Il Sole Domenica 9.9.18
Oltre il mito. Giulio Guidorizzi riscrive la vita di Odisseo e squarcia la classica tela narrativa fatta di tempeste, ciclopi, sirene e perfide maghe. L’avventuriero è raccontato «da fuori», visto dai comprimari dell’epica vicenda
Ulisse, ora sappiamo chi sei
di Piero Boitani
L’imperatore Adriano, pare, domandò una volta all’oracolo di Delfi quale fosse l’origine di Omero e di chi fosse figlio. La Pizia rispose con un vaticinio in esametri che diceva: «Sconosciuta è la stirpe e la patria che mi domandi / della divina sirena. Ma sua sede è Itaca, / Telemaco il padre ed Epicaste di Nestore figlia / la madre, che lo generò tra i mortali di gran lunga in tutto sapiente (pánsophon)». Ulisse, secondo questi quattro versi, sarebbe insomma il nonno di Omero, Omero il nipote di Ulisse «onnisapiente». Ne deriverebbe, dopo l’uscita di questo libro, che Giulio Guidorizzi, in quanto discendente di Omero, è (n volte) pronipote di Ulisse. È divertente immaginarlo. Senonché Guidorizzi stesso dedica il libro a suo figlio … Ulisse. E allora tra nonni, padri e figli non si capisce più nulla, e sembra di trovarsi in un racconto di Borges come L’immortale, che proprio di Omero e Ulisse tratta.
L’apologo, però, contiene un nocciolo di verità. In primo luogo perché Giulio Guidorizzi ha già pubblicato Io, Agamennone (Einaudi, 2016: Sfidare Apollo, splendida follia, «Domenica» dell'8 maggio 2016), e sta per pubblicare Il grande racconto della guerra di Troia (Il Mulino). Con quest’ultimo verrà così a comporsi una (prima?) trilogia mitica che forse anche l’antenato di Guidorizzi, Omero, avrebbe invidiato. In secondo luogo, perché Guidorizzi condivide col padre o con il figlio, Ulisse, la straordinaria abilità di narrare. Quella che incanta i Feaci quando lo straniero che si è appena rivelato comincia a raccontare le sue avventure: «Troia era caduta per l’astuzia di quell’uomo che stava insieme a loro, questo era vero, lo dicevano tutti. Ma molto meglio che ascoltare i racconti del cantore era sentire le parole dello straniero; e vederlo mentre parlava e si guardava intorno con i suoi occhi acuminati come una spada. Nessuno fiatava, le loro menti erano prese in una rete. Le parole uscivano dalla bocca dello straniero come da una cascata; sapeva raccontare, sapeva alternare i silenzi con le parole e la sua voce era bellissima». Parola di Nausicaa. Le tue storie le racconti come uno che sa, come un aedo, dice il padre, il re dei Feaci Alcinoo, a Ulisse, nell’Odissea.
Nessuno può resistergli, quando racconta: non Circe, non Calipso, che devono aver trascorso parte degli otto anni ad Eea e a Ogigia stando a sentirlo; non Eumeo, non Penelope. E neppure, nei tremila anni che ci separano da lui, un Virgilio, un Ovidio, un Dante. No: non Tennyson, Conrad, Joyce, Giono, e tutti quelli che hanno provato a narrarlo di nuovo. L’Odissea, questo primo romanzo del mondo, Guidorizzi la srotola, la stende e la riavvolge come la tela che Penelope tesse di giorno e disfa di notte. Una tela che copre tutta una parete. Sottile, lavorata ad arte, piena di mostri, uccelli, piante; un polipo che circonda i pesci con i suoi tentacoli; guerrieri sui carri; il mare viola, una barca che si avvicina a un’isola. Penelope «ci ha messo la sua anima, tessendo d’istinto quello che le veniva in mente di giorno in giorno; poi la notte, quando la disfaceva, vedeva le forme annullarsi e svanire come ingoiate dall’aria; e il giorno dopo ritessendola ne creava di nuove». A Penelope piace fare e disfare e rifare, e vorrebbe continuare la tela anche dopo il ritorno di Ulisse.
Allo stesso modo procede il racconto di Ulisse: come la sabbia increspata dal mare, che disegna sulla riva un’esile, scura linea appena percettibile, cancellata a ogni respiro delle onde e subito rifatta. Così, per esempio, l’incontro con Polifemo si trova, insieme alla tela, in un capitolo non per nulla intitolato Diéghesis: cioè racconto. Che, sin dall’inizio, sembra immerso in un sogno, come quello che avvolge le notti di Penelope. Ma è un sogno vividissimo, quasi fossimo ne Il mondo come meditazione di Wallace Stevens, dove Penelope, nel dormiveglia del mattino, sente una forma di fuoco che si avvicina alle sue cretonne e dubita e medita, e la meditazione è il mondo: «È forse Ulisse che sopraggiunge dall’oriente, / interminabile avventuriero?». Un sogno creatore, dalle partiture perfettamente cadenzate: Onéirata, Xenía, Aoidé, Eschatiá, Kóre, Diéghesis, Nóstos, Mégaron: le parole greche non appaiono vezzi di studioso, ma danno struttura e forma alla narrazione, come i titoli dall’Odissea negli schemi dell’Ulisse che Joyce distribuiva agli amici. Costruiscono impalcature narrative, segnando progressi, scarti, regressi, pause, sorprese e suspense: perché allo stesso tempo riscrivono e interpretano la narrazione originaria, l’Odissea. Perciò, il lettore che conosce l’originale omerico si gode Ulisse doppiamente, come chi, osservava il filosofo, ascolti musica che già conosce: la prima volta, infatti, si trattava di «acquisire conoscenza», ma la seconda di «riconoscerla».
Nella sequenza cangiante di Ulisse c’è polifonia da contrappunto: il racconto è molto spesso fatto dai, o dalle, protagoniste, in prima persona, ma queste voci hanno il medesimo ritmo incantatorio: attorno al sogno, unificano. Conferiscono urgenza interiore, danno l’impressione di rivelare i motivi che muovono i personaggi, al punto che Ulisse avvince come un romanzo psicologico moderno. Irresistibile, per esempio, la voce di Nausicaa, la kóre al centro del libro. In quella voce vediamo per la prima volta Ulisse da fuori, quale lo vede lei – e lei invece come riverbero: «Ha cominciato a parlare da lontano, appena fuori dal canneto, tendeva le mani a supplicare e ho capito che non mi avrebbe fatto del male. Aveva una voce profonda e armoniosa, non ho mai sentito una voce così bella, e sceglieva le parole giuste…Mi ha pregato; ha detto che ero bellissima, come una giovane palma: così ha detto, una palma, e mi ha stupita perché da noi nessuno paragonerebbe una persona a un albero. Ha lodato i miei capelli biondi e i miei occhi celesti come acqua chiara, dicendo che solo le dee li hanno così... Ho sentito qualcosa d'insolito nel cuore, mai nessuno li aveva paragonati a un cielo così bello».
