venerdì 7 settembre 2018

il manifesto 7.9.18
Il cortocircuito tra rivolta esistenziale e politica
«Indiani metropolitani», una ricerca del giovane storico Andreas Iacarella, pubblicata da Red Star Press
di Benedetto Vecchi


Sul movimento del ’77 si è scritto molto, oscillando tra memorialistica e incursioni storiografiche, individuando quell’anno – e quegli eventi – come uno snodo centrale negli anni Settanta. Il nodo da sciogliere è la continuità o meno con il Sessantotto e con le culture politiche del movimento operaio, sia quelle maggioritarie che quelle eterodosse. Accanto a ciò un’altra costellazione di temi: la violenza, il ruolo dell’autonomia operaia, le trasformazioni sociali dell’Italia, la crisi economica, l’ingresso sulla scena pubblica di figure lavorative anomale e che, per condizioni e collocazione produttiva, diventeranno più evidenti nei decenni successivi.
IN POCHI HANNO PROVATO a elaborare materiali sugli indiani metropolitani, fenomeno rilevante nei primi mesi del Settantasette. Irriverenti, ironici, facevano il verso ai pellerossa delle riserve statunitensi, perché i giovani universitari e studenti erano relegati proprio in una sorta di riserva indiana non solo dal grande partito comunista, ma anche dalle organizzazioni delle formazioni politiche rivoluzionarie formatasi negli anni Settanta. Sull’«area creativa» alcuni si sono cimentati. La critica d’arte Claudia Salaris o l’artista Pablo Echaurren, le pagine scritte da Marco Crispigni, ma gli indiani metropolitani erano considerati fenomeno a latere.
CHI VUOLE METTERLI al centro della scena è un giovane storico, Andreas Iacarella che, all’epoca dei fatti, non era neppure nato. Questo non gli impedisce di considerare gli anni Settanta un buco nero nella storiografia contemporanea. Così, partecipando a un concorso organizzato a Bologna dal collettivo autonomo universitario e dalla Fondazione Francesco Lorusso, ha presentato un percorso di ricerca che la casa editrice Red Star Press ha poi pubblicato nel volume Indiani metropolitani (pp. 274, euro 20).
L’AUTORE DICHIARA subito la sua insoddisfazione per i libri degli storici mainstream sul Settantasette. Non crede che ci sia stato solo nichilismo, disperazione esistenziale e violenza. Ma non nasconde il suo fastidio neppure per la memorialistica dei protagonisti di allora e delle rimozioni che le costellano, cioè la cancellazione della dimensione esistenziale che si celava dietro la scoperta di autori e lessici politici estranei al marxismo più o meno ortodosso.
Gli indiani metropolitani sono l’incarnazione appunto dell’antipsichiatria, della scoperta del corpo, dell’underground europeo, della lettura frettolosa dei francesi (Foucault, ma anche Deleuze e Guattari). Ironici, dissacranti, stritolati dagli autonomi, che cercano di imporre con la violenza la loro visione e politica, scrive Iacarella senza intenti moralistici. Già qui c’è un cortocircuito di troppo. I confini tra autonomia e indiani metropolitani è sfumato, come testimoniano le scene bolognesi e romane. L’indiano metropolitano era colui che cacciava Lama dall’Università e poi ballava attorno a un improvvisato totem; poteva partecipare agli scontri con la polizia e poi farsi una canna, ascoltando musica psichedelica. Come gli autonomi era cioè insofferente alle forme codificate della politica organizzata.
Pure la dimensione esistenziale vede il movimento sperimentare, dilaniarsi, litigare ferocemente al suo interno. Stabilire confini netti tra creativi e militanti tozzi non aiuta certo la ricerca storiografica. In fondo, Primo Moroni già allora scriveva che il movimento era un mixer tra rivolta esistenziale e rivolta politica. Merito del Settantasette è aver tentato di saldarli assieme, molto più che il Sessantotto.
IL LIBRO SI FA LEGGERE, alternando narrazione a analisi dei testi teorici di quegli anni. Sulla dimensione esistenziale (il disagio individuale e collettivo), l’autore introduce un aspetto che mal si accosta con ciò che accadeva allora. Il riferimento è a Massimo Fagioli, alle sue sedute terapeutiche collettive, considerate allora come una forma di manipolazione e di recupero borghese dell’insorgenza del movimento. Che alcuni partecipanti alle terapie siano stati successivamente bene, sta nell’ordine della terapia psicologica, ma mettere in tensione Massimo Fagioli con gli indiani metropolitani è però un azzardo mal riuscito.

