martedì 11 settembre 2018

internazionale 7.9.18
Abigail Allwood
Altre forme di vita
È un’astrobiologa e qualche anno fa ha trovato le più antiche tracce di vita sulla Terra. Ora la Nasa spera che faccia la stessa cosa su Marte. Sarà la prima donna a guidare una missione su quel pianeta di Laura Parker, The Atlantic, Stati Uniti.


Dal 2003 al 2005, quando frequentava la facoltà di scienze della Terra all’università di Macquarie, a Sydney, in Australia, Abigail Allwood fece alcune scoperte importanti. Faceva ricerca sul campo nella regione di Pilbara, dove le avevano assegnato l’incarico di studiare le stromatoliti fossilizzate, strutture sedimentarie spesso prodotte da organismi che sarebbero le prime forme di vita conosciute del pianeta. La regione, una distesa desertica color ruggine di più di 500mila chilometri quadrati piena di formazioni rocciose che risalgono a due miliardi di anni fa, è più o meno quello che immaginiamo quando diciamo che un posto si trova “ai confini del mondo”. Alcune sue parti sono rimaste praticamente inviolate dagli esseri umani. Allwood ricorda ancora il giorno in cui lei e Ian Burch, che all’epoca era un collega e oggi è suo marito, camminarono per ore su una stretta cresta montuosa lunga una quindicina di chilometri. “Sono sicura che eravamo le uniche persone che passavano di lì da migliaia di anni”, mi ha detto. “Ricordo che un quall settentrionale (un marsupiale australiano simile a un topo) si è avvicinato a noi per guardarci meglio. Non aveva mai visto un essere umano, quindi non aveva paura”. Ancora più sorprendenti della fauna locale erano però le formazioni geologiche. Sembravano coni gelati rovesciati, una configurazione tipica delle stromatoliti, che di solito si formano nell’acqua poco profonda. La loro presenza faceva pensare che quella parte del deserto un tempo fosse stata umida, forse una barriera corallina. Poco tempo dopo Allwood capì che quelle rocce erano la prova più antica della presenza di vita sulla Terra. All’epoca all’interno della comunità scientifica era in corso un acceso dibattito sull’origine delle prime forme di vita. Era stato da poco dimostrato che gli ambienti idrotermali potevano produrre formazioni che somigliavano a colonie di fossili di microbi pur non avendo mai ospitato esseri viventi. Di conseguenza alcuni campioni che in precedenza erano stati considerati come tracce delle prime forme di vita erano stati scartati. Ed era cominciata la gara per trovare fossili che si fossero veramente formati in un ambiente “fluviale” freddo e umido, che quasi sicuramente potevano ospitare forme di vita. Allwood sapeva che quei fossili erano antichi. Dall’analisi dei campioni risultava che avevano 3,45 miliardi di anni. Ma sarebbe riuscita a dimostrare che si erano formati in un ambiente umido ed erano di origine biologica? Dopo mesi di fotografie, raccolte di campioni e misurazioni, si convinse che si erano formati in un’antica barriera microbica in mezzo a un oceano. “La maggior parte delle formazioni di fossili è un gran casino”, mi ha spiegato Allwood, che spesso aianca alle sue osservazioni scientiiche qualche espressione colorita. “C’è da aspettarselo da qualcosa che sta lì da tre miliardi e mezzo di anni. Ma ci sono alcuni punti in cui le rocce non sono così consumate. Ed è in quelle piccole inestre sul passato che si nasconde il vero tesoro”.