La morte che s’agita sul fondo di Ulisse con le misteriose Sirene e l’incontro con la madre all’Ade non riesce a turbare né la felicità che Ulisse e Penelope tenacemente perseguono per vent’anni né quella di Guidorizzi narratore: il quale assomiglia sempre di più a quel che Aristotele dice di se stesso: più invecchio, più mi scopro amante del mito. Nell’ultima pagina di questa bellissima riscrittura Ulisse e Penelope sono finalmente a letto insieme. Allora, dopo l’amore e i racconti, Penelope prende la spada del suo uomo e squarcia, infine, la tela.
Il Sole Domenica 9.9.18
Ulisse. L’ultimo degli eroi
Giulio Guidorizzi
Torino, Einaudi, pagg. 195, € 14.
In libreria dal 4 settembre
Il Sole Domenica 9.9.18
Fiducia nell’uomo
L’assist di Emerson alla filosofia di Nietzsche
di Armando Torno
Ralph Waldo Emerson, nato nel 1803 a Boston, è una figura-chiave della cultura americana. Così, almeno, lo considera un critico come Harold Bloom. Un pensatore quale John Dewey lo intese come il filosofo della democrazia moderna. E un poeta della grandezza di Walt Whitman arricciava il naso dinanzi ai suoi versi e preferiva ammirarlo come critico o diagnostico. Certo, non fu un campione di quelle passioni che rendono interessanti le biografie, anche perché sembrava non conoscere debolezze. Fu però autore dalle concezioni influenti. Di Dante apprezzava «l’energia unita alla simmetria»; quando individuava un nemico, sapeva sistemarlo a dovere: antitetico a Poe, lo definì «the jingle man», l’uomo dei sonagli o giullare che dir si voglia. Eppure Emerson, che era anche poeta e filosofo e ha lasciato tracce in teologia (sosteneva: Dio è presente nell’anima e da essa direttamente intuibile), fu amato da Nietzsche. Lo scoprì quando aveva diciotto anni e lo lesse per gran parte della vita.
Non è facile tentare anche un inventario degli influssi della sua opera. L’idea che ne caratterizza scrittura e pensiero fu il nesso di finito e infinito, la capacità di individuare il fondamento trascendente della realtà sensibile nella percezione dello spirito umano. Il suo ottimismo antropologico, che motiva una profonda sicurezza in se stessi, è uno specchio dell’anima statunitense, una sorta di premessa generale al liberalismo con stelle e strisce. Anche se Whitman ebbe riserve sui versi, ne amò lo spirito e le notevoli intuizioni; e così fece molta letteratura americana, sino alla Beat Generation, senza dimenticare che Thoreau gli deve molto, altrimenti non avrebbe osato scrivere che «la poesia è il misticismo dell’umanità». Non si può escludere, tra i contagiati da Emerson, persino Proust; e inoltre si ritrovano in lui numerose idee del futuro pragmatismo. Qualcuno sussurra che il compositore classico statunitense Charles Edward Ives ne sia discepolo. Di certo - e basti questo esempio - quando si ascolta la Quarta Sinfonia (1909-16) non occorre essere dei critici per capire che il musicista sta inseguendo qualcosa trovabile in Emerson, il quale considerava la morale una guida all’immensa intelligenza divina. Si sospetta e si avverte che le note, simili agli eoni degli gnostici, stanno cercando di compiere il singolare percorso, anche se la complessa orchestrazione e l’uso della poliritmia richiedono per evocare quei suoni due direttori d’orchestra e l'utilizzo di strumenti allora nuovi, come il theremin.
È il caso di fermarsi con influssi e altro, anche perché tali noterelle su Emerson sono state suggerite al vostro cronista dalla ristampa di una sua opera, le due serie dei Saggi curate da Piero Bertolucci, con testo originale a fronte. In sostanza, ritorna con le edizioni La Vita Felice la traduzione riveduta e corretta che uscì nella serie Enciclopedia di autori classici, diretta da Giorgio Colli per Boringhieri. Un lavoro che fece meglio conoscere tale autore, le pagine pacate e coinvolgenti sull’eroismo o sulla prudenza, sulla fiducia in se stessi o sulle leggi spirituali, sulla “superanima” o sui doni. Il lavoro di Bertolocci archiviava la vecchia traduzione di Mario Cossa, uscita da Laterza nel 1925 nella rimpianta Biblioteca di Cultura Moderna .
Rileggere questo americano significa comprendere meglio Nietzsche. La dottrina di Emerson della self-reliance rappresentò per il filosofo tedesco un breviario di coraggio e indipendenza: contribuì ad alimentare il suo progetto di trasvalutazione morale per costruire un uomo nuovo.
Saggi
Ralph Waldo Emerson
Prima e seconda serie, La Vita Felice, Milano, due voll. indivisibili, pagg. 552 e 356, € 29,50
Il Sole Domenica 9.9.18
Eredità culturali
Perché non possiamo non dirci antichi greci
di Carlo Carena
Perché non possiamo non dirci cristiani titolava nel ’42 un breve saggio, ma clamoroso, Benedetto Croce, pur senza abiurare il suo laicismo. Lì constatava e argomentava che in ogni caso quella del cristianesimo fu una rivoluzione di tale portata, da aver inciso in modo determinante nell’ideologia, nella morale e nella società per tutti i secoli successivi.
Giuseppe Zanetto in Siamo tutti greci dimostra a sua volta quanto grande sia l’incidenza e l’eredità dell’antica civiltà greca in molti aspetti della nostra vita, del nostro pensiero, della nostra arte, dei nostri comportamenti e nell’organizzazione della nostra società. A volte, anzi spesso siamo greci senza avvederci e senza saperlo, quando parliamo, quando leggiamo, quando cerchiamo un panorama (pan-órama, “vista totale”) o contempliamo un’opera d’arte, quando votiamo, quando ammiriamo una donna e andiamo dal medico.
Il titolo deriva anche qui da una celebre frase di Shelley in pieno romanticismo, nella prefazione al poema drammatico Hellas, ultima sua opera: We are all Greeks. Né Zanetto si ferma lì, ma esplicita e svolge nel suo libro quant’altro poi specifica il poeta romantico: «… perché le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia. Essi ci governano ancora dal loro lontano passato».
La nostra lingua e il nostro atteggiamento intellettuale, problematico, appartengono a quel popolo a cui il vocabolo stesso di “problema” appartiene, come “porsi davanti a qualcosa per osservarlo attentamente e capirlo a fondo”.