il manifesto 7.9.18
Il Paraguay ci ripensa, l’ambasciata torna a Tel Aviv
Gerusalemme. Netanyahu ha reagito al clamoroso passo indietro del paese sudamericano ordinando la chiusura dell'ambasciata israeliana ad Asunción
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Appena quattro mesi fa, sotto lo sguardo compiaciuto di Ivanka Trump ‎e di suo marito e inviato per il Medio oriente Jared Kushner, Benyamin ‎Netanyahu aveva salutato con enorme soddisfazione il trasferimento ‎dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Nelle previsioni del ‎premier israeliano il passo americano, seguito al riconoscimento fatto ‎sei mesi prima dalla Casa Bianca di Gerusalemme come capitale ‎d’Israele, avrebbe spinto altri paesi, anche europei, a fare altrettanto. ‎Ipotizzava un “effetto domino”. E due paesi, Guatemala e Paraguay, ‎furono rapidi nell’annunciare il trasferimento delle loro ambasciate a ‎Gerusalemme. Circolarono anche voci di una intenzione di Romania, ‎Repubblica Ceca, Bulgaria e Ungheria di seguire la stessa strada. E ‎invece l’effetto domino non c’è stato, la corsa a trasferire le ambasciate ‎a Gerusalemme non è mai cominciata. Anzi l’attacco di Donald Trump ‎allo status internazionale di Gerusalemme rischia di trasformarsi in un ‎boomerang per Israele. Un paese ha persino fatto retromarcia.‎
 Qualche giorno fa il Paraguay ha annunciato che la sua ambasciata ‎tornerà a Tel Aviv, decisione che ha provocato le ire di Netanyahu che ‎ha subito chiuso la sede diplomatica israeliana ad Asunción aprendo ‎una crisi diplomatica con il paese sudamericano. Il presidente del ‎Paraguay Mario Abdo ha difeso la decisione come parte di uno sforzo ‎per sostenere ‎«una pace ampia, duratura e giusta‎ (tra israeliani e ‎palestinesi). Il Paraguay è un paese di principi‎»‎‏.‏‎ La decisione del ‎Paraguay non è frutto di un cambiamento politico radicale ad Asunción.‎‏ ‏Abdo, entrato in carica il mese scorso, appartiene allo stesso partito ‎conservatore del suo predecessore Horacio Cartes, che a maggio aveva ‎inaugurato l’ambasciata del Paraguay a Gerusalemme. Piuttosto è un ‎‎(raro) successo della diplomazia palestinese.‎‏ ‏Il ministro degli esteri, ‎Riyad al Malki, ha incontrato Abdo due settimane fa convincendolo a ‎rivedere la decisione presa dal suo paese e a sostenere le rivendicazioni ‎palestinesi sulla zona araba della città. Applausi al Paraguay sono ‎giunti ieri dalla Lega araba e dalla Conferenza islamica. ‎

Il Fatto 7.9.18
La favola occidentale che condanna Libia e Siria al caos
Miopie - Un premio per l’inadeguatezza politica a coloro che hanno pensato di risolvere i conflitti “gemelli” rimuovendo i rispettivi raìs
di Fabio Mini


