il manifesto 9.9.18
Svezia, la destra avanza insieme alle diseguaglianze
Oggi
al voto. Il partito xenofobo Sd punta il dito contro i migranti e sale
nei sondaggi. Socialisti dati in forte calo, cresce invece la sinistra
radicale che punta al 10%
Malmö, manifestazione contro le deportazioni di profughi in Iraq e Afghanistan, sotto il corteo del 1 maggio di Vänsterpartiet
Cristiano Lanzano e Cecilia Navarra
UPPSALA
Gli occhi dei media internazionali sono puntati sulla Svezia, che oggi
vota per eleggere il nuovo parlamento, oltre che i consigli regionali e
comunali. Mentre Fox News e Russia Today insistono nel rappresentare il
paese scandinavo come in preda al caos sociale, in Svezia la campagna
elettorale ha mantenuto toni più sfumati.
Dagli ultimi sondaggi,
di cui molti preferiscono ormai diffidare, emergono almeno alcune
tendenze di massima. Socialdemocratici e verdi, al governo negli ultimi
quattro anni, sono in forte calo (i socialdemocratici potrebbero
scendere sotto il 25%, un risultato estremamente negativo per un partito
che è stato il perno storico della vita politica svedese), così come i
Moderati, principale partito dell’opposizione di centro-destra. È invece
quasi certa un’avanzata importante dei Democratici di Svezia, il
partito di destra nazionalista che negli ultimi anni ha cercato di
mettere in sordina la propria origine neonazista e di presentarsi agli
elettori con un programma più “moderato”, abbandonando riferimenti
espliciti al razzismo biologico ed ergendosi a difensore dell’identità
nazionale svedese contro il multiculturalismo. Rispetto al risultato
positivo delle ultime elezioni nel 2014, quando i Democratici di Svezia
avevano guadagnato il terzo posto con più del 12% dei voti, la loro
progressione risulta difficile da prevedere: a seconda dei sondaggi,
potrebbero ottenere tra il 16 e più del 20% dei consensi, avvicinandosi
pericolosamente ai livelli dei socialdemocratici.
L’entità reale
delle tendenze anticipate dai sondaggi determinerà, nei giorni dopo il
voto, le possibilità di coalizione per la formazione di un nuovo
governo. In ogni caso, tutti i partiti dichiarano ufficialmente –
ricambiati – di non volersi alleare con la destra radicale, ma negli
ultimi tempi sembrano emergere dalla leadership dei Moderati ambigui
segnali di apertura.
Come è stato possibile che un paese
“civilizzato” e “umanista” (termini ricorrenti nel discorso
pre-elettorale dei partiti tradizionali), noto per il suo progressismo e
il suo modello consensuale di risoluzione del conflitto sociale, si
ritrovi oggi un elettorato sempre più polarizzato e incline a votare per
un partito di estrema destra? La risposta varia notevolmente a seconda
della prospettiva politica.
La crescita dell’immigrazione, e
l’apertura dimostrata dal governo svedese in una prima fase della “crisi
dei rifugiati” del 2015, è indicata come principale motivo dello
scontento dell’elettorato nel discorso politico dei Democratici di
Svezia, che insistono sul costo dell’accoglienza, sulle difficoltà di
integrazione e sull’aumento della criminalità. In realtà il governo,
dopo alcuni mesi di apertura, già alla fine del 2015 ha annunciato una
stretta sulla concessione dell’asilo e ha ripristinato i controlli alle
frontiere con la Danimarca. Il numero di richiedenti asilo è così
drasticamente calato (dai 163mila del 2015 ai 23mila previsti
quest’anno). Lo scorso maggio, inoltre, il primo ministro
socialdemocratico Stefan Löfvén ha annunciato un pacchetto immigrazione
ancora più restrittivo, finalizzato a una ulteriore riduzione degli
arrivi e a limitazioni nell’accesso al welfare: in seguito a numerose
critiche, incluse quelle della base socialdemocratica, il governo ha
però fatto marcia indietro almeno sull’annunciata esclusione dalle
scuole dei bambini con genitori senza permesso di soggiorno.