Verso lo spazio
Le scoperte di Allwood hanno dimostrato che sul nostro pianeta la vita è cominciata almeno 3,45 miliardi di anni fa. Le sue ricerche sono inite sulla copertina della rivista Nature. Allwood ha anche attirato l’attenzione della Nasa, che voleva scienziati di talento per trovare forme di vita nei luoghi più remoti. E così ha inito per lavorare al Jet propulsion laboratory (Jpl) in California, un laboratorio dedicato alla progettazione e alla costruzione di sonde spaziali, dove oggi dirige la ricerca sul prossimo rover da mandare su Marte. La sua missione consiste nel cercare segni di vita extraterrestre. Gli scienziati sono tutti d’accordo che su Marte potrebbe esserci stata vita. Come la Terra, il pianeta ha poco più di 4,5 miliardi di anni. E, sempre come la Terra, un tempo il suo clima è stato caldo e umido, due condizioni ritenute indispensabili per la nascita della vita. Ormai non è più né caldo né umido, naturalmente: la sua atmosfera è stata erosa dai venti solari ed è diventata troppo rarefatta per consentire la presenza di acqua allo stato liquido. Quando esistevano i microbi studiati da Allwood, però, la Terra e Marte si somigliavano. Se la vita ha attecchito sul nostro
pianeta perché non avrebbe dovuto farlo su Marte? “La nascita degli organismi viventi non è un evento raro e improbabile”, ha scritto Allwood su Nature nel 2016, riflettendo sulle condizioni iniziali della Terra e su quello che ci potrebbero rivelare riguardo alla presenza di forme di vita da altre parti. “Se dai alla natura una minima opportunità, la prenderà al volo”, ha aggiunto la scienziata. La Nasa organizza missioni su Marte da più di cinquant’anni, a partire da quella della navicella Mariner 4 (che nel 1965 fornì all’agenzia le prime foto ravvicinate del pianeta) ino ad arrivare alle tre missioni con i rover degli ultimi ventun anni. Ma anche se la ricerca di organismi viventi è sempre stata uno dei principali obiettivi del programma – oltre a quello di deinire il clima e la geologia del pianeta e di valutare la possibilità di esplorarlo – inora non ne è stata trovata nessuna traccia. Ma ogni missione si è avvicinata sempre di più all’obiettivo. Nel 2013, l’ultimo rover, il Curiosity, è finito sui giornali per aver individuato alcuni dei componenti fondamentali della vita – carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo e zolfo – vicino a un antico corso d’acqua. Questa scoperta ha spronato la missione successiva. Il nuovo rover, chiamato provvisoriamente “Mars 2020”, sarà il primo a individuare possibili campioni di roccia da analizzare, nella speranza che portino le tracce di forme di vita passate. In una missione successiva questi campioni saranno raccolti e portati sulla Terra. Ma quali campioni dovrebbero essere scelti? Perfino sulla Terra è molto difficile trovare fossili che hanno miliardi di anni. Considerato l’immenso costo e la difficoltà di trasportare per decine di milioni di chilometri pezzi di roccia, anche se piccolissimi, ogni campione dovrà essere esaminato attentamente in anticipo per essere sicuri che valga la pena di portarlo sulla Terra. Nel 2013 la Nasa ha annunciato una gara, aperta a tutta la comunità scientifica, per stabilire quali strumenti dovrebbe avere a bordo il Mars 2020. La concorrenza era feroce, ma Allwood, che all’epoca lavorava già al Jpl, non si è lasciata sfuggire l’occasione. Rocce e raggi X Abigail Allwood pensava già da tempo a uno strumento in grado di imitare alcune metodologie che aveva usato per esaminare le stromatoliti in Australia, ma in modo più veloce, più efficiente e da lontano. Lo strumento con cui ha partecipato alla gara, che ha chiamato Pixl, si serve dei raggi X per individuare gli elementi chimici che compongono un campione di roccia, anche se piccolo come un granello di sale. Il Pixl sarebbe molto più preciso di qualsiasi altro strumento inviato su Marte. Inoltre sarebbe il primo a condurre un’analisi petrologica, cioè a