Se si volesse essere onesti, per Libia e Siria si dovrebbe coniare una medaglia speciale dedicata all’inadeguatezza politica. Non a quella dei libici e dei siriani, ma a quella di tutti coloro che finora hanno provocato, sostenuto, favorito e combattuto per il cambio di regime dei due paesi. E tali candidati non sono né libici né siriani. In questi giorni i due paesi stanno vivendo l’ennesima fase parossistica di un processo apparentemente opposto, ma a ben vedere speculare: in Siria il regime di Bashar al Assad (più o meno sostenuto da Iran e Russia), tenta di riassumere il controllo del territorio nazionale facendo piazza pulita degli ultimi capisaldi ribelli, in Libia alcune forze ribelli tentano di fare piazza pulita dei governi fantoccio e fantasma voluti dalla cosiddetta comunità internazionale.
Libia e Siria sono due facce della stessa citata medaglia. La loro tragedia è iniziata quasi in contemporanea nel 2011 per volere dei Soloni della politica internazionale. In Siria si sono esposti, con responsabilità (ma sarebbe meglio dire irresponsabilità) gli Stati Uniti in ossequio a una sollecitazione israeliana; in Libia, sempre su sollecitazione e sostegno statunitense, si sono esposti i paesi europei (Unione europea, Francia, Gran Bretagna e Italia). L’abbattimento del regime di Gheddafi, al buio, senza soluzioni per il futuro, è stato il divertissement europeo che ha guidato l’opposizione interna siriana a passare dalla richiesta di riforme alla pretesa “non negoziabile” di eliminare Assad e al ricorso alla guerra dall’esterno. La favoletta che in entrambi i casi si trattasse di guerra “civile” e che gli interventi esterni tendessero a stabilizzare la situazione e a combattere il terrorismo islamico non ha convinto nessuno. Ma egualmente è servita a giustificare sia gli interventi armati sia gli eccessi da una parte e ogni altra. Mentre in Libia gli interventisti euro-transatlantici gioivano del “successo” senza avere nessun controllo del paese e nessuna strategia, il regime siriano traeva spunto dal disastro libico per definire il proprio scopo politico, la strategia e la tattica. Lo scopo: non fare la fine della Libia; la strategia: neutralizzare le iniziative statunitensi e internazionali affiancando ai sostenitori regionali come l’Iran (che in realtà era il pretesto principale dell’intervento americano) un alleato politicamente “intoccabile” con potere di veto alle Nazioni Unite. La tattica: dialogare con i curdi, concentrarsi sullo sforzo militare della repressione, sopportare le interferenze e gli attacchi israeliani e cedere la regia delle operazioni ai russi. La revisione geo-politica del sistema Siria sarebbe avvenuta solo dopo aver ripristinato il controllo governativo su tutto il territorio. E, a quel punto, non è scontato che la Siria sia disposta a cedere territorio ai curdi, ai turchi, agli iraniani e agli stessi russi.
L’attacco a Idlib, con tutta la sua drammatica componente umanitaria, tenta di avvicinarsi a questo risultato. Se fallisce e produce soltanto un altro massacro è a causa degli interventi esterni di coloro che dai tempi del defunto senatore McCain, con o senza l’adesione dello stesso governo statunitense, sostengono, armano e pagano ribelli, mercenari e jihadisti. In Libia non esistono più né istituzioni né strategie, ma solo lotta per la supremazia da parte di milizie asservite più o meno saldamente ai più disparati gruppi locali, alle multinazionali del petrolio e alle politiche pretestuose di Francia, Gran Bretagna, Italia e Usa. Ma anche in Libia c’è qualcuno che ha tratto beneficio dall’esperienza siriana.
L’intera regione di Bengasi è sotto controllo di una fazione libica che ha scelto come sponsor non disinteressato l’Egitto del generale Al Sisi con l’idea di ripristinare in Libia un regime autoritario. Ma non come quello di Gheddafi, isolato e avulso dal contesto continentale, ma come quello di Assad che è riuscito a neutralizzare gli oppositori internazionali consegnandosi a un grande alleato. L’Egitto si ritiene un grande alleato e tramite il sostegno degli Stati Uniti e dell’Europa pensa di avere un ruolo determinante negli affari africani e mediorientali. Di fatto, in Libia, gli egiziani hanno già pronto il generale Haftar che se ne frega della democrazia sbandierata dalle Nazioni Unite, che mina dall’interno e dall’esterno ogni tentativo di stabilizzazione del paese e che ha promesso fedeltà all’Egitto e acquiescenza nei riguardi degli interessi economici europei e americani.
Oggi si pensa che il caos libico sia irrimediabile a causa delle molte fazioni locali in gioco. È vero fino a un certo punto. Il caos è destinato a permanere all’infinito se non cessano le pressioni e le mire egemoniche esterne. Paradossalmente sarebbe più facile convincere i vari signori della guerra e le tribù militanti della necessità e dei vantaggi di un accordo nazionale se Al Sisi e Haftar non facessero parte del gioco. Purtroppo, i paesi europei e americani responsabili dello sfascio libico attuano una politica opposta. Mentre a parole fanno sfoggio di sostegno al governicchio di Al Serraj (che non rappresenta nessun libico) strizzano l’occhio e baciano le mani agli egiziani e allo stesso Haftar. Meritano pienamente la medaglia.

La Stampa 7.9.18
In Turchia è il governo di Erdogan il primo nemico delle donne
di Mirella Serri


