Il Sole Domenica 16.9.18
In attesa della fine. Calendari e
lancette mentono: il tempo si oppone ai tentativi di imprigionarlo in un
preciso sistema di misura. Un saggio esplora contraddizioni e
fallimenti del sogno umano di domare l’attimo che fugge
Il grande imbroglio del tempo
di Carlo Ossola
Tutte
le società si sono ingegnate a misurare il tempo, eppure sappiamo – da
sant’Agostino a Erasmo – che il tempo è, al più, un punto e noi, in
esso, un nulla: «Nelle matematiche il punto è come una parte
indivisibile della linea retta e, come dice Euclide, non comporta parte
alcuna. E Plutarco, nell’Educazione dell’infanzia: «Tutta la vita non è
che un punto del tempo» (Erasmo, Temporis punctum, in Adagia, 1170).
Scienza e memoria si alleano a rendere incommensurabile il tempo: «Cos’è
il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe
formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a
parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna
nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo
intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri. Cos’è
dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a
chi m’interroga, non lo so» (Agostino, Confessioni, lib. XI, 14, 17). In
un certo senso, non c’è nulla di più evidente del tempo: «Questo però
posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe
un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo
futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente»
(ibid.); ma, per lo stesso principio, esso fluisce: al punto che, per
percepirlo, dobbiamo darlo per conchiuso, e dunque volto al non mai
esistente: «Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come
esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E
quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in
passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per
essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso
che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non
possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto
tende a non esistere» (ibid.).
Di tante e folte aporie del tempo
dà conto il libro, rapido, informato, brillante di Olivier Marchon ; il
“30 febbraio”, che dà titolo al volumetto, è esistito in Svezia: il 30
febbraio 1712. Tutto ruota infatti, e così gran parte del libro, intorno
alla riforma del calendario giuliano, voluta da papa Gregorio XIII, nel
1582, con la bolla Inter gravissimas; poiché – per il calcolo della
Pasqua – la data dell’equinozio di primavera, sancito dal Concilio di
Nicea del 325 d.C., non coincideva più con il 21 marzo. Si stabilì
dunque che il giorno successivo al 4 ottobre 1582 fosse il 15 ottobre;
il salto di quei dieci giorni che mancarono all’umanità non fu accettato
da tutti i Paesi: gli Inglesi si allinearono soltanto nel XVIII secolo,
i paesi ortodossi e la Russia ancora più tardi (senza contare i
“calendari rivoluzionari” francese e sovietico nel XVIII e XX secolo),
il Giappone nel 1873; l’Egitto nel 1875; la Cina nel 1912; la Turchia
nel 1924. Per quasi quattro secoli si visse, per così dire, in sequenze
difformi di tempo: accade così che Cervantes e Shakespeare siano morti
nella stessa data, ma non nello stesso giorno (23 aprile 1616, con dieci
giorni di differenza) e che santa Teresa d’Avila sia spirata - come
chiosa argutamente l’autore - «nella notte tra il 4 e il 15 ottobre
1582». Il problema del calcolo del tempo tormenta e ispira ancora Jules
Verne e gli detta la splendida parabola del Giro del mondo in 80 giorni,
1873.
Il Novecento ha solo apparentemente “uniformato” il calcolo
del tempo, poiché nello spaziotempo che nasce dalla teoria della
relatività (e dalle ulteriori variazioni che sono seguite) si installa
un “principio di indeterminazione” (Heisenberg), a suo modo raffigurato
da Salvador Dalí (1904-1989) come un continuo modificarsi di «montres
molles», cedevoli, forme insomma di un «tempo invertebrato», dirà Enrico
Castelli Gattinara. È uno scorrere, l’uno sull’altro, di tempi, misure,
convenzioni, quali rappresenta - in una delle sue più acute meditazioni
- Eugenio Montale: «Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri / che
paralleli slittano / spesso in senso contrario e raramente /
s’intersecano. È quando si palesa / la sola verità che, disvelata, /
viene subito espunta da chi sorveglia / i congegni e gli scambi. E si
ripiomba / poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo / solo i pochi
viventi si sono riconosciuti / per dirsi addio, non arrivederci» (Tempo e
tempi, da Satura, II, 1968).
Il tempo – conclude Marchon –
attende la propria fine, e arde di poterla anticipare, ad ogni
generazione inventando Apocalissi: la prossima è attesa per il «19
gennaio 2038 alle ore 3, 14 minuti e 7 secondi»; in effetti, come ha
scritto Murakami in 1Q84: «Ciascuno, nel più profondo del suo cuore,
attende la fine del mondo». Così si chiude il volume e offrirebbe certo
una “freccia” acuminata al XXI secolo; ma mi viene irresistibilmente
alla mente la voce lucida e ironica di un testimone di quella sincope,
dal 4 al 15 ottobre 1582, Michel de Montaigne: «Sono due o tre anni che
in Francia l’anno è stato accorciato di 10 giorni. Quanti cambiamenti
dovevano seguire questa riforma! Fu davvero sconvolgere il cielo e la
terra ad un tempo. Nondimeno, non c’è nulla che si muova dal suo posto; i
miei vicini trovano il momento della semina, del raccolto,
l’opportunità per i loro negozi, i giorni infausti e propizi proprio nel
punto stesso in cui li avevano fissati da sempre. Non si avvertiva
l’errore nel nostro uso, né si avverte l’emendamento. Tanta incertezza
regna dappertutto! Tanto la nostra percezione è grossolana, oscura e
ottusa!».
E annotava infine, rassegnato e impassibile: «Non
abbiamo altro computo del tempo che gli anni. Sono tanti secoli che il
mondo lo usa; e tuttavia è una misura che non abbiamo ancora finito di
stabilire, e tale che dubitiamo ogni giorno quale diversa forma le
abbiano dato gli altri popoli e quale ne fosse l’uso» (Essais, lib. III,
11: Degli zoppi [trad. di Fausta Garavini]). Sì, i nostri anni!: «Eheu
fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni…» (Orazio, Carmina, II, 14).
Il 30 febbraio e altre curiosità sulla misurazione del tempo
di Olivier Marchon, Traduzione di Daniela Marchetti,
Archinto, Milano, pagg. 184, € 20