cercare di determinare le origini delle rocce studiandone la struttura e la composizione. Grazie alle immagini inviate dai rover precedenti gli scienziati sono riusciti a individuare varie caratteristiche geologiche dei campioni, ma non sono stati in grado di capire di che cosa erano fatti. Il Pixl, secondo Allwood, potrebbe analizzare la composizione chimica anche dei campioni più piccoli ripresi dalle telecamere. Questo “farebbe una grande differenza e potrebbe permetterci di scoprire di più sul passato del pianeta”. Misurando la quantità e la distribuzione spaziale di alcuni elementi speciici (per esempio la quantità di calcio rispetto a quella di ferro), il Pixl permetterebbe di dedurre il contesto in cui una roccia si è formata. Era vulcanica o sedimentaria? Faceva parte di un fiume, di un delta o di un oceano? La presenza di questi elementi, la loro distribuzione e la proporzione tra di loro potrebbero anche aiutare a capire se quando la roccia si è formata c’erano dei microbi. Usando tutte queste informazioni, la Nasa sarebbe in grado di stimare la probabilità che un campione contenga microbi fossili e decidere se riportarlo sulla Terra per altre analisi. Nel 2014 la Nasa ha annunciato che il Pixl sarebbe stato uno dei sette strumenti a bordo del Mars 2020, e ha nominato Abigail Allwood ricercatrice capo di una parte della missione. È la prima volta che una donna ricopre una carica simile in una missione su Marte. A novembre Allwood mi ha accompagnato a visitare i suoi laboratori, dove stava assemblando un modello perfettamente funzionante del Pixl da sottoporre a test prima di costruire quello vero. Il campus del Jpl in California, che si trova tra Pasadena e La Cañada Flintridge e dà lavoro a circa seimila persone, sembra più una vecchia scuola superiore che un laboratorio di alta tecnologia: pavimenti di linoleum, porte azzurre, molto beige. Allwood perciò ha deciso di rendere più allegro il suo ufficio con dei quadri colorati e con un’antica poltrona comprata su eBay. “Molto meglio delle sedie standard del Jpl”, dice indicandone una di plastica nera abbandonata in un angolo. Il cosmo in televisione Mentre bevevo un caffè veramente terribile comprato da un chiosco nel cortile (Allwood saggiamente l’ha rifiutato), la planetologa mi ha raccontato dei suoi studi a Brisbane, una città conosciuta più per le spiagge che per le istituzioni accademiche. Delusa dalle lezioni di scienza a scuola, aveva rivolto la sua attenzione ai divulgatori David Attenborough e Carl Sagan. Ricorda di aver scoperto la missione Voyager per studiare Giove, Saturno, Urano e Nettuno in una puntata di Cosmos di Sagan e, poi, di aver visto in televisione un’intervista a Carolyn Porco, una scienziata che aveva collaborato alla missione negli anni ottanta. “Raccontava che una notte era sola nel suo ufficio e improvvisamente aveva visto le prime immagini ravvicinate di Saturno inviate dal Voyager”, mi ha detto con il solito tono rilassato e gli occhi azzurro pallido che fissavano i miei. “Aveva avuto la sensazione di esplorare le frontiere del sistema solare, e io ho pensato tra me e me: ‘Che cosa meravigliosa dev’essere’” . Una volta arrivata al college Allwood ha cercato di laurearsi in fisica, ma ha avuto difficoltà con la matematica e si è arresa. In seguito si era iscritta di nuovo e a 28 anni si era laureata in scienze della Terra. Ha proseguito con il dottorato, lavorando con Malcolm Walter, il fondatore dell’Australian centre for astrobiology, che all’epoca aveva sede all’Università di Macquarie. L’astrobiologia è la scienza che studia l’origine della vita e la sua evoluzione nell’universo. Gli scienziati australiani sono da tempo all’avanguardia in questo campo perché i deserti relativamente inviolati del loro continente sono perfetti per capire come si è formata la vita sulla Terra (la Nasa definisce regioni come il Pilbara “controigure” di Marte). Il lavoro condotto con Walter avrebbe portato Allwood non solo