giovedì 6 settembre 2018

il manifesto 6.9.18
Steve Bannon e la società dell’odio
Venezia 75. La Storia e il presente degli Stati uniti raccontato da Errol Morris in «American Dharma». Protagonista del doc è lo stratega di Trump, in un faccia a faccia con il regista
di Cristina Piccino


VENEZIA Tra i «buoni» e i «cattivi» Errol Morris sceglie quasi sempre questi ultimi come lente possibile attraverso la quale indagare la Storia e il presente dell’America – eccezione, la magnifica serie presentata lo scorso anno sul Lido, Wormwood, quasi invisibile su Netflix. Forse perché spogliati dall’accezione «demoniaca» di un male astratto e messi davanti alle macchina da presa a motivare le proprie scelte e azioni, alcuni personaggi «critici» assumono una concretezza che ci costringe a confrontarci con ciò di cui si fanno portavoce – o che riescono abilmente a manipolare. Morris non li mostra come i «nemici», o come il male assoluto, cosa che è per certi aspetti rassicurante; le sue sono investigazioni a tutto campo, costruite sul dubbio più che sulla certezza, che all’attualità uniscono altri elementi, guardano indietro, scandagliano il mito e gli immaginari.
Era così in The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S. McNamara (2003), lunga conversazione con uno dei principali artefici della guerra in Vietnam, o in The Unknown Known, faccia a faccia con Donald Rumsfeld, guerrafondaio segretario della difesa di Bush (e di molti altri). Lo stesso accade in questo nuovo American Dharma, presentato fuori concorso ieri, la cui materia è ancora più sfuggente perché le questioni che solleva hanno contorni ancora indefiniti, appartenendo a un presente in svolgimento. Il protagonista è infatti Stephen K. Bannon (presenza clandestina alla proiezione ufficiale ieri dove sembra sia entrato di soppiatto a luci spente scomparendo prima degli applausi), ideologo dell’alt right, e principale stratega della campagna elettorale di Trump che lo ha nominato consigliere della sicurezza per allontanarlo dalla Casa Bianca nel 2017 dopo le violenze di Charlottesville (l’attacco dei suprematisti contro il corteo antirazzista) che Trump non ha mai condannato apertamente.
Un gesto di opportunismo o di convenienza? – perché il potere di Bannon era troppo cresciuto al punto che c’è chi lo rappresentava come il burattinaio del presidente («Time»). Questo non significa che sia declinato, anzi Bannon è divenuto l’ispiratore dei movimenti nazionalisti e populisti in Europa, Salvini compreso con cui condivide gli obiettivi, razzismo, caccia all’immigrazione, ma soprattutto l’abilità di stumentalizzare quella parte della società più debole e incazzata, facendogli credere di essere a suo fianco mentre elabora alleanze coi grandi capitali che li schiacceranno.
Destino, dovere, fede, cosa è il «dharma» per Bannon che potremmo definire «un abile figlio di puttana» ascoltandolo nelle sue convinzioni? E quale la «rivoluzione» incendiaria di cui vede l’arrivo imminente? Morris e Bannon si conoscono da tempo, al rimprovero che l’uomo gli fa per avere votato Hillary Clinton alle primarie il regista risponde che lo ha fatto per paura: «Avevo paura di voi, di te», e Clinton era la candidata pensava potesse farcela. Nella conversazione, uno di fronte all’altro e davanti a un tavolo, quasi nient’altro a parte qualche divagazione di stile – orologi fermi, lampadari che oscillano – Morris pone le sue domande senza attaccarlo, non è questo che lo interessa appunto. Non è il processo o la messa in accusa o la presa di distanza dichiarata con nettezza sin dall’inizio. Il suo metodo di osservazione punta alla sostanza, vuole capire cosa sono quelle idee, da dove nascono, in che modo diventano pensiero condiviso e linguaggio che affranca violenza e intolleranza.
Bannon identifica in Trump la figura ideale per «ristrutturare» la vita politica, solo uno come lui che nel proprio linguaggio affranca la «cautela» politica anche dei conservatori – «Aveva il fegato per farlo», lui ha già iniziato curando il sito di estrema destra di Andrew Breitbart, «Breitbart news», sa come usare media – e spettacolarizzare «bene» e «male»”. Il Bannon buono è quello accanto ai poveri, il cattivo tutto il resto. Peccato che come gli fa notare Morris i piani della loro politica sono tutti a favore dei ricchi. Dunque? Il film preferito di Bannon, citato molte volte nel corso della conversazione è Cielo di fuoco di Henry King (1949), la doppia idea di leadership sul campo della seconda guerra mondiale espressa da un vecchio comandante, più vicino ai sioi uomini, e un altro più duro ma che non reggerà lo stress.
Ci sono altri film che dialogano con il Bannon-pensiero, Sentieri selvaggi di Ford o Falstaff di Welles, Il ponte sul fiume Kwai di Lean in una relazione con l’immaginario che ne strumentalizza i significati secondo la necessità, quasi che lì si rispecchino i desideri di una nazione. Questione di punti di vista, naturalmente. Questa prospettiva ne spalanca altre: l’America del «caos» in cui è precipitata dal 2016 – come dice Morris – è quella della violenza durante la campagna elettorale, dei commenti feroci sui social network, dell’insulto utilizzato come «normale» mezzo di confronto, della rete che diviene l’arma privilegiata per rovinare l’avversario a colpi di wikileaks scandali sessuali.
La strategia di Bannon fa rimbalzare quell’immaginario nel presente social, nello sfogo della rete per renderlo realtà. La campagna di Trump la costruisce sui posti di lavoro, sulla miseria che i migranti contribuiscono a accrescere, sulla necessità del protezionismo. Replica Morris: «Ma davvero pensate che la gente creda che se si blocca l’immigrazione ci sarà più occupazione? Diciamo più semplicemente che alla gente non piacciono i messicani». Questo è il punto. L’immaginario come cartografia del rancore contemporaneo, quel razzismo sedimentato, che quel linguaggio politico (come in Italia il linguaggio di Salvini) accarezza, esalta, libera, rende parlare comune, scelta di voto. È la stessa tattica di ogni populismo, è la consapevolezza necessaria al confronto con la realtà del presente che Morris illumina con chiarezza. Senza soluzioni pronte, ma l’inquietudine di una domanda che è l’urgenza dell’oggi.