In Europa erano le prime e oggi sono le ultime: negli Anni Trenta le donne turche erano all’avanguardia del mondo occidentale nel far valere i propri diritti (il traguardo del voto arrivò per loro prima che in Italia, Francia, Grecia). Oggi sono sempre più il fanalino di coda: nell’ultimo decennio l’universo femminile turco ha proceduto con un accelerato passo del gambero. Questo il Leitmotiv di Antabus, romanzo-denuncia (in uscita in questi giorni da Neri Pozza, pp. 142, € 16) di Seray Sahiner, nata a Bursa e vissuta a Istanbul, che ha messo in agitazione la pubblica opinione del suo Paese.
Scrittrice, femminista, attivista per i diritti civili tra le più note e combattive, Seray è stata anche condannata per le posizioni durissime contro il presidente Erdogan e suo figlio Bilal. In Antabus - il titolo rimanda alla medicina contro l’alcolismo - la vicenda della dolce e remissiva Leyla, unica figlia femmina in un ambiente molto povero e retrogrado, è paradigmatica del rapporto tra i sessi nella nazione in cui gli stupri sono aumentati negli ultimi anni del 400 per cento e in cui 5 donne ogni ora e 115 ogni giorno si trovano di fronte a una minaccia di omicidio da parte di mariti, padri o fratelli.
Giovane, di maniere eleganti e garbate, Leyla è infatuata del bellissimo Ömer, il capo reparto della ditta in cui lavora. Ma una sera, mentre si attarda alla sua macchina per cucire, viene stesa a terra e violentata da Hayri Abi, proprietario dell’azienda tessile e amico di famiglia. Suo padre e suo zio, subdoli e pronti all’esercizio del potere e al tradimento, accettano di mettere tutto a tacere per un pugno di lire turche. Suo fratello, l’unico che in famiglia non ha mai alzato le mani su di lei, la riporta dai parenti dopo un tentativo di fuga facendola cadere in un tranello. Quando Leyla gli confida l’offesa subita dal suo datore di lavoro, Ömer non si lascia scappare l’occasione di un coito.
Persa dunque la verginità, la famiglia, sempre per quattrini, la cede in sposa a un vecchio ubriacone paranoico che per anni la percuote ogni giorno davanti alla loro bambina. Le tribolazioni di Leyla vengono ignorate da amici, parenti e vicini di casa: questi ultimi la redarguiscono anche se è sanguinante e piena di lividi: «Stai calma. Sono cose che succedono tra moglie e marito». Oppure: «Pensa a tua figlia». La polizia la dissuade dalla denuncia.
Questo il calvario di Leyla: le difficili situazioni che affronta rappresentano altrettanti segmenti della vita quotidiana delle donne turche. I dati sono sconcertanti: la violenza domestica è in crescita e colpisce il 48 per cento del gentil sesso. Le politiche governative propongono un modello femminile legato alla tradizione, il presidente ripete regolarmente che uomini e donne non sono uguali e che il destino di queste ultime è la maternità. È necessario mettere al mondo almeno tre figli, è l’esortazione ufficiale, e, ironia della sorte, proprio come avveniva per la campagna demografica condotta dal fascismo, quanto più si rafforza la propaganda tanto più diminuiscono le nascite.
Il tasso di occupazione femminile è del 26 per cento e fioccano i consigli dei politici che invitano signore e signorine a non sorridere in pubblico o ad abbigliarsi in maniera adeguata. L’analfabetismo domina nelle zone rurali. Ma soprattutto sono in grande aumento i femminicidi. Le ragioni? La scrittrice le chiarisce nel suo racconto. Sono sempre più numerose, nonostante le difficoltà, le mogli e le figlie che alzano la testa. Se non vogliono entrare nel novero delle vittime, devono ricorrere all’eliminazione fisica del marito. Questa è la soluzione romanzesca. Ma, oltre la fiction, la Sahiner non si arrende, continua la sua militanza e la campagna per sensibilizzare il mondo femminile sul fatto che il primo ostacolo all’affermazione delle sue libertà è il governo in carica.

Corriere 7.9.18
L’estremista che spaventa la Svezia
La destra di Jimmie Akesson, web designer trentanovenne, punta a essere primo partito
Gli altri provano a fare muro
di Francesco Battistini