allo studio delle stromatoliti ma anche a pensare oltre i confini della Terra. Dopo aver rinunciato al caffè, sono scesa con lei al piano di sotto, dove si trovava il laboratorio principale del Pixl, una stanza nello stesso edificio del suo studio. In un angolo, su un tavolo da lavoro erano ammucchiati cavi e piccoli motori. In un altro c’era una macchina per i raggi X chiusa in una scatola di plexiglass presa da un vecchio strumento del Curiosity. Probabilmente il Pixl sarà il macchinario più complicato a bordo del Mars 2020, ma non tutta la tecnologia che impiega è nuova. Per analizzare le stromatoliti, Allwood aveva usato una tecnologia simile, chiamata micro­xrf, che ricorre alla fluorescenza dei raggi X per stabilire la composizione chimica di un materiale (quando è esposto ai raggi X, un atomo di potassio si comporta in modo diverso, per esempio, da un atomo di oro, e questo rende facile distinguere tra loro gli elementi). All’epoca i micro­xrf erano usati soprattutto in archeologia e nel restauro di opere d’arte. In precedenza, il modello preso da All wood per le stromatoliti aveva analizzato i pigmenti di un antico manoscritto nepalese. Adattare quella tecnologia per Marte ha creato non pochi problemi. La macchina in origine era larga una sessantina di centimetri e pesava circa 270 chili. Per far entrare il Pixl nel Mars 2020, ha dovuto ridurla più o meno alle dimensioni di una console per videogiochi Nintendo GameCube. Il Pixl sarà montato su un braccio del rover. Questo vuol dire che dovrà affrontare i forti sbalzi di temperatura di Marte. Solo per riscaldarlo bisognerà usare una percentuale significativa dell’energia disponibile. Su Marte lavorerà insieme ad altri strumenti, tra cui lo Sherloc (sigla che sta per Scanning habitable environments with raman and luminescence for organics and chemicals) che sarà sempre montato sul braccio del rover. Mentre il Pixl si concentrerà sull’individuazione degli elementi chimici, lo Sherloc cercherà il carbonio eventualmente lasciato da forme di vita. Se insieme troveranno qualcosa che vale la pena di essere esaminato, Allwood e i suoi colleghi del Jpl avranno solo cinque minuti per leggere i dati in arrivo e dire al rover se guardare meglio o procedere. Tuttavia da lontano gli strumenti non potranno fare molto. Anche se dovrebbe essere in grado di fare delle buone ipotesi, il Pixl non potrà stabilire con sicurezza se una roccia contiene tracce di vita passata. Se un tipo di roccia dovesse sembrare promettente, il braccio del rover scaverà un campione di pochi centimetri, lo sigillerà in una provetta e la metterà da parte. Il resto dovranno farlo i potenti strumenti del laboratorio che sono sulla Terra. Ultimi ritocchi Prima di lasciare il Jpl ho chiesto ad Allwood se potevo vedere il posto dove i tecnici costruiranno il Mars 2020. I suoi occhi si sono illuminati: “Vuole vederlo davvero? Andiamo”. Ci siamo avviate verso il centro di assemblaggio, un grande hangar ai limiti del campus. Non abbiamo potuto entrare nella zona di montaggio, perché prima bisogna essere sottoposti a un rigoroso processo di decontaminazione che implica anche l’obbligo di indossare un bunny suit, una tuta sterile che serve a proteggere il rover da qualsiasi contaminazione umana. Se il suo scopo principale è cercare tracce di vita su un altro pianeta, bisogna stare attenti a non lasciare inavvertitamente materiale biologico a bordo. Allwood mi ha portato su una specie di balconata che si affaccia sulla zona di assemblaggio degli strumenti che dovranno portare il rover a destinazione. Qualche minuto dopo è entrato un gruppo di studenti. “Adesso non potete vedere il rover completo”, diceva la guida ai ragazzi, alcuni stavano già con il naso appicciato al vetro. “Cominceremo a montarlo tra sei mesi”, ha aggiunto la guida. Accanto a me, Allwood ha sorriso. “Non vedo l’ora”, ha bisbigliato. Il suo tono era controllato, ma quando l’ho guardata stava leggermente saltellando.