Siamo greci quando facciamo politica (pólis, “città”) perché essi pensarono e misero in atto l’idea che per prendere una decisione importante per molti, per tutti, il modo migliore è riunirsi tutti quanti, discuterne, poi votare le varie proposte e infine adottare il parere della maggioranza dei cittadini. Aristofane immaginò persino il voto concesso alle donne e i loro comizi elettorali, e il conferimento, non poi così buffo e chimerico, del potere ad esse; nonché l’introduzione della comunione dei beni: così lo Stato sarà ben governato, e così tutti avranno di che mangiare a sazietà.
Accanto all’assemblea, l’ecclesía, sta un consiglio operativo di cinquecento membri estratti a sorte e in carica per un anno, la boulé, una specie di ministero degli interni; inoltre dieci strateghi eletti dall’assemblea comandano l’esercito, e pubblici ufficiali sorvegliano le attività commerciali e controllano la qualità delle merci, la correttezza dei pesi e delle misure, il rispetto delle norme igieniche. Le votazioni avvengono di norma palesemente, per alzata di mano, in base al principio tipicamente greco che in politica non ci si nasconde e non si fa i furbi, ma ci si schiera schiettamente e senza timore secondo le proprie idee. Per cui «in ultima analisi, il quadro della pubblica amministrazione, ad Atene o in una qualunque altra pólis, non è così diverso da quello di uno stato moderno». La differenza fondamentale è se mai quella della democrazia diretta, che peraltro rispunta anche negli sviluppi più recenti della partecipazione alla politica.
Anche alcuni personaggi di questo mondo e di quest’aria cittadina non sono molto diversi da quelli che occupano uno spazio nel mondo politico moderno. I più caratteristici e divertenti si trovano in un’altra commedia di Aristofane, I cavalieri (424 a.C.); ritratti dal vero dei politici più abietti e spudorati, che fanno a gara nell’adulare bassamente Demo (il Popolo), un vecchietto stupido.
Di qui, dall’idea che in democrazia decidano tutti, gli incompetenti e anche gli immeritevoli, le critiche mosse già nell’antichità e già dal sublime Platone. Platone sogna non il governo di tutti ma dei filosofi, ossia dagli amanti e competenti nella sapienza, capaci di pensare e di provvedere anche per la gente comune, la quale giudica e decide non col cervello ma “con la pancia”, correndo dietro a chi fa le promesse più mirabolanti: come avviene se si propone a un gruppo di ragazzini di scegliere fra un medico o un pasticcere.
Da questa prima parte dedicata alla struttura e al funzionamento dello Stato, Zanetto passa ad altri aspetti non estinti dell’antichità greca: la fisicità del corpo, la grazia delle sue forme nude, quali apparvero nella maliarda Calipso a Ulisse e quali appaiono negli atleti celebrati da Pindaro.
Ma il corpo è anche uno specchio dell’animo, e la sua bellezza e vigore sono prova di virtù. Perciò merita un'attenzione e una cura a cui provvede la magistrale scienza medica, studiata e modernizzata dalla scuola ippocratica operante e irradiante dal V secolo sull'isola di Cos nel mare Egeo, con alcune intuizioni anch’esse fondamentali: la salute fisica dipende dagli equilibri degli organi interni e dai loro umori, che vanno osservati e studiati metodicamente e non genericamente, in clinica, caso per caso, per trovarne le cure appropriate.
A incorniciare il quadro non manca nel volume la descrizione di una tipica giornata dell’uomo greco, quale narrata dall’ateniese Iscomaco a Socrate nell’Economico di Senofonte. Levata di buon mattino, andata nel podere a piedi e istruzioni ai braccianti; ritorno e una cavalcata in campagna per tenersi in esercizio da bravo soldato; rientro di corsa dalla scuderia, doccia e infine pranzo.
Uguaglianze, e diversità, ovviamente: come conclude Zanetto, il confronto col nostro mondo e col nostro modo di vivere ci impone di riconoscere che sono molto diversi: «e tuttavia non possiamo capire nulla di noi, se non ci confrontiamo con i Greci».
SIAMO TUTTI GRECI
Giuseppe Zanetto
Feltrinelli, Milano, pagg. 158, € 13
Il Sole Domenica 9.9.18
Gli scritti politici
La riflessione di Orwell al di là di «1984»
di David Bidussa
«In un Paese prospero, la politica di sinistra è sempre in parte fasulla... la maggioranza dei politici e dei propagandisti di sinistra si guadagna da vivere pretendendo a gran voce cose che non desidera affatto. Sono rivoluzionari infuocati fintanto che fila tutto liscio, ma appena scoppia l’emergenza gettano la maschera. Una minaccia al canale di Suez, e il loro “antifascismo” si rivela identico alla “difesa degli interessi britannici”». Si intitola Negri esclusi, è un intervento del 1939 . Non è così invecchiato. È il terzo testo di questa raccolta curata da Vittorio Giacopini.
Non è la prima volta che di Orwell si propongono al lettore italiano alcuni suoi scritti politici (una prima raccolta di suoi saggi critici dal titolo Nel ventre della balena a cura di Silvio Perrella è uscita per Bompiani nel 1996). Ma quegli scritti non hanno mai davvero avuto molta fortuna. Orwell è un evergreen per 1984, fuori da quella distopia non ha mai superato per davvero la soglia dei suoi lettori fidati. L’immagine è quella dunque di un autore di un solo testo: 1984. Orwell è invece molto di più e opportunamente Vittorio Giacopini ha ritentato con questo libro la scommessa di dare anche al resto il peso che merita. «Vedere cosa abbiamo sotto il naso - scrive nel marzo 1946 - impone una vigilanza costante. Un sistema utile è tenere un diario, o comunque registrare in qualche modo le proprie opinioni sugli eventi importanti. In mancanza di una documentazione, quando gli eventi smentiscono senza appello una credenza particolarmente assurda, rischiamo di dimenticare di averla considerata vera». [p. 120]
Il testo si intitola Sotto il nostro naso. È un testo in cui Orwell fa i conti con le proprie opinioni e con il costante ritorno e disillusione che ha caratterizzato il suo viaggio culturale, emozionale e mentale nella sinistra. Poche righe prima riflettendo sul tema della natalità [pp. 117-118] sottolinea la problematicità in un futuro prossimo di poter mantenere lo stesso livello di welfare avendo la prospettiva di una popolazione anziana e con pochi figli tanto da delineare una condizione che, con 70 anni di anticipo, non abbiamo nessuna difficoltà a riconoscere nel nostro presente.
Il tema è dunque come osservare la realtà, come interrogarla, dove e come scavare, anche e soprattutto non evitando le domande imbarazzanti e le questioni che il senso comune dà per non esistenti. Ovvero l’insistenza sulla funzione pubblica dell’intellettuale, come precisa in Il dilemma dello scrittore [qui alle pp. 179-181], un testo del 1948.