STOCCOLMA «O faccio la Svezia, o non gioco». L’infanzia d’un Capo è negli aneddoti e di Jimmie bambino ne raccontano quanti ne volete. Che detesta gli immigrati perché un piccolo arabo una volta lo fece cadere dalla bici, sputandogli addosso. Che non studiava granché, ma sapeva tutto dei Vichinghi. Che già da ragazzino s’interrogava: possiamo aprire ai rifugiati danesi se c’è una guerra in Danimarca, ma perché i somali? Che se c’era da giocare a hockey su tavolo, una specie di subbuteo degli scandinavi, lui ci stava solo se gli davano la squadra in maglia gialloblù: «Questa è vera – s’è fatto una risata Jimmie Akesson, quando gliel’hanno ricordato —. Fin da quando andavo a scuola, sono sempre stato nazionalista. La Svezia agli svedesi».
Sweden First. Domenica, gli svedese non votano solo per la Svezia. Scelgono se rimanere campioni assoluti della socialdemocrazia e del modello che li governa da cent’anni; oppure se far navigare il loro drakkar nel nuovo mare dei movimenti antimigranti e antieuropei. Prolungando la linea sovranista che parte da Stettino, passa per l’Ungheria e l’Austria, arriva fino a Trieste e divide sempre più il Continente. «Questo è un referendum», annuncia Akesson, favoritissimo leader destrorso di Sverigedemokraterna (Sd), Svezia democratica, «fra chi vuole il solito arcobaleno che ci ha riempito d’immigrati» e chi, invece, sogna il gialloblù dominante promesso da lui: «O il nostro vero welfare che si occupi degli svedesi, o la politica dell’asilo per tutti». La svolta è nell’aria, anche perché da queste parti sono storicamente abituati a novità più o meno scioccanti: fra i primi ad avere partiti femministi e ambientalisti, a rifiutare l’euro quando tutti ci entravano, a fare i conti con gli hacker che bombardavano le campagne elettorali, per non parlare dei misteriosi assassinii di leader politici, da Olof Palme ad Anna Lindh... Sulla piazza di Varnamo, Akesson si prende l’abbraccio d’un sudanese in giubba bianca che lo voterà — «heja Jimmie!» — e il messaggio beneaugurante dell’amico Matteo Salvini: «Caro Jimmie, dopo il voto spero d’incontrarti in una nuova, prestigiosa veste istituzionale».
A 39 anni e al quarto tentativo, in un Paese che solo nel 2014-2015 ha aperto a 250mila migranti (su 10 milioni d’abitanti) e toccato il record mondiale dell’accoglienza, il sovranista supremo cavalca le paure delle gang magrebine di periferia, propaganda il numero quintuplicato di stupri, ricorda sempre il Trump in campagna elettorale che agli americani diceva «non vorremo diventare come la Svezia?», promette vagamente una sua Swexit dall’Ue e alla fine ha ottime probabilità: i sondaggi lo fanno balzare dall’attuale 13% al massimo storico del 18-20, «ma possiamo diventare il primo partito», mentre i socialdemocratici precipitano dal 40 al 25, pronti al peggior crollo di sempre.
I comunisti in Volvo, come li chiamava un po’ sprezzante il Financial Times, non è detto che perdano la guida. A Stoccolma si governa in coalizione e contro la Sd, nata sulle ceneri di vecchie formazioni neonaziste, è già pronto un fronte comune di centrosinistra e centrodestra. #tuttomanonsd è l’appello online di 250 intellettuali. A questa vittoria temuta da moltissimi, Jimmie s’è preparato con cura. Ha cacciato dal partito i razzisti impresentabili, compresa la suocera che s’era abbandonata a dichiarazioni antisemitiche, e poi ha cambiato il simbolo da una torcia fiammante in un tenero fiorellino gialloblù, aperto alle famiglie gay, messo un po’ da parte gli attacchi alla legge sull’aborto.
Figlio d’un manager e di un’assistente sociale, studi universitari mai finiti, professione web designer, una compagna e un figliolo, una villa con piscina alle porte di Stoccolma, un debole per il videopoker, una depressione grave che lo colpì anni fa, nell’ascesa di Akesson restano le ombre del suo presunto passato neofascista. La quantità d’iscritti ancora legati all’estrema destra, che postano gli sfottò ad Anna Frank e frasi tipo «ci sono più parassiti in un afghano che in un cane svedese». Ai suoi elettori, sono cose che importano poco. Sulla piazza di Varnamo l’accolgono già da leader. Jimmie Be Good. Lui alza un braccio: «Portiamo la nave sulla rotta giusta».

Repubblica 7.9.18
La crescita della destra
La fragilità frlla destra è la nostra
di Nadia Urbinati


La destra — che usa l’eufemismo di "sovranismo" come patente di legittimità — cresce a macchia d’olio nei sondaggi del Nord del continente, non meno che a Est e a Sud. Alle elezioni di domenica in Svezia, le previsioni dicono che la nazionalista SverigeDemokraterna (Sd) si potrebbe piazzare tra il terzo e il primo posto. Forse i socialdemocratici vinceranno, ma la crescita delle destre potrebbe mettere a dura prova il futuro governo. Come in Italia, anche nel Paese scandivano le responsabilità della inquietante sterzata a destra vengono addossate ai governi di centrosinistra — accusati di opacità nella leadership e di impotenza nell’arginare l’immigrazione. A Stoccolma non è la crisi economica, quanto la qualità della vita a mettere in discussione la maggioranza uscente. Alcuni osservatori parlano di una lotta sui «valori e l’identità svedese».
L’impennata immigratoria del 2015 ha interessato la Svezia, che insieme alla Germania è tra i Paesi con più alta percentuale di accoglienza. Le élite socialdemocratiche hanno sottovalutato il problema "identità" e "sicurezza", due argomenti che il partito nazionalista sfrutta abilmente. Non è in questione il livello del welfare, generoso anche con gli immigranti, ma la "cultura" e la "lingua", due "valori" che la mescolanza di etnie mette in discussione. L’integrazione in Svezia non è lasciata al caso ma governata scrupolosamente, proprio per proteggere i "valori" nazionali e sociali. E per battere l’opposizione di destra, i governi socialdemocratici si sono convertiti alle politiche delle frontiere chiuse. La sinistra forse vincerà le elezioni, ma è sempre più vicina alla destra.
La Svezia è di grande interesse, sia per misurare il trend europeo in vista delle elezioni del 2019, sia per leggere dentro la storia della democrazia europea. Una storia che non è anti-nazionalista. La storia della socialdemocrazia scandinava è di programmato benessere nazionale e nazionalista; non proprio un capitolo dell’internazionalismo proletario.
L’emergere del Partito dei lavoratori (Sap) negli anni ’30, mentre parte d’Europa era nazionalsocialista e fascista, coincise con una coalizione pro-socialista che univa lavoratori e contadini all’interno di un progetto nazionalista. La creazione di un popolo di lavoratori e buoni cittadini fu un programma di successo non privo di ombre inquietanti, come la politica eugenetica finalizzata alla creazione di una popolazione di sani e robusti lavoratori che aveva il compito di scoraggiare l’immigrazione. La politica di sterilizzazione dal 1935 marciò con le politiche socialdemocratiche e fu rivelata con orrore e abolita solo nel 1975. La politica del benessere sociale fu di successo, ma con una connotazione nazionalista. La biopolitica doveva servire a cambiare la società.
Vi è un aspetto che non viene messo in luce quando si analizza l’attuale rinascita della destra xenofoba nel vecchio continente, di cui la sinistra riformista in Svezia è un caso esemplare: ovvero che la democrazia ha partecipato alla cultura ideologica nazionalista. Se, come Yascha Mounk ha scritto su Repubblica, i moderati non sanno far diga ai nazionalisti radicali perché cedono alle loro sirene ideologiche, non è solo per insipienza tattica dei partiti moderati.
L’ideologia che li innerva è della stessa pasta. La fragilità della democrazia europea è in questo senso tutta interna alla storia della democratizzazione dei Paesi del vecchio continente, una storia che ha confini porosi con il nazionalismo e perfino la xenofobia.

