Il Sole Domenica 16.9.18
George L. Mosse, 1918-2018. Resta
attuale la lezione dello storico che ha visto nel razzismo, nel
nazionalismo, nell’antisemitismo movimenti di attrazione per le masse
nei periodi di crisi
L’empatia con i malvagi
di Emilio Gentile
A
Berlino, nel 1932. Un ragazzo di quattordici anni uscì da casa
all’insaputa dei genitori per andare vedere un’adunata del partito
nazionalsocialista. Si trovò subito immerso nello spettacolo multicolore
di bandiere agitate da una folla di giovani militi in camicia bruna,
che cantavano inni esaltanti la grande Germania. Poi apparve Hitler.
Sessanta anni dopo, diventato storico famoso, il ragazzo di allora
ricordava in una intervista: «Ancora oggi devo ammetterlo: fu
un’esperienza trascinante. C’era la massa che ti coinvolgeva. Ma c’era
Hitler. Il suo carisma esercitava un effetto straordinario sulla gente,
che lo volesse o no. Hitler era una vera attrazione».
Nella
Germania del 1932, non era evento eccezionale un ragazzo affascinato da
Hitler in una adunata nazista. Ma lo rendeva eccezionale il fatto che il
ragazzo, Gerhard Lachmann Mosse, nato a Berlino il 20 settembre 1918,
era il rampollo più giovane di una ricchissima e molto influente
famiglia di ebrei tedeschi. Il nonno materno Rudolf Mosse era fondatore e
proprietario di un’agenzia pubblicitaria internazionale e di un impero
editoriale, che pubblicava i più importanti giornali liberali tedeschi.
Dopo la Grande Guerra, la gestione dell’impero Mosse passò al padre di
Gerhard, Hans Lachmann, marito della figlia di Rudolf. I Lachmann-Mosse
erano ebrei integrati nella nazione tedesca. Come molte famiglie
dell’alta borghesia ebrea, i Lachmann-Mosse erano illuministi e
liberali. I giornali dell’impero editoriale Mosse osteggiarono il
nazismo, pur sottovalutandolo. Nel marzo 1933, la famiglia Mosse fuggì
dalla Germania, dopo essere stata costretta a cedere tutti i suoi
immensi beni, riuscendo a salvare soltanto le sedi estere dell’agenzia
pubblicitaria.
Diventato apolide e profugo, Gerhard continuò gli
studi in Inghilterra; poi, dal 1939, li proseguì negli Stati Uniti, dove
si laureò e cambiò il nome in George L. Mosse. Sul suo passaporto
tedesco, era impressa la “J” e il nome Gerhard era seguito dal nome
Israel, come imponeva la legge nazista, ma lui viaggiava con un
passaporto del Lussemburgo. Negli Stati Uniti, George scoprì quasi per
caso l’amore per la storia, specializzandosi sul periodo medioevale e
moderno. Dal 1944 al 1955, fu docente di storia moderna nell’Università
di Iowa, e nel frattempo divenne cittadino americano. Dal 1956, insegnò
storia della cultura europea nell’Università del Wisconsin; dall’inizio
degli anni 60, svolse anche corsi regolari nell’Università di
Gerusalemme.
Quando morì, il 22 gennaio 1999, Mosse era diventato
da qualche decennio uno storico di fama internazionale per la
rivoluzione storiografica compiuta con i suoi studi sulla cultura e la
politica di massa del nazismo, sulla interpretazione del fascismo come
fenomeno rivoluzionario, sulla storia del nazionalismo,
dell’antisemitismo e del razzismo, da lui considerati potenti movimenti
di attrazione per le masse nei periodi di grave crisi. L’originalità del
suo metodo e delle sue ricerche consisteva principalmente nella
capacità di indagare storicamente «il fascino del persecutore», come lo
abbiamo definito, cioè le passioni, le idee e i miti del nazismo e del
nazionalismo rivoluzionario razzista e antisemita, che produssero il
genocidio degli ebrei. Da storico, Mosse asseriva «la necessità
dell’empatia anche con coloro che giudichiamo malvagi e pericolosi»,
perché solo così è possibile comprendere, con l’esercizio della mente
critica, l’origine e i motivi della loro malvagità. In epoca di
sconvolgimenti, è concetto fondamentale della sua analisi, la maggior
parte delle persone cerca «riparo in un saldo sistema di credenze o in
una concreta identità, malgrado tutta la violenza e lo spargimento di
sangue che rischiano di seguirne». Fino all’Olocausto.