Perché scrivere? Perché la politica del Novecento invece di portare verso la libertà ha aumentato il rischio della schiavitù? Ha ancora senso pensare un domani possibile mentre lo scenario propone il trionfo e la forza dei totalitarismi? Perché, come scrive nel 1946, «nella mente dei rivoluzionari militanti o comunque di quelli che “ce la fanno”, l’aspirazione a una società giusta si [è] sempre fatalmente mescolata all’impulso di accentrare il potere nelle proprie mani?»[p. 188].
Sono alcuni dei temi che George Orwell mette al centro della sua riflessione tra anni 30 e anni 40 del 900. Anni segnati dalla sconfitta della ragione, sconfitta che genera la convinzione che la politica sia una macchina «mangiauomini». Ma che in Orwell impongono una volontà: respingere la tentazione di ritirarsi nel privato, sentire l’obbligo ad esserci e a rispondere. In breve «non mollare». Da non dimenticare.
Come un pesciolino rosso in una vasca di lucci
George Orwell
a cura di Vittorio Giacopini,
trad. dall’inglese di Elena Cantoni
Eleuthera, Milano, pagg. 224, € 16
Il Sole Domenica 9.9.18
Il Piano Marshall. Senza la ricostruzione economica e il ritorno a istituzioni democratiche in Europa, sarebbero state pregiudicate sicurezza e pace globali. Oggi impera l’«America First»
Stabilità versus populismi
di Alberto Quadrio Curzio
In questa opera Steil, oltre a mostrare una originale prospettiva per l’interpretazione degli eventi della guerra fredda, consente di meglio comprendere il processo che ha condotto all’attuale stato delle relazioni economiche internazionali. In particolare quelle che stanno alla base della stessa Unione europea, nei confronti della quale gli Stati Uniti si sono spesi nel dopoguerra. Il Piano Marshall è infatti solo una parte che si inserisce nelle coerenti azioni intraprese dagli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra per stabilire una struttura di cooperazione internazionale al fine di evitare il catastrofico fallimento dei tentativi di accordi economici e di sicurezza degli anni tra le due guerre mondiali.
Si trattò dunque di una scelta, quella di allora, di portata epocale che, aggiungiamo noi, viene messa ora a rischio dalla visione ottusa ed egocentrica del presidente Trump, che vuole riscrivere la storia senza conoscerla. Per dimostrarlo procediamo con ordine con una declinazione su tre punti.
Il primo è che rompendo con la tendenza isolazionista di altre amministrazioni presidenziali Truman si assunse la responsabilità (e il merito) storica degli Stati Uniti nella promozione della cooperazione internazionale patrocinando la fondazione, tra il 1945 e il 1949, di istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale nell’ambito degli accordi di Bretton Woods, e poi la creazione della Nato. Il secondo è che a fondamento del Piano Marshall vi è stata una visione strategica calata nel pragmatismo sia per le relazioni internazionali che per l’economia e la sicurezza nazionale statunitense: la ricostruzione e la ripresa delle economie europee prostrate dal secondo conflitto mondiale. All’Università di Harvard il 5 giugno 1947, il segretario di Stato, George C. Marshall, aveva argomentato che, senza una rapida ricostruzione economica e il ristabilimento di istituzioni liberal-democratiche nei Paesi europei, non sarebbe stato possibile ritornare alla stabilità politica, alla sicurezza e alla pace a livello mondiale. I popoli europei avrebbero potuto cadere sotto l’influenza del populismo e dell’autoritarismo con implicazioni anche sulla sicurezza nazionale ed economica degli stessi Stati Uniti, che sarebbero stati costretti a massicci aumenti delle spese per la difesa e ad un crescente controllo nell’economia dello Stato. Senza dimenticare il sentimento anti-comunista, Steil dimostra come il piano di aiuto economico quadriennale (1948-1952) ai Paesi europei fatto da Marshall sia stata la manifestazione di un’alleanza bipartisan nel Congresso, ove svolse un ruolo fondamentale il presidente della Commissione per le relazioni estere del Senato, Arthur Vandenberg, senatore repubblicano attestato su posizioni a favore dell’isolazionismo fino al 1941. Il Piano ebbe anche il sostegno delle principali categorie produttive statunitensi – pur nella consapevolezza dei costi che avrebbero dovuto sostenere nell’immediato per la crescente cooperazione economica verso i Paesi riceventi gli aiuti.
Il terzo punto è che, oltre l’aiuto economico, componenti fondamentali per la ripresa e l’avvio della collaborazione economica tra i Paesi europei sono state la stabilità e la sicurezza garantite dalla creazione della Nato nel 1949. L’organizzazione, che avrebbe poi nel tempo consolidato la partnership transatlantica nel settore della difesa, ha consentito ai Paesi europei di proseguire nella ricostruzione economica e nell’integrazione delle loro economie senza i timori di destabilizzazioni generate da conflitti ai confini dell’Europa occidentale. Per concludere, il confronto con il presente «trumpiano» è sconfortante.
Lo stesso Steil, che pure si astiene dal fare confronti con l’attuale indirizzo della politica estera dell’amministrazione di Donald J. Trump, l’ha espresso sia esplicitamente nelle presentazioni del libro, sia implicitamente, a nostro avviso, nell’enunciazione in quest’opera di un «paradigma storico e attuale» per il presente e il futuro circa il ruolo degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali.
Lo slogan America First, proclamato da Trump al suo insediamento nel gennaio 2017 e tradotto nel programma della sua amministrazione del marzo dello stesso anno (America First. A Budget Blueprint to Make America Great Again), prevede nell’ambito della politica estera la revisione o la rinegoziazione o la disdetta delle alleanze e dei patti, sia commerciali che di difesa, per affermare la priorità degli interessi degli americani. Su questa base Trump ha adottato una serie di decisioni che hanno marcato una drammatica discontinuità nelle relazioni politiche, economiche e di difesa americane con i tradizionali partner e non solo. E cioè, uscita dall’accordo di Parigi sul clima nel giugno 2017; denuncia dell’accordo internazionale sul nucleare con l’Iran nel maggio 2018; dichiarazioni sulla necessità di revisione del nafta; introduzione di tariffe e dazi per alcuni prodotti negli scambi commerciali con Cina e Unione europea, che prelude a conseguenze gravi anche per gli Usa.
L’esperienza del Piano Marshall ha insegnato l’importanza e i benefici della costruzione di relazioni di alleanza per gli Stati Uniti, per il mantenimento della stabilità politica ed economica sia interna che nelle relazioni con gli altri Paesi. La storia postbellica ha dimostrato come sia vitale che i Paesi siano alleati dentro un quadro giuridico-istituzionale chiaro, piuttosto che vassalli o tributari o controparti minacciate. Diversamente dalle alleanze che la Russia/Unione Sovietica aveva costruito con i Paesi comunisti dell’Europa orientale che sono collassate definitivamente con il crollo del muro di Berlino, quelle patrocinate dall’America nel dopoguerra sono state fino ad oggi solide così come strategiche si sono rivelate le istituzioni dell’Unione europea, alle cui origini si può collocare la collaborazione tra i Paesi europei per l’utilizzo delle risorse del Piano Marshall.
