziale di alcuni elementi speciici (per esempio la quantità di calcio
rispetto a quella di ferro), il Pixl permetterebbe di dedurre il
contesto in cui una roccia si è formata. Era vulcanica o sedimentaria?
Faceva parte di un fiume, di un delta o di un oceano? La presenza di
questi elementi, la loro distribuzione e la proporzione tra di loro
potrebbero anche aiutare a capire se quando la roccia si è formata
c’erano dei microbi. Usando tutte queste informazioni, la Nasa sarebbe
in grado di stimare la probabilità che un campione contenga microbi
fossili e decidere se riportarlo sulla Terra per altre analisi. Nel 2014
la Nasa ha annunciato che il Pixl sarebbe stato uno dei sette strumenti
a bordo del Mars 2020, e ha nominato Abigail Allwood ricercatrice capo
di una parte della missione. È la prima volta che una donna ricopre una
carica simile in una missione su Marte. A novembre Allwood mi ha
accompagnato a visitare i suoi laboratori, dove stava assemblando un
modello perfettamente funzionante del Pixl da sottoporre a test prima di
costruire quello vero. Il campus del Jpl in California, che si trova
tra Pasadena e La Cañada Flintridge e dà lavoro a circa seimila persone,
sembra più una vecchia scuola superiore che un laboratorio di alta
tecnologia: pavimenti di linoleum, porte azzurre, molto beige. Allwood
perciò ha deciso di rendere più allegro il suo ufficio con dei quadri
colorati e con un’antica poltrona comprata su eBay. “Molto meglio delle
sedie standard del Jpl”, dice indicandone una di plastica nera
abbandonata in un angolo. Il cosmo in televisione Mentre bevevo un caffè
veramente terribile comprato da un chiosco nel cortile (Allwood
saggiamente l’ha rifiutato), la planetologa mi ha raccontato dei suoi
studi a Brisbane, una città conosciuta più per le spiagge che per le
istituzioni accademiche. Delusa dalle lezioni di scienza a scuola, aveva
rivolto la sua attenzione ai divulgatori David Attenborough e Carl
Sagan. Ricorda di aver scoperto la missione Voyager per studiare Giove,
Saturno, Urano e Nettuno in una puntata di Cosmos di Sagan e, poi, di
aver visto in televisione un’intervista a Carolyn Porco, una scienziata
che aveva collaborato alla missione negli anni ottanta. “Raccontava che
una notte era sola nel suo ufficio e improvvisamente aveva visto le
prime immagini ravvicinate di Saturno inviate dal Voyager”, mi ha detto
con il solito tono rilassato e gli occhi azzurro pallido che fissavano i
miei. “Aveva avuto la sensazione di esplorare le frontiere del sistema
solare, e io ho pensato tra me e me: ‘Che cosa meravigliosa dev’essere’”
. Una volta arrivata al college Allwood ha cercato di laurearsi in
fisica, ma ha avuto difficoltà con la matematica e si è arresa. In
seguito si era iscritta di nuovo e a 28 anni si era laureata in scienze
della Terra. Ha proseguito con il dottorato, lavorando con Malcolm
Walter, il fondatore dell’Australian centre for astrobiology, che
all’epoca aveva sede all’Università di Macquarie. L’astrobiologia è la
scienza che studia l’origine della vita e la sua evoluzione
nell’universo. Gli scienziati australiani sono da tempo all’avanguardia
in questo campo perché i deserti relativamente inviolati del loro
continente sono perfetti per capire come si è formata la vita sulla
Terra (la Nasa definisce regioni come il Pilbara “controigure” di
Marte). Il lavoro condotto con Walter avrebbe portato Allwood non solo
allo studio delle stromatoliti ma anche a pensare oltre i confini della
Terra. Dopo aver rinunciato al caffè, sono scesa con lei al piano di
sotto, dove si trovava il laboratorio principale del Pixl, una stanza
nello stesso edificio del suo studio. In un angolo, su un tavolo da
lavoro erano ammucchiati cavi e piccoli motori. In un altro c’era una
macchina per i raggi X chiusa in una scatola di plexiglass presa da un
vecchio strumento del Curiosity. Probabilmente il Pixl sarà il
macchinario più complicato a bordo del Mars 2020, ma non tutta la
tecnologia che impiega è nuova. Per analizzare le stromatoliti, Allwood
aveva usato una tecnologia simile, chiamata microxrf, che ricorre alla
fluorescenza dei raggi X per stabilire la composizione chimica di un
materiale (quando è esposto ai raggi X, un atomo di potassio si comporta
in modo diverso, per esempio, da un atomo di oro, e questo rende facile
distinguere tra loro gli elementi). All’epoca i microxrf erano usati
soprattutto in archeologia e nel restauro di opere d’arte. In
precedenza, il modello preso da All wood per le stromatoliti aveva
analizzato i pigmenti di un antico manoscritto nepalese. Adattare quella
tecnologia per Marte ha creato non pochi problemi. La macchina in
origine era larga una sessantina di centimetri e pesava circa 270 chili.