Nell’autobiografia
Di fronte alla storia (Laterza 2004), Mosse ha scritto di aver sempre
avuto la «vivida sensazione di essere un sopravvissuto»; per questo
motivo ha «costantemente cercato di capire un evento troppo mostruoso da
contemplare», di «trovare la risposta al problema di come sia potuto
avvenire». La catastrofe dell’Olocausto è una presenza latente in tutti
gli studi di Mosse sulla cultura occidentale, campo principale delle sue
ricerche, perché «in una catastrofe del genere si riflettono le
tendenze principali della cultura contemporanea; essa è come un prisma, o
meglio, come uno specchio deformante che restituisce, malvagiamente
manipolate, molte delle molle che animano gli esseri umani»; alla fine,
«ho avuto la sensazione di essermi avvicinato a una comprensione
dell’Olocausto come fenomeno storico». A tale comprensione Mosse era
giunto studiando anche fenomeni non collegati direttamente
all’Olocausto, come le relazioni fra sessualità e nazionalismo, gli
stereotipi della mascolinità, gli stereotipi contro gli outsiders, i
diversi e gli estranei, capri espiatori di masse in cerca di sicurezza
in una comunità chiusa nella presunta identità immutabile della nazione e
della razza. Mosse aveva vissuto personalmente l’esperienza
dell’outsider, costretto per anni a mascherare o a celare la condizione
di ebreo e di omosessuale. La conoscenza della storia e l’esperienza
personale lo resero particolarmente acuto nell’osservazione dei
movimenti nazionalisti che conquistano le masse alimentando pregiudizi
contro i diversi, gli estranei, gli stranieri.
Nell’esordio del
suo libro più noto e influente, La nazionalizzazione delle masse (il
Mulino 1975), Mosse ha definito la sua opera «il frutto di lunghe
meditazioni sulla dignità dell’individuo e su coloro che hanno attentato
contro di essa riportando per lunghi periodi del nostro secolo un
grande successo nel privare l’uomo di ogni controllo sul proprio
destino». Se fosse vivo, a cento anni, constaterebbe che siamo già
entrati in un nuovo periodo, non sappiamo se lungo o breve, di movimenti
che attentano alla dignità dell’individuo, sottraendogli il controllo
sul proprio destino. L’attuale tendenza era stata prevista da Mosse già
negli anni 80 (Emilio Gentile, Fanatismi incombenti, «Domenica. Il Sole
24 ore»,18 febbraio 2018). La sua preveggenza non era dono profetico, ma
capacità di analizzare con realismo la fragilità della democrazia
liberale in epoche di sconvolgimenti, che provocano insicurezza e paura
nelle masse.
La fragilità della democrazia liberale è stato
l’altro tema della meditazione di Mosse, latente nella storiografia ma
spesso presente nella sua attività di conferenziere, come mostrano le
migliaia di pagine inedite di lezioni e conferenze, che comporrebbero
una decina di volumi. Negli anni 50, i temi delle sue conferenze erano:
«Libertà individuale e sicurezza nazionale», «Persecuzione e libertà»,
«Libertà di coscienza». Nel 1954 l’agnostico Mosse dichiarò a un
auditorio protestante: «Tutte le nostre libertà sono legate insieme.
Spesso noi siamo stati sul punto di sacrificare alcune libertà politiche
così faticosamente conquistate alle fluttuazioni di un’opinione
pubblica eccitata o agli allettamenti dell’opportunità politica. Stiamo
in guardia contro un conformismo imposto; è la strada che conduce alla
perdita della nostra libertà di fronte a Dio. Per essere un uomo libero
bisogna accettare le differenze: la coscienza di ogni uomo è uguale
all’occhio del Signore».