La nostra conclusione è che l’America First di Trump non cambierà in meglio il corso della storia postbellica che gli Stati Uniti hanno contribuito a costruire, ma scasserà un sistema che, pur con le sue mancanze, ha evitato il rinascere dei nazionalismi e ha dato ottimi risultati nelle relazioni internazionali. La «corsa» di ciascun Paese alla ricerca del miglior accordo che risponda ai presunti interessi nazionali è infatti illusoria perché la cornice di qualsiasi azione politica ed economica è oggi necessariamente quella globale, e sempre più ridotto è il potere relativo di qualsiasi Stato (anche degli Stati Uniti) di incidere singolarmente, sia a livello economico che politico. Il principio di favorire l’interesse nazionale secondo i modi dell’amministrazione americana rischia dunque di essere fallimentare e costoso proprio nel perseguimento di quell’interesse nazionale che si intende difendere. Ed infine sarà dannoso in quanto stimolerà altri nazionalismi e populismi, come purtroppo la storia ci ha già insegnato.
Questo testo è tratto dalla prefazione di Alberto Quadrio Curzio al libro
di Benn Steil, in questi giorni in libreria
Benn Steil Il piano Marshall. Alle origini della guerra fredda
Traduzione di Ada Becchi. Donzelli, Roma, pagg. 550, € 38
Il Sole Domenica 9.9.18
Hans Kelsen. Tornano due saggi di uno dei padri della giustizia costituzionale
La democrazia reale? È solo parlamentare
di Sabino Cassese
Ha fatto molto bene Mario G. Losano a curare la nuova edizione di questi due saggi di Kelsen, sia per la personalità dell’autore, sia per l’importanza dei temi trattati.
Il boemo Kelsen (1881 – 1973) è stato uno dei più influenti giuristi del ’900, autore della Costituzione austriaca successiva alla Prima guerra mondiale, e uno dei padri della giustizia costituzionale. Ha scritto questi saggi negli anni 20, avendo sott’occhio la vicenda della democrazia weimariana. In essi esamina temi di straordinaria attualità, oggi, in Italia: come democrazia, libertà e divisione dei poteri si coniugano; che cosa è la democrazia rappresentativa; se si può realizzare una democrazia diretta, come quella che i bolscevichi cercavano di attuare nell’Unione sovietica in quegli anni.
Il Kelsen che ha scritto questi saggi non è il giurista noto quale sostenitore della teoria pura del diritto, perché la sua attenzione è piuttosto quella del politologo. Parte dalla “stanchezza” del parlamentarismo. Osserva che quest’ultimo è un compromesso tra l’idea di libertà politica e il principio della divisione differenziale del lavoro e che non solo le libertà, ma anche la divisione dei poteri sono un argine allo sconfinamento del principio democratico oltre il potere legislativo (ed anzi suggerisce l’idea che Montesquieu avesse formulato la nota teoria per salvaguardare uno spazio al sovrano piuttosto che al Parlamento). Ribadisce più volte che la rappresentanza è una finzione (anzi, la chiama anche “crassa finzione”), ma sostiene che la democrazia diretta è impossibile: l’unica forma di democrazia reale possibile è quella parlamentare. Perché il popolo possa governarsi da sé, manca ad esso ciò che più di ogni cosa è indispensabile, l’unità. L’esercizio diretto della funzione legislativa da parte del popolo può realizzarsi solo quando le condizioni economiche e culturali siano estremamente semplici e i compiti dello Stato estremamente limitati. L’essenza della democrazia detta rappresentativa sta nel mettere «la conquista del potere in pubblica gara»; «il reale merito della democrazia è di garantire la migliore scelta dei capi», «in contraddizione con la [sua] natura».
Kelsen, però, aggiunge che non si può respingere l’idea di un controllo dei deputati da parte di un gruppo di elettori organizzati in partito politico, per limitare l’irresponsabilità del parlamentare rispetto ai suoi elettori, e che occorre abolire o limitare l’immunità parlamentare e prevedere la decadenza del deputato che abbandona il suo partito.
L’ideale democratico di Kelsen è di tipo proporzionalistico, fondato sul compromesso, sulla reciproca tolleranza, sulla ricerca di una via di mezzo tra opposti interessi, quindi su governi di coalizione. Non a caso il secondo saggio si chiude con una critica alla critica di Carl Schmitt del parlamentarismo.
Due sono gli aspetti che rendono straordinariamente attuale la ripubblicazione di questi due brevi saggi. Il primo è il dialogo intessuto da Kelsen con i bolscevichi, che proponevano (e cercavano di realizzare) nella Unione sovietica successiva alla Rivoluzione d’Ottobre una democrazia diretta non diversa da quella oggi agitata in Italia dal Movimento Cinque Stelle. Ad esempio, Kelsen considera la possibilità della revoca del parlamentare o anche quella che il partito abbia una delega a indicare di volta in volta il parlamentare adatto al tema in discussione in Parlamento. Oltre alla straordinaria consonanza con quel che accade in Italia oggi, l’altro motivo di interesse dei saggi sta nella critica della rappresentanza e nel riconoscimento che la struttura della democrazia sta nella gara per la conquista del potere pubblico e nella scelta dei governanti, e che questo è in contraddizione con la natura della democrazia, come aveva scritto molto bene nel Federalist Madison, quando aveva distinto «repubblica» da «democrazia», assegnando al primo termine i regimi dai quali siamo oggi governati e al secondo solo il modello mai realizzato della democrazia diretta.
Due saggi sulla democrazia in difficoltà (1920 – 1925)
Hans Kelsen
a cura di Mario G. Losano, Torino Aragno, Torino, pagg. XII – 135, € 13
Il Sole Domenica 9.9.18
Storia dell’Italia unita
Il difficile approdo alla democrazia
di Piero Craveri
Speranze d’Italia di Ernesto Galli della Loggia è un libro da leggere, tanto più dagli addetti ai lavori, perché sottolinea le molte «illusioni e realtà nella storia dell’Italia unita», facendo emergere delle indubbie verità, che spesso vengono omesse. E ciò da parte di uno storico acuto e penetrante, che si definisce un “equocontrastante”. Invero non del tutto equo, come si vede nella polemica sull’azionismo e nei giudizi su Piero Gobetti e Carlo Rosselli. Perché, se si deve essere anche biografo, le vicende che ciascuno attraversa si confrontano con il periodo in cui visse e in esso trovano le loro prime ragioni.
