Il Sole Domenica 9.9.18
Il Piano Marshall. Senza la
ricostruzione economica e il ritorno a istituzioni democratiche in
Europa, sarebbero state pregiudicate sicurezza e pace globali. Oggi
impera l’«America First»
Stabilità versus populismi
di Alberto Quadrio Curzio
In
questa opera Steil, oltre a mostrare una originale prospettiva per
l’interpretazione degli eventi della guerra fredda, consente di meglio
comprendere il processo che ha condotto all’attuale stato delle
relazioni economiche internazionali. In particolare quelle che stanno
alla base della stessa Unione europea, nei confronti della quale gli
Stati Uniti si sono spesi nel dopoguerra. Il Piano Marshall è infatti
solo una parte che si inserisce nelle coerenti azioni intraprese dagli
Stati Uniti nell’immediato dopoguerra per stabilire una struttura di
cooperazione internazionale al fine di evitare il catastrofico
fallimento dei tentativi di accordi economici e di sicurezza degli anni
tra le due guerre mondiali.
Si trattò dunque di una scelta, quella
di allora, di portata epocale che, aggiungiamo noi, viene messa ora a
rischio dalla visione ottusa ed egocentrica del presidente Trump, che
vuole riscrivere la storia senza conoscerla. Per dimostrarlo procediamo
con ordine con una declinazione su tre punti.
Il primo è che
rompendo con la tendenza isolazionista di altre amministrazioni
presidenziali Truman si assunse la responsabilità (e il merito) storica
degli Stati Uniti nella promozione della cooperazione internazionale
patrocinando la fondazione, tra il 1945 e il 1949, di istituzioni
internazionali quali le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale
e la Banca mondiale nell’ambito degli accordi di Bretton Woods, e poi
la creazione della Nato. Il secondo è che a fondamento del Piano
Marshall vi è stata una visione strategica calata nel pragmatismo sia
per le relazioni internazionali che per l’economia e la sicurezza
nazionale statunitense: la ricostruzione e la ripresa delle economie
europee prostrate dal secondo conflitto mondiale. All’Università di
Harvard il 5 giugno 1947, il segretario di Stato, George C. Marshall,
aveva argomentato che, senza una rapida ricostruzione economica e il
ristabilimento di istituzioni liberal-democratiche nei Paesi europei,
non sarebbe stato possibile ritornare alla stabilità politica, alla
sicurezza e alla pace a livello mondiale. I popoli europei avrebbero
potuto cadere sotto l’influenza del populismo e dell’autoritarismo con
implicazioni anche sulla sicurezza nazionale ed economica degli stessi
Stati Uniti, che sarebbero stati costretti a massicci aumenti delle
spese per la difesa e ad un crescente controllo nell’economia dello
Stato. Senza dimenticare il sentimento anti-comunista, Steil dimostra
come il piano di aiuto economico quadriennale (1948-1952) ai Paesi
europei fatto da Marshall sia stata la manifestazione di un’alleanza
bipartisan nel Congresso, ove svolse un ruolo fondamentale il presidente
della Commissione per le relazioni estere del Senato, Arthur
Vandenberg, senatore repubblicano attestato su posizioni a favore
dell’isolazionismo fino al 1941. Il Piano ebbe anche il sostegno delle
principali categorie produttive statunitensi – pur nella consapevolezza
dei costi che avrebbero dovuto sostenere nell’immediato per la crescente
cooperazione economica verso i Paesi riceventi gli aiuti.
Il
terzo punto è che, oltre l’aiuto economico, componenti fondamentali per
la ripresa e l’avvio della collaborazione economica tra i Paesi europei
sono state la stabilità e la sicurezza garantite dalla creazione della
Nato nel 1949. L’organizzazione, che avrebbe poi nel tempo consolidato
la partnership transatlantica nel settore della difesa, ha consentito ai
Paesi europei di proseguire nella ricostruzione economica e
nell’integrazione delle loro economie senza i timori di
destabilizzazioni generate da conflitti ai confini dell’Europa
occidentale. Per concludere, il confronto con il presente «trumpiano» è
sconfortante.
