Il Sole Domenica 16.9.18
Le non ragioni degli atei
La grande domanda metafisica
di Dario Antiseri
«La
scelta fra l’esistenza e l’inesistenza di Dio» – ha scritto Luigi
Pareyson – «è un atto esistenziale di accettazione o ripudio, in cui il
singolo uomo decide a suo rischio se per lui la vita ha un senso oppure è
assurda, giacché a questa opzione si riduce in fondo e senza residuo
quel dilemma. Tale opzione è eminentemente religiosa, anche quando si
risolva in senso negativo, perché il ripudio di Dio è così strettamente
legato all’accoglimento che in alternativa si può farne, che ne conserva
sempre un’inconsapevole nostalgia. La filosofia, poi, in quanto
sopravviene a scelta già fatta, non ha più voce in capitolo, non certo
per affermare l’esistenza di Dio, ma nemmeno per negarla, perché anche
il ripudio di Dio non è frutto d’un ragionamento, ma atto profondo e
originario della persona.
D’altra parte la filosofia non ha il
compito di dimostrare l’esistenza di Dio, perché essa non estende la
conoscenza a nuovi ambiti di realtà, ma riflette su esperienze
esistenziali: il suo compito non è dimostrativo, ma ermeneutico». E va
da sé che il credente che non ha dubbi non ha fede. Hanno dubitato gli
Apostoli. La «notte dell’anima» è esperienza di grandi anime mistiche.
«L’uomo religioso» – è ancora Pareyson a parlare – «può capire il
dubbio, che non è se non il risvolto della sua fede, un aspetto
essenziale di essa o un suo momento interno, giacché la fede è ben lungi
dall’essere un possesso tranquillo, sicuro e incontrastato, favorito
dalla tradizione e ribadito dall’abitudine, ché anzi spesso è lotta
durissima e tensione lancinante, appena lenita dalla consapevolezza
ch’essa è cosa vivente e vivifi catrice, bastevole a ispirare e riempire
una vita intera».
Dunque, se non hai dubbi non hai fede. Ma
l’ateo troppo sicuro di sé usa o abusa della ragione? Quale prova è
disponibile per poter sostenere che il tutto-della-realtà è
rigorosamente e convincentemente riducibile a quella realtà di cui parla
e può parlare la scienza? L’ateismo non è una teoria scientifica. E non
è certamente la scienza, fi nché la ricerca rimane nel suo legittimo
ambito di azione, a negare la possibilità di una realtà trascendente. E
c’è di più. Difatti, se la fede conduce al mistero di un Dio creatore,
l’ateo non si trova pure lui di fronte al fatto misterioso di un grumo
di materia originario da cui si è sviluppata e si sviluppa la storia
dell’universo?
Questo grumo di materia si è autocreato? Come
sostiene Wittgenstein nel suo Tractatus Logico-philosophicus,
l’esistenza dell’universo è un fatto misterioso, suscita uno stupore
abissale. La fisica sposta la «grande domanda» – la domanda metafisica
–, non la elimina. Così come non la elimina, anzi la genera, la teoria
dell’evoluzione della vita. Nessuno può negare che la scienza – con le
sue domande e le sue risposte e la sua storia – non abbia alcun valore
perché costruita da un essere che avrebbe per antenato una «scimmia». Ma
questa «scimmia» rimessa a nuovo, oltre che porsi problemi scientifi
ci, si è posta e seguita a porsi il problema del «senso», del «senso del
tutto», un problema eminentemente religioso. E, allora, con quali
argomenti lo scientista evoluzionista potrà affermare insensatezza,
illusorietà della «richiesta di senso», cioè della domanda religiosa? La
realtà è che la teoria evolutiva della vita non solo non cancella il
problema religioso, ma lo fa emergere.
Scrive Darwin: «Il
sentimento di devozione religiosa è sommamente complesso perché consta
di amore, di compiuta sommissione a un essere superiore elevato e
misterioso, di un forte sentimento di dipendenza, di timore, di
riverenza, di gratitudine, di speranza nell’avvenire, e forse di altri
elementi. Nessuna creatura potrebbe provare un’emozione tanto complessa,
senza che le sue facoltà morali e intellettuali abbiano raggiunto un
certo grado di elevatezza».