Repubblica 7.9.18
Agnello Hornby "Che delusione il #MeToo La violenza non ha sesso"
La scrittrice porta in scena a Mantova uno spettacolo sugli abusi. Dove le vittime non sono soltanto le donne
Intervista di Raffaella De Santis


MANTOVA Simonetta Agnello Hornby ha come dote la franchezza. Abituata da avvocato ad essere pragmatica non si preoccupa se quello che dice può apparire impopolare e deludere chi l’avrebbe voluta tra le scrittrici #MeToo. Ieri mattina era a piazza Sordello, a Mantova, per organizzare le prove di uno spettacolo, tra gli eventi principali del Festivaletteratura di quest’anno. Una performance di parole e musica per parlare della violenza sulle donne, realizzata insieme alla sua amica Filomena Campus, vocalist e jazzista capace di usare la voce come il più sofisticato degli strumenti. Così almeno si leggeva nelle poche righe di presentazione del programma. Non è così. Credevo che, questo il titolo, denuncia la violenza, punto e basta, senza frontiere di genere, portando sulla scena i casi di signore carnefici e disabili senza scrupoli. «Sono per la liberazione delle donne, ma non amo la logica del gregge. Il #MeToo? Una delusione, anche se dirlo mi dispiace». È tardi, la scrittrice dovrebbe iniziare le prove, ma si capisce che l’argomento la prende. Si accalora, gesticola. Nonostante la sua eleganza e la camicia turchese di seta indiana ogni tanto le scappa qualche parola forte.
Eppure lei ha partecipato ai movimenti di liberazione degli anni Settanta.
«Cominciai col femminismo in quel periodo, ma fin da allora non ne condividevo alcuni atteggiamenti, tipo la mania di togliersi il reggiseno a tutti i costi. Io allora allattavo e dissi: non posso, grazie. Venivo perfino guardata male perché aspettavo un figlio. A chi mi criticava rispondevo: dobbiamo pur riprodurci (ndr, ride)».
Trova invecchiata la parola femminismo?
«Femminismo e maschilismo sono parole sbagliate perché esaltano un genere. Mi piace di più parlare di movimento di liberazione della donna».
Non era necessaria quella lotta?
«Ma certo, la nostra situazione era brutta, dovevano farlo. Ma abbiamo esagerato, fino a darci la zappa sui piedi».
Non può essere solo la storia dei reggiseni ad averla allontanata…
«Un altro episodio allora. Il mio studio legale era prevalentemente femminile. È stato il primo studio in tutta l’Inghilterra ad avere un dipartimento dedicato alla violenza domestica. Mettemmo un annuncio sul giornale per trovare un bravo avvocato che gestisse questo dipartimento. Il migliore era un maschio, lo abbiamo preso. Anche in quel caso ci furono critiche. Ecco, non ho mai condiviso questo modo delle donne di fare ghetto».
Cosa pensa del movimento #MeToo?
«Non mi sono piaciute le accuse tardive. Non è giusto accusare una persona quando è scattata la prescrizione e non può più difendersi. Il lungo silenzio di Angelina Jolie mi ha molto delusa. Poteva accadere di rimanere zitta a una persona ignorante e lo avrei capito, ma non a lei, ambasciatrice Onu, donna impegnata».
Ma crede davvero che il silenzio, anche di una star, calcoli la prescrizione e non sia invece frutto di altre paure?
«Non lo so, ma non serve essere avvocati per sapere che dopo un po’ il reato cade in prescrizione.
Ho la sensazione che il #MeToo sia diventato una moda, un modo per dire "ci sono anch’io" e fare gregge. Le racconto una storia…».
Lo sa che sta rischiando di attirarsi strali…
«Non ho paura. Nessuna. Anche perché purtroppo il #MeToo sta crollando. Mi rattrista, sarebbe stato importante avere un movimento serio ma è diventato una farsa…».
Ha seguito la vicenda di Asia Argento, prima tra le animatrici del #MeToo e ora in difficoltà dopo le accuse di presunte molestie da parte di un giovane attore?
«Ne ho sentito parlare, ma non conosco bene il caso».
Ha consigli da dare alle nuove femministe per evitare eventuali trappole?
«Non ho la soluzione, posso solo far vedere le incongruenze. Le racconto una storia. Venticinque anni fa venne nel mio studio un bellissimo ragazzo della City.
Sbottò dicendomi che la sua capa voleva fare sesso con lui. Lo ricattava e gli diceva: se non lo fai, dico che mi hai violentata.
Lui piangeva, aveva paura di perdere il lavoro. La donna al potere in questo caso si comportava come il maschio al potere».
Come ha iniziato a occuparsi di casi di violenza?
«Con il caso di Mrs Gomez. Era una cinquantenne che si vestiva da ragazzina, era sorda dalla nascita. Aveva un marito brasiliano molto più giovane di lei che la menava. Arrivò da me dopo essere uscita dall’ospedale.
Ottenemmo subito l’allontanamento ma non volle perseguirlo penalmente. L’anno dopo lui l’ammazzò».
Lei però porta in scena anche donne carnefici.
«Sono avvocato e ho fatto il giudice. Il mio Dio è la giustizia. La giustizia in difesa di chiunque sia maltrattato. E in questo donne e uomini possono fare del male e del bene allo stesso modo. Non è il sesso il problema, ma il potere e chi lo esercita sui più deboli. Nello spettacolo racconto il caso di una ragazza che picchiava e buttava acqua bollente in faccia al suo fidanzato più giovane».
Crede davvero sia così diffusa la violenza al femminile?
«Lo è, ma non è confessata, perché i maschi si vergognano e non la denunciano. La considerano una forma di debolezza. È la quotidianità, ma non esistono statistiche degli uomini ammazzati dalle donne».