Lo stesso Steil, che pure si astiene dal fare
confronti con l’attuale indirizzo della politica estera
dell’amministrazione di Donald J. Trump, l’ha espresso sia
esplicitamente nelle presentazioni del libro, sia implicitamente, a
nostro avviso, nell’enunciazione in quest’opera di un «paradigma storico
e attuale» per il presente e il futuro circa il ruolo degli Stati Uniti
nelle relazioni internazionali.
Lo slogan America First,
proclamato da Trump al suo insediamento nel gennaio 2017 e tradotto nel
programma della sua amministrazione del marzo dello stesso anno (America
First. A Budget Blueprint to Make America Great Again), prevede
nell’ambito della politica estera la revisione o la rinegoziazione o la
disdetta delle alleanze e dei patti, sia commerciali che di difesa, per
affermare la priorità degli interessi degli americani. Su questa base
Trump ha adottato una serie di decisioni che hanno marcato una
drammatica discontinuità nelle relazioni politiche, economiche e di
difesa americane con i tradizionali partner e non solo. E cioè, uscita
dall’accordo di Parigi sul clima nel giugno 2017; denuncia dell’accordo
internazionale sul nucleare con l’Iran nel maggio 2018; dichiarazioni
sulla necessità di revisione del nafta; introduzione di tariffe e dazi
per alcuni prodotti negli scambi commerciali con Cina e Unione europea,
che prelude a conseguenze gravi anche per gli Usa.
L’esperienza
del Piano Marshall ha insegnato l’importanza e i benefici della
costruzione di relazioni di alleanza per gli Stati Uniti, per il
mantenimento della stabilità politica ed economica sia interna che nelle
relazioni con gli altri Paesi. La storia postbellica ha dimostrato come
sia vitale che i Paesi siano alleati dentro un quadro
giuridico-istituzionale chiaro, piuttosto che vassalli o tributari o
controparti minacciate. Diversamente dalle alleanze che la Russia/Unione
Sovietica aveva costruito con i Paesi comunisti dell’Europa orientale
che sono collassate definitivamente con il crollo del muro di Berlino,
quelle patrocinate dall’America nel dopoguerra sono state fino ad oggi
solide così come strategiche si sono rivelate le istituzioni dell’Unione
europea, alle cui origini si può collocare la collaborazione tra i
Paesi europei per l’utilizzo delle risorse del Piano Marshall.
La
nostra conclusione è che l’America First di Trump non cambierà in meglio
il corso della storia postbellica che gli Stati Uniti hanno contribuito
a costruire, ma scasserà un sistema che, pur con le sue mancanze, ha
evitato il rinascere dei nazionalismi e ha dato ottimi risultati nelle
relazioni internazionali. La «corsa» di ciascun Paese alla ricerca del
miglior accordo che risponda ai presunti interessi nazionali è infatti
illusoria perché la cornice di qualsiasi azione politica ed economica è
oggi necessariamente quella globale, e sempre più ridotto è il potere
relativo di qualsiasi Stato (anche degli Stati Uniti) di incidere
singolarmente, sia a livello economico che politico. Il principio di
favorire l’interesse nazionale secondo i modi dell’amministrazione
americana rischia dunque di essere fallimentare e costoso proprio nel
perseguimento di quell’interesse nazionale che si intende difendere. Ed
infine sarà dannoso in quanto stimolerà altri nazionalismi e populismi,
come purtroppo la storia ci ha già insegnato.
Questo testo è tratto dalla prefazione di Alberto Quadrio Curzio al libro
di Benn Steil, in questi giorni in libreria
Benn Steil Il piano Marshall. Alle origini della guerra fredda
Traduzione di Ada Becchi. Donzelli, Roma, pagg. 550, € 38