Galli della Loggia fa risalire a entrambi la trasgressione dai principi liberali e democratici verso un’acquiescente inclinazione per i comunisti, che fu invece dettata dalle circostanze: in Gobetti da un approccio ai fenomeni nuovi del conflitto operaio, in Rosselli dalla lotta al fascismo, che con la Seconda guerra mondiale fu poi approdo corale di tutti. Con ciò Galli della Loggia critica in realtà a fondo un’interpretazione dell’azionismo che deriva dalla storiografia comunista e dai suoi cascami, agitandone ancora oggi il mito. Questo sarebbe basato sul tema della “modernità”, di cui Augusto Del Noce, all’inverso, ha fatto poi un simbolo del contrasto con la religione cristiana e della secolarizzazione. Ma la “modernità” è stato assioma assai confuso già nella breve vicenda del Partito d’Azione, diviso in rivoli contrapposti, poi espresso nella diaspora dei suoi protagonisti approdati negli altri partiti della Repubblica, dando frutti anche positivi, e la deriva comunista è stata soprattutto dell’azionismo torinese. Oggi tutto ciò è consegnato alla storia e tale mito va giustamente definito un nulla.
Anche quella di Gobetti era una ricerca di “modernità”. Galli della Loggia ne sottolinea pure l’antigiolittismo, accumunandolo in questa polemica a Gaetano Salvemini ed esprimendo su Giovanni Giolitti un giudizio positivo, che non può non essere condiviso. Tanto più che a procedere, da un punto di vista politico, sulle novità del conflitto operaio su cui si era appuntata l’attenzione di Gobetti, fu proprio Giolitti nel suo ultimo governo. Ma il passaggio dallo Stato liberale a una società liberal-democratica allora non riuscì nemmeno all’opera sua e fu il fascismo a compiere un salto verso la modernità, come come del resto era necessario.
La trasformazione in una democrazia di massa riuscì poi nel secondo dopoguerra. Galli della Loggia ne indaga gli ostacoli al suo pieno dispiegarsi e riscontra la piega negativa che avrebbe preso la classe politica dalla seconda metà degli anni 60, illustrata nelle belle pagine sulla «nascita di una democrazia difficile». Egli sottolinea come in fine non si riuscì a stabilizzare i lineamenti liberal-democratici delle istituzioni. Un deficit innanzitutto di cultura politica in cui vede la progressiva eclissi proprio di quella cultura, le cui motivazioni, se sono solo in parte condivisibili, tuttavia hanno fondamento.
Galli della Loggia sottolinea l’influenza che sulla società italiana ha avuto il comunismo, lasciando una traccia capillare e deleteria. Andrebbe aggiunto come proprio quel partito si sia poi fatto veicolo principale dell’onda populista del ’68 e si sia nutrito di gran parte di quei postulati senza alcuna riflessione organica su di essi. Tanto che il comunismo stesso si è consumato, come d’altra parte la cultura laica che vi si era in parte opposta, ed ambedue sono stati emarginati, il comunismo senza neppure fare i conti con l’esito socialdemocratico, come sottolineato da Galli della Loggia. Ed a riguardo bisognerebbe dire che la società si è in larga parte modernizzata, pur guidata da culture politiche già assai vecchie all’origine della Repubblica e mal rinnovate.
Quello su cui il libro pare più incerto è il ruolo dei cattolici. Pretendere necessaria una convergenza tra liberalismo e cattolicesimo è un non vedere che lo Stato liberale si è fatto non tanto contro i cattolici ma contro la Santa Sede. La storia degli altri Stati europei è diversa perché, pur tra rotture profonde, nazione e cattolicesimo, alle origini, procedettero insieme. Va ricordato poi che i cattolici sono entrati definitivamente nello Stato liberale aderendo alla guerra nazionale del ’14, e che, subito dopo, l’opera decisiva di Luigi Sturzo li portò a condividere la responsabilità dello Stato.
Dello Sturzo liberista del secondo dopoguerra egli tesse un giusto elogio, ma va sottolineato che per lui fu decisivo l’esilio negli Stati Uniti (come del resto per Gaetano Salvemini), mentre la nuova cultura cattolica si era formata durante il fascismo nell’Azione Cattolica e nella milanese Università del Sacro Cuore, così da non cogliere le ragioni vere del fallimento di Giuseppe Dossetti, a cui il libro pure si dedica con giuste osservazioni. Resta così in parte incompiuta un’altra condivisibile preoccupazione, cioè la relativa coesione con cui lo Stato nazionale affronta il presente.
Ernesto Galli della Loggia
Speranze d’Italia. Illusioni e realtà nella storia dell’Italia unita
il Mulino, Bologna, pagg. 352, € 24
Il Sole Domenica 9.9.18
Le radici ebraiche di Leo Strauss
La Rivelazione, presupposto della filosofia
di Giulio Busi
Una fiammata. Filosofica fin che si vuole, ma con le sue belle lingue di fuoco, di quelle alte, che si vedono di lontano. Fino a una ventina di anni fa, il nome di Leo Strauss era noto quasi solo agli addetti ai lavori. Un serio professore di storia della filosofia, molto influente nell’accademia americana, dallo stile meticoloso e piuttosto oscuro. Poi, di colpo, la vampata di celebrità. Una fortuna postuma, giacché Strauss si era spento già nel 1973. A portarlo alla ribalta, come “grande vecchio” del neoconservatorismo statunitense, è stato l’influsso di alcuni dei suoi allievi nell’amministrazione di George W. Bush. Primo fra tutti, Paul Wolfowitz, Sottosegretario di Stato alla Difesa, teorico di spicco della politica estera di quel periodo.
Negli anni Novanta e nei primi Duemila, per capire gli orientamenti e la strategia neocon, in molti hanno indagato gli scritti di filosofia politica di Strauss, alla ricerca di presunti antefatti. Leo Strauss and the America Right s’intitolava per esempio un volume della studiosa canadese Shadia B. Drury, apparso nel 1997, in cui il Nostro viene descritto come interprete di un esoterismo politico che vorrebbe riservare la verità, pericolosa per le masse, solo a una ristretta cerchia di prescelti. Con la fine dell’era Bush, anche la curiosità mediatica per Strauss si è affievolita. Che il trumpismo contemporaneo si possa decifrare a suon di manuali di filosofia sembra poco probabile, e così anche Leo Strauss e i suoi colleghi possono riguadagnare la tranquillità delle biblioteche.
Nato in una famiglia ebraica a Kirchhain, in Assia, nel 1899, Strauss fu costretto all’emigrazione dall’avvento del nazismo. Tutta la sua vita, e una parte fondamentale del suo pensiero, si basano sul rapporto intellettuale con il giudaismo. Un legame profondo, riflessivo, esteso. Al giovane Strauss, e ai suoi primi scritti di storia della filosofia ebraica e araba, dedica ora un bello studio Davide Monaco. Si comincia con La critica della religione in Spinoza, apparso nel 1930 per giungere a Filosofia e legge. Contributi per la comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori, del 1935, il lavoro che segna il commiato di Strauss dal suo periodo tedesco.