Repubblica 7.9.18
La città delusa
La rabbia di Taranto "Traditi dai 5 Stelle"
di Chiara Spagnolo


TARANTO Una città ferita che ha paura di morire.
Taranto non è una città sollevata nel giorno in cui al Mise è stato firmato l’accordo per la cessione dell’Ilva ad Arcelor Mittal. È delusa. Innanzitutto dal Movimento 5 Stelle, che in campagna elettorale aveva promesso la chiusura delle fonti inquinanti del siderurgico e a distanza di sette mesi ha suggellato la cessione. La contestazione è nell’aria. Davanti alla fabbrica in cui i pentastellati avevano raccolto una parte consistente di quel 47% che li aveva fatti diventare il primo partito della città. E poi sui social, dove la base si rivolta contro la dirigenza, e nelle strade. In piazza Della Vittoria, durante le 24 ore di sit-in al grido "Non c’è più tempo", si presenta la deputata pentastellata Rosalba De Giorgi.
La chiamano «venduta», le urlano «ci hai traditi», lei abbozza una replica ma va via sotto scorta. La tensione è alta e la rabbia negli occhi delle mamme che hanno perso i bambini, di chi ha dovuto piangere mariti, fratelli, amici, colleghi. L’accordo che a Roma è stato salutato come un successo, in questa Puglia che fu Magna Grecia diventa una beffa. Perché la salvaguardia dei posti, che pure si è strappata a fatica, non restituirà la salute a chi l’ha persa respirando i fumi dell’acciaieria. «I morti non torneranno — dice un operaio 43enne — e domani potrebbe toccare a uno di noi».
Disapprovazione e rassegnazione. Come accade da anni in una terra che è stata obbligata a scegliere fra salute e lavoro. E che pochi mesi fa aveva creduto nel miracolo 5 Stelle, quello che avrebbe invertito la rotta e chiuso le fonti inquinanti, che avrebbe bloccato le grandi opere: «Non soltanto l’Ilva — ricorda Virginia, del Comitato cittadini liberi e pensanti — ma anche il gasdotto Tap». La promessa era allettante: non chiusura ma riconversione, come aveva detto Beppe Grillo quando era venuto a Taranto.
Illusioni crollate in pochi mesi.
Che hanno riportato la gente per strada, mentre il sindaco Rinaldo Melucci si diceva soddisfatto «nonostante ci sia ancora tanto da fare in termini di bonifiche, tutela della salute e diversificazione produttiva». E l’arcivescovo, monsignor Filippo Santoro, parlava di «un punto di partenza che sembra positivo». Per molti tarantini, invece, questo è il punto del non ritorno. E per questo hanno deciso di passare la notte in piazza, come spiega Antonella Coronese del comitato Help Us: «Siamo stremati, abbiamo bisogno di supporto psicologico per andare avanti». Andare dove?
Molti vorrebbero fuggire via da Taranto, quasi nessuno può farlo.
«Chi vive ai Tamburi è come un condannato a morte». Nel quartiere in cui anche gli edifici sono diventati rossi, nulla ha più valore, né la salute né le case. Il destino appare segnato. E gli investimenti annunciati per la riconversione in impianto pulito vengono considerati inutili: «Nel contratto è stata mantenuta l’impunità per l’acquirente», dicono gli operai. Per loro significa che il nuovo proprietario potrà continuare a inquinare impunemente come fecero i Riva anche se il governatore Michele Emiliano avvisa: «Senza garanzie sulla salute non darò mai il mio assenso al piano ambientale». «E anche a non investire in sicurezza sul lavoro», dice Alessandro Semeraro, lavoratore con un passato da sindacalista deluso. Del resto, 12 morti sul lavoro in sei anni sono una una maledizione: la stessa che il 17 maggio ha portato via Angelo Fuggiano, che a 28 anni lavorava nell’Ilva per una ditta dell’indotto. Abitava ai Tamburi e respirava diossina dentro e fuori il siderurgico. «Forse è una fortuna che non abbia visto questa giornata in cui dicono che tutto è cambiato ma tutto è rimasto uguale», dice un suo amico.