Se
dunque la fase di “apertura delle frontiere” è durata molto meno di
quanto si pensi, quanto c’è di vero nella rappresentazione dei
Democratici di Svezia, che additano l’immigrazione come principale causa
della crisi del modello svedese e del peggioramento nella qualità dei
servizi pubblici? Di certo, gli scenari da scontro di civiltà che
paventano la creazione di no-go zones e l’instaurazione della legge
coranica nei quartieri a maggioranza musulmana sono puro frutto della
propaganda nazionalista.
Per quanto riguarda le politiche di
integrazione, sicuramente c’è strada da fare sul fronte della
discriminazione lavorativa: seppure in calo, la disoccupazione tra i
nati all’estero resta molto più alta che tra la popolazione attiva nata
in Svezia (21% contro 4% a febbraio 2018).
Si può, in definitiva,
dire che l’immigrazione è stata finora la causa principale del voto ai
Democratici di Svezia? No, ci suggeriscono i risultati di un recente
studio. L’ascesa del partito di estrema destra non è un fenomeno nuovo:
in particolare ha un’impennata, passando dal 2,9% al 12,9%, tra il 2006 e
il 2014, quindi prima della “crisi dei rifugiati”. Gli studiosi non
identificano nessuna correlazione tra la presenza di immigrati a livello
comunale (e di collegio) e l’aumento dei consensi per l’estrema destra.
Rilevano, invece, un forte collegamento tra quest’ultimo e due
variabili economiche: l’aumento della disuguaglianza e la proporzione di
lavoratori “vulnerabili” (meno qualificati e più esposti agli effetti
della crisi). Più aumenta la disuguaglianza tra chi ha un lavoro stabile
e chi invece deve fare ricorso a qualche forma di sostegno al reddito,
più è grande il guadagno di voti dell’estrema destra. Questa misura
della disuguaglianza non è scelta a caso, ma rispecchia quello che è
avvenuto tra il 2002 e il 2014 con una serie di riforme degli allora
governi conservatori (riduzione delle tasse e della spesa sociale, per
«incentivare l’occupazione») che hanno nettamente approfondito il
divario tra i due gruppi.
Anche se rimane un paese relativamente
egualitario, la Svezia uno dei paesi Ocse in cui la disuguaglianza
aumenta di più a partire dalla metà degli anni Ottanta: la quota di
reddito dell’1% più ricco è tornata ad aumentare (dopo che era
costantemente in calo dagli anni venti), i redditi da capitale giocano
un ruolo sempre più importante, mentre gli effetti redistributivi del
fisco si sono ridotti a causa delle riforme degli anni Novanta. Proprio
sul tema delle disuguaglianze economiche, si levano le principali voci
critiche all’interno della sinistra svedese. «La Svezia ha sempre
ricevuto immigrati e richiedenti asilo, ma il punto di svolta dopo il
quale questo è diventato un problema politico è stato la crisi
finanziaria del 2008», dicono Åsa Linderborg e Göran Greider,
editorialisti e autori di un discusso Manifesto populista recentemente
pubblicato, in cui fanno appello ai partiti di sinistra a recuperare
radicalità nell’azione politica e a tornare a parlare ai lavoratori
concentrandosi sul miglioramento delle loro condizioni materiali: «Alla
radice dei problemi oggi non c’è l’immigrazione, ma le crescenti
differenze di classe». Katalys, un think tank vicino ai sindacati di
sinistra, ha pubblicato a ridosso della campagna elettorale una serie di
studi intitolata, in modo eloquente, La classe in Svezia, dove si
analizzano in profondità i diversi livelli in cui si concretizzano le
disuguaglianze di classe, per concludere che «in presenza di una classe
lavoratrice orientata a sinistra e favorevole a politiche redistributive
(e di una classe media con simili orientamenti), in Svezia lo spazio
per politiche progressiste resta ampio, ma riprendere posto al centro
del dibattito politico e riguadagnare la fiducia della classe
lavoratrice non sarà semplice».