Il Sole Domenica 9.9.18
Occuparsi di Spinoza significa, per uno studioso ebreo nella Repubblica di Weimar, riflettere anche sui costi e benefici dell’Illuminismo.
L’opzione spinoziana, con lo smantellamento della religione tradizionale e dell’eredità ebraica, è ancora vitale o ha fallito? Strauss non ha dubbi. In una lettera a Gershom Scholem, scrive: «Noi concordiamo sul fatto che il razionalismo moderno o illuminismo... è giunto al termine». Dove Spinoza non è riuscito, può forse soccorrerci Maimonide. Quello che Strauss suggerisce, mettendo a confronto il percorso dei due grandi pensatori, è l’inadeguatezza di un razionalismo che, dal XVII secolo in poi, ha preteso di risolvere ogni mistero dell’essere, senza poter raggiungere risultati incontrovertibili. Più pacata, e condivisibile, gli pare invece la via della ragione filosofica premoderna, impersonata dal Mosè Maimonide, scomparso nel 1204, e attivo tra mondo ebraico e arabo. Nella ricerca maimonidea, la rivelazione religiosa non è un ostacolo alla ragione ma il suo stesso fondamento. «Il riconoscimento dell’autorità della rivelazione è il presupposto dell’attività filosofica come tale».
Un ritorno ai classici, insomma, che tenga però conto delle aporie della modernità. Religione e ragione come poli in tensione, che si cercano, si trovano e si allontanano, senza mai esaurirsi completamente l'uno nell'altro.
Religione e filosofia secondo Leo Strauss. Il percorso
da Spinoza a Maimonide
Davide Monaco
Urbaniana University Press,
Città del Vaticano, pagg. 206, € 24
Il Sole Domenica 9.9.18
Nei meandri del potere. La politica sta diventando una «fictio», una costruzione capillarmente e scientificamente organizzata di una realtà parallela che ha l’obiettivo di manipolare l’opinione pubblica
di Remo Bodei
Democrazia in bilico tra verità e menzogna
Nel mondo cristiano tre misteri maggiori hanno a lungo sbarrato la strada alla conoscenza della verità: gli arcana Dei, gli arcana naturae e gli arcana imperii. I primi condannano la pretesa di sondare gli abissi della divinità oltre quanto già rivelato dai testi sacri. I secondi non vengono colpiti altrettanto duramente da un simile divieto, ma la spiegazione dei fenomeni naturali ha dovuto sottrarsi al sospetto di empia curiositas e liberarsi faticosamente dalle ingombranti incursioni della teologia nella ricerca scientifica (e, questo, perfino dopo Galilei).
Anche i misteri del potere hanno incontrato resistenze nel sottrarsi alla tutela della religione, se non altro perché, a partire dal San Paolo – che scriveva sotto Nerone! –, ogni autorità era stata considerata di origine divina. Il classici del pensiero politico greco e romano ne avevano, invece, esaminato a fondo i meccanismi. Ed è proprio grazie alla ripresa delle loro tesi e narrazioni (in particolare, di quelle di Tacito e del Plutarco delle Vite parallele) che, dal Rinascimento all’assolutismo, si è cercato di svelare la natura del potere in base ai suoi stessi nascosti princìpi.
La politica si dichiara ora apertamente arte segreta che ha il suo centro nel gabinetto del principe e il suo testimone nel «segretario». Essa passa così dal modello ciceroniano e medioevale di metodo di «governare gli Stati secondo giustizia e ragione» al prevalere della «Ragion di Stato», in quanto tecnica di acquisire, conservare o espandere il potere indipendentemente dai mezzi utilizzati e nella più assoluta riservatezza delle decisioni da prendere. Violenza e astuzia, simulazione e dissimulazione, diventano le principali armi di governo. Nelle parole di Baltasar Gracián, «la saggezza pratica consiste nel saper dissimulare; corre rischio di perder tutto chi gioca a carte scoperte. L’indugio del prudente gareggi con l’acume del perspicace: con chi ha occhi di lince per scrutare il pensiero, si usi l’inchiostro di seppia per nascondere il proprio intimo». Il senso degli arcana imperii è bene espresso anche da un’immagine, tratta dalla quotidianità, del poeta seicentesco Georg Philipp Harsdorfer: «Proprio come vediamo la lancetta dell’orologio e leggiamo le ore senza avere idea dell’ingegnoso funzionamento dei suoi complicati ingranaggi, così possiamo osservare le benedizioni e le punizioni di Dio senza conoscere le loro segrete cause. Similmente le azioni dei principi e dei signori stanno di fronte ai nostri occhi, ma i loro intenti e le loro motivazioni ci sono celati».
A partire dal proto-liberalismo inglese del primo Settecento, che impone di dibattere in parlamento gli affari di Stato – e dall’Illuminismo, che istituisce il «tribunale della ragione» e invita gli uomini ad uscire dallo stato di minorità e a esplorare i lati oscuri della società –, la democrazia rivendica, in politica, la trasparenza e il confronto pubblico delle opinioni da parte dei cittadini. È ovvio che non si arriva mai all’ideale della «casa di vetro», ma che, in linea di principio, i poteri invisibili vengono banditi.
I poteri maggiori sono proprio quelli che, proprio perché evitano di mostrarsi e fingono di non esistere, sfuggono al monitoraggio e alle contestazioni. Si potrebbe addirittura sostenere che il potere vero inizia dove comincia il segreto. Un tipico caso è quello dell’inquinamento originato dalle acciaierie di Gary e di East Chicago negli anni Settanta del Novecento. Centinaia di persone si erano ammalate di cancro nei dintorni delle fabbriche, ma la U.S. Steel Corporation aveva comprato per anni il silenzio di medici, amministratori locali e giornalisti, finché le cause della malattia non erano venute alla luce.
Oggi, soprattutto, preoccupa il possibile impiego dell’Intelligenza Artificiale e dei Big data da parte di opachi poteri militari, finanziari o politici, che si servono di informazioni e algoritmi segreti in grado di manipolare l’opinione pubblica, di spiare potenzialmente tutti i cittadini, di influenzare le elezioni e di favorire gli interessi di ristrette oligarchie, sottratte al legittimo controllo degli Stati.
I regimi democratici hanno finora regolato il pensiero e la volontà dei cittadini sia attraverso l’opinione pubblica, intesa, nei suoi momenti migliori, come suo «cane da guardia», sia attraverso un confronto, pubblicamente argomentato sulla base di linguaggi naturali e facilmente accessibili a una comunità di parlanti. Si ha ora l’impressione che la politica sia diventata una fictio, una costruzione, capillarmente e scientificamente organizzata, di una realtà parallela (di cui le singole fake news non sono che i mattoni), dove operano matrici di idee ed emozioni preconfezionate, che, mediante il ritocco e l’aggiornamento continuo, producono un «clima di opinione meteorologicamente mutevole»
Quanto silenzio complice, quante menzogne può tollerare una democrazia senza pervertirsi? Di quali difese può disporre per combattere quelli che appaiono attualmente i nuovi poteri occulti?