Per far entrare il Pixl nel Mars 2020, ha dovuto ridurla più o meno
alle dimensioni di una console per videogiochi Nintendo GameCube. Il
Pixl sarà montato su un braccio del rover. Questo vuol dire che dovrà
affrontare i forti sbalzi di temperatura di Marte. Solo per riscaldarlo
bisognerà usare una percentuale significativa dell’energia disponibile.
Su Marte lavorerà insieme ad altri strumenti, tra cui lo Sherloc (sigla
che sta per Scanning habitable environments with raman and luminescence
for organics and chemicals) che sarà sempre montato sul braccio del
rover. Mentre il Pixl si concentrerà sull’individuazione degli elementi
chimici, lo Sherloc cercherà il carbonio eventualmente lasciato da forme
di vita. Se insieme troveranno qualcosa che vale la pena di essere
esaminato, Allwood e i suoi colleghi del Jpl avranno solo cinque minuti
per leggere i dati in arrivo e dire al rover se guardare meglio o
procedere. Tuttavia da lontano gli strumenti non potranno fare molto.
Anche se dovrebbe essere in grado di fare delle buone ipotesi, il Pixl
non potrà stabilire con sicurezza se una roccia contiene tracce di vita
passata. Se un tipo di roccia dovesse sembrare promettente, il braccio
del rover scaverà un campione di pochi centimetri, lo sigillerà in una
provetta e la metterà da parte. Il resto dovranno farlo i potenti
strumenti del laboratorio che sono sulla Terra. Ultimi ritocchi Prima di
lasciare il Jpl ho chiesto ad Allwood se potevo vedere il posto dove i
tecnici costruiranno il Mars 2020. I suoi occhi si sono illuminati:
“Vuole vederlo davvero? Andiamo”. Ci siamo avviate verso il centro di
assemblaggio, un grande hangar ai limiti del campus. Non abbiamo potuto
entrare nella zona di montaggio, perché prima bisogna essere sottoposti a
un rigoroso processo di decontaminazione che implica anche l’obbligo di
indossare un bunny suit, una tuta sterile che serve a proteggere il
rover da qualsiasi contaminazione umana. Se il suo scopo principale è
cercare tracce di vita su un altro pianeta, bisogna stare attenti a non
lasciare inavvertitamente materiale biologico a bordo. Allwood mi ha
portato su una specie di balconata che si affaccia sulla zona di
assemblaggio degli strumenti che dovranno portare il rover a
destinazione. Qualche minuto dopo è entrato un gruppo di studenti.
“Adesso non potete vedere il rover completo”, diceva la guida ai
ragazzi, alcuni stavano già con il naso appicciato al vetro.
“Cominceremo a montarlo tra sei mesi”, ha aggiunto la guida. Accanto a
me, Allwood ha sorriso. “Non vedo l’ora”, ha bisbigliato. Il suo tono
era controllato, ma quando l’ho guardata stava leggermente saltellando.