Repubblica 7.9.18
La via stretta della sinistra e del cavaliere
di Stefano Folli

Colpisce la virulenza delle reazioni via web all’intervista di Massimo Cacciari all’Espresso, quando invece si tratta del contributo forse più significativo alla discussione sul futuro del centrosinistra. Non del Pd, le cui sorti ormai sembrano più che compromesse, ma di quell’area che comunque dovrà esistere se si vuole evitare che l’opposizione si estingua per un numero imprecisato di anni. È evidente, infatti, che sul versante del centrodestra non c’è da attendersi alcuna novità in termini di idee e di proposte. Oggi a Berlusconi resta solo una strada: negoziare con Salvini i termini di un armistizio e poi sancire un patto con garanzie. Queste ultime riguarderanno, come è intuitivo, le aziende del fondatore di Forza Italia. E il patto potrà prendere forma in due modi.
O una fusione negoziata con la Lega (ma è dubbio che Salvini abbia interesse a un simile progetto, visto che sta già assorbendo gli elettori berlusconiani).
Ovvero un’alleanza tra il Carroccio e una sigla moderata centrista di ridotto peso elettorale, ma in grado di raccogliere consenso nel mondo produttivo e delle professioni. Quello che non è proponibile — ormai è chiaro — è un’intesa fra gli sconfitti, Forza Italia e Pd ex renziano.
Offrirebbe un ulteriore e decisivo vantaggio al fronte giallo-verde e ai due partiti distinti ma convergenti che lo compongono.
Quindi il futuro dell’opposizione, almeno nel medio periodo, si gioca nel campo del centrosinistra. Dove i piani per la ricostruzione sono finora poco consistenti. Il dibattito interno al Pd non va oltre il tentativo di riassetto di un ceto politico in cerca di sopravvivenza. Anche gli interventi migliori, a cominciare dalle interviste di Zingaretti e Franceschini a Repubblica, non sfuggono a questa impressione. La stessa ipotesi di cambio del nome, se non si accompagna a un "nuovo inizio", rischia di ridursi a una operazione cosmetica di scarsa utilità.
Quanto all’idea di creare una sezione italiana del partito di Macron, essa aveva un senso fino a qualche tempo fa, sull’onda dell’entusiasmo per l’avvento del dinamico presidente francese innamorato dell’Europa. Oggi ha perso parecchio smalto. A Parigi l’europeismo ha presto lasciato il posto al nazionalismo e alla difesa prioritaria degli interessi francesi. Di conseguenza in Libia, e prima ancora a Ventimiglia, sono affondate molte illusioni. La crisi degli establishment europei, in parte sotto la pressione di Trump, ha fatto il resto.
Qui si inserisce Cacciari con la suggestione di Nuova Europa. Che contiene in sé un approccio abbastanza originale: il centrosinistra rifondato dovrà essere in qualche misura «transnazionale», ossia dovrà calibrare la sua iniziativa politica su un orizzonte largo. Dovrà riuscire a trovare, in altre parole, una credibilità inedita misurandosi sulla scala europea dei problemi. È uno sforzo di rispondere alla sfida dei cosiddetti sovranisti, ma senza appiattirsi nella difesa di un’Europa che negli ultimi 25 anni ha commesso troppi errori e alla fine è quasi fallita. Anche se non lo ammette. Nuova Europa, sembra di capire, lega il futuro del centrosinistra alla capacità di individuare un diverso modello di Unione, immaginando un ruolo per l’Italia. Forse è utopia, ma varrebbe la pena che nel Pd se ne discutesse. Soprattutto perché la linea attuale non sembra avere respiro. Infatti si limita a dividere l’Europa in maniera manichea: da una parte Salvini, Orbán, le destre sparse; dall’altra i Macron, le Merkel, i Sánchez eccetera. Ma nel manicheismo i nazionalisti vincono perché gli altri propongono solo lo status quo.