Il Sole Domenica 9.9.18
A zonzo per Praga. Il tour nei molti luoghi dove ha abitato lo scrittore è un esercizio che aiuta a comprendere la sua natura di autore sempre in lotta con i suoi fantasmi
La vita raminga di Kafka
di Giuseppe Lupo
In una piazzetta circolare e poco appariscente dove convergono quattro strade che radunano gli odori di cibo speziato e di prodotti fastfood - V?ze?ská, Kolkovn?, Dušní e Široká -, Praga rende omaggio al più illustre dei suoi scrittori con una scultura di Jaroslav Róna: un uomo di taglia robusta, ma senza volto e senza mani, regge sulle spalle un omino vestito di giacca, cravatta e bombetta in testa.
C’è poco da sbagliarsi: il padre di Kafka e Kafka stesso rivolgono il petto al visitatore che percorre la strada verso la sinagoga spagnola, dentro il cuore di una civiltà che conserva i segni dell’essere un crocevia ebraico. Il piccolo signor K., l’individuo che si sarebbe svegliato scarafaggio, è in balia di un omone dall’aspetto oppressivo, ma non scende piedi a terra.
Il monumento è un simbolo di come il più debole si avvale del più forte senza soccombergli, sfrutta a suo vantaggio le caratteristiche dell’altro. Il mondo avrebbe goduto di un’opera come quella di Kafka se il piccolo Franz non avesse avuto un genitore dalle caratteristiche che ci vengono narrate nella celebre Lettera al padre? La risposta è banale e a questa lotta verticale sembra ispirarsi non soltanto il monumento all’autore del Processo, ma anche l’esistere di Kafka nella città che ha dato i natali alla sua allucinata fantasia. Mai come per Kafka i luoghi dove ha trascorso la vita sono il frutto di una miscela tra desiderio di fuga e desiderio di radicamento, tra il seguire le orme della famiglia d’origine e il fuggire dal destino degli antenati. Sembrerebbe una contraddizione, eppure quest’uomo che svolgeva il lavoro di perfetto burocrate, al contrario di quanto faccia intuire l’eleganza impiegatizia esibita nelle foto, era corroso da un’inquietudine domestica: un tarlo che lo avrebbe portato a continui traslochi, a volte semplici spostamenti da un numero civico all’altro, ma sempre nei dintorni di Starom?stské nám?sti, la Piazza della Città Vecchia, così come viene identificata ora, almeno fino al compimento dei trentatré anni.
Dal 1883, anno in cui viene al mondo, al 1916, quando fa ritorno al quartiere di Staré M?sto, Kafka è costretto a seguire le ambizioni del padre che cambia almeno tre appartamenti per ingrandire l’attività commerciale. Nel quartiere di Staré M?sto si consuma gran parte dell’esistenza dello scrittore. Il palazzo dove nasce ha sulla sinistra l’ingresso secondario della chiesa di San Nicola. Ma qui il piccolo Franz vive solo un paio d’anni, per poi subito trasferirsi nella più elegante via Celetná, in un palazzo dalla facciata barocca dove la tradizione dice che sia stato ospite anche Petrarca. Anche qui l’inquietudine avrebbe imposto al capifamiglia di scegliere un’altra sistemazione, forse ancora più comoda, in Malé nám?stí, che è l’ipotenusa di un triangolo su cui affacciano edifici con finestroni alti, balconi d’angolo con verande, tetti spioventi e abbaini.
Ammesso che sia mai esistita una Mitteleuropa, qui se ne respira l’aria, sia pure fino al settembre del 1896, quando il padre obbliga di nuovo a fare valigie e tornare in via Celetná, stavolta al numero civico 3 anziché al 2. Kafka non aveva ancora compiuto ventitré anni quando dovette lasciare questa zona della città per trasferirsi in un appartamento nei pressi del ?ech?v most, il ponte sulla Moldava, dove le statue degli angeli suonano le trombe in cima a otto colonne.
Chissà che non siano state proprio queste trombe a risvegliare nella sua testa gli incubi delle Metamorfosi, perché proprio nell’appartamento di un palazzo ormai inesistente, sulle cui rovine ora sorge l’Hotel InterContinental, Kafka diede inizio al suo capolavoro. Seguirlo nei traslochi è un esercizio che aiuta a comprendere la sua natura di autore in lotta con i fantasmi, da cui magari allontanarsi anziché affrontarli, prestando il fianco ai pericoli di una vita raminga che lo avrebbe portato dapprima alla casa Oppelt, nel 1913, di spalle della chiesa di San Nicola (cioè alla casa dov’era nato), poi nelle stanze umili e silenziose di Nerudagasse, l’unica abitazione lontana dal centro, in via Polská, dove si fermò appena il tempo di veder morire un anno tragico per l’Europa come il 1914, per poi tornare nuovamente a battere le strade del quartiere di Staré M?sto, anche se lontano dalla sinagoga e dal cimitero ebraico, dove le lapidi sembrano tante pietre scomposte come sagome ubriache. I due palazzi dove Kafka poté risiedere tra il 1915 e il 1917, uno in via Bílkova e l’altro in via Dlouhá, conservano ancora oggi un che di anonimo e di regolare, ma rappresentano l’addio in sordina al quartiere a cui era rimasto sostanzialmente fedele.
I fantasmi non si mandano via con un’infinita fuga, specie quando assumono la fisionomia della malattia e della morte. Sappiamo che Kafka assaporò l’aria ventilata del Vicolo d’Oro, in cima al Castello, dove soggiornò pochi mesi con una delle sorelle in un vano di pochi metri quadrati con una finestra che affaccia su un vallone di alberi. E sappiamo che da questa Zlatá uli?ka intitolata agli alchimisti andò via presto, per trasferirsi nell’elegante Palazzo Schönborn, oggi sede dell’Ambasciata statunitense, al culmine di una salita dove finisce il Karl?v must, il Ponte Carlo. Qui Kafka avvertì i primi sintomi della malattia e sentì la vita sfuggirgli sotto i piedi, esattamente come scorrevano sotto i suoi piedi le acque solenni della Moldava.
Ciò che segue è solo cronaca di un tempo destinato a svanire prima ancora che Kafka raggiungesse la maturità. Da un punto di vista urbanistico si tratta di un ritorno, come a chiudere un cerchio, nel quartiere di Staré M?sto, in quella stessa casa Oppelt in cui aveva abitato qualche anno prima, di spalle a dov’era nato.