il manifesto 6.9.18
La misura del Sole contro tirannide, sofismi e ipocrisia
Un percorso di letture su Tommaso Campanella, a 450 anni dalla nascita
Marco Bagnoli, «Città del sole» (1988, il dettaglio è del lucernaio)
di Gregorio De Paola
Il
5 settembre 1568 a Stilo, un piccolo paese della Calabria ultra, da
Geronimo Campanella, ciabattino analfabeta e Catarinella Martello,
nasceva Giovan Domenico, che più tardi, indossato il saio dei
domenicani, prenderà il nome di Tommaso. Ricorrono dunque i 450 anni
dalla nascita di uno dei «massimi pensatori del tardo Rinascimento» –
per dirla con Eugenio Garin – noto soprattutto per un’operetta,
capolavoro della letteratura utopistica, destinata (ma solo in tempi
relativamente recenti, vale a dire dalla metà dell’Ottocento e sempre di
più nel Novecento) a un grande successo, La Città del Sole.
Molto
meno nota è invece la straordinaria ricchezza, nonché la complessità
della sua figura e del suo pensiero, che emerge invece nitidamente da un
recente saggio di Luca Addante dal titolo Tommaso Campanella. Il
filosofo immaginato, interpretato, falsato (Laterza, pp. 256, euro 25).
ATEO
O ZELANTE sostenitore dell’ortodossia cattolica, ribelle o fautore
della monarchia spagnola o francese, dai suoi scritti sembra poter
attingere argomenti per sostenere le posizioni più disparate. Nicola
Badaloni, a proposito di Campanella, aveva parlato di magma, in cui
convivono «la figura dell’astrologo, del profeta, dell’utopista, del
realista politico», che ci restituisce un «caleidoscopio di immagini
difficili da ricomporre a unità».
Del resto, a spiegare le ragioni
profonde della difficoltà di dare di Campanella una lettura univoca,
basta ricordare le drammatiche circostanze in cui furono composte le
quasi 30mila pagine dei suoi scritti, tra processi e carcere (dove
Campanella trascorse oltre 30 dei suoi 70 anni), sotto il controllo
occhiuto e feroce di inquisitori e carcerieri, in un periodo in cui
l’arte della dissimulazione era indispensabile alla sopravvivenza di chi
osava pensare con la propria testa, nonché i mille ostacoli alla loro
circolazione, ostacoli che in molti casi durano tuttora.
Il volumetto
che al giovane Campanella dedica Piero Bevilacqua dal titolo Il Sole di
Tommaso (Castelvecchi, pp. 76, euro 12) è un dramma storico che tiene
presente tutto questo eppure, con un’operazione coraggiosa, sceglie di
semplificare la complessità della materia, dandoci un Campanella tanto
plasticamente costruito su solide basi storiche e documentali (i testi
di Amabile e l’opera poetica, in particolare) quanto capace cogliere il
senso profondo della sua ricerca e di restituircene insieme l’attualità:
«Come è possibile, come può succedere su questa Terra che così pochi
uomini si siano impadroniti della vita di tutti?» si chiede Campanella
nel lungo soliloquio conclusivo del V atto, ormai sconfitto e in carcere
dopo la scoperta della congiura del 1599 per liberare la Calabria dal
giogo spagnolo, e sopravvissuto eroicamente alla tortura al prezzo di
fingersi folle, pur consapevole che «il viver sporca chi per viver
finge».
Non inganni quindi il titolo del lavoro di Bevilacqua: non
siamo di fronte all’ennesima riproposizione del Campanella utopistico,
decontestualizzato dalle terribili circostanze della composizione e dal
resto della sua opera.
SE IL SOLE RIMANDA all’opera più nota di C., e
quindi al sogno di una società non più lacerata dalle ingiustizie e
dalla violenza, il dramma intende ricostruirne semmai l’altra faccia,
grandiosa e tragica. Grandiosa per l’ampiezza del progetto: nei 5 atti
che compongono il dramma (Nicastro 1585 e 1588, Napoli 1589 e 1591,
Roccella Jonica 1599, di nuovo Napoli aprile e ottobre del 1599)
assistiamo partecipi al progressivo ampliarsi dell’orizzonte di
Campanella: lo sdegno per le odiose sopraffazioni degli umili (come
quelle della vecchietta che fatica a procurarsi la legna indispensabile o
l’umiliazione del contadino cui il barone del luogo insidia la moglie e
la figlia, del I atto – scene che riportano significativamente al
giovane Marx e a Manzoni), si dilata a critica radicale della Chiesa,
della nobiltà, del dominio spagnolo, della filosofia scolastica,
dell’aristotelismo («pensiero unico» di quell’epoca) e appassionata
difesa e progettazione, giustificata anche sulla base di calcoli
astrologici e profezie, di un nuovo ordine intellettuale e politico: «I
contadini sono più filosofi degli aristotelici. Osservano la natura
delle cose, la terra e le piante, l’acqua e il vento, con gli occhi e
con le mani, non ripetono le formule dei libri».
DECISIVO L’INCONTRO
con la lezione di Telesio, l’intuizione di trovarsi davanti a un
passaggio epocale in cui è essenziale la libertà di pensiero,
convinzione che porterà Campanella a farsi coraggioso difensore di
Galilei. Tragica per l’esito: il tentativo rivoluzionario, come è noto,
sarà stroncato sul nascere, e Campanella condannato al carcere a vita,
da cui uscirà solo nel 1626.
Ad alimentare una volontà indomita
restava però la convinzione di avere ancora come intellettuale una
missione da compiere: «Io nacqui a debellar tre mali estremi/ tirannide,
sofismi, ipocrisia», a «diveller l’ignoranza» di quel popolo che ignora
la sua stessa forza: «il popolo è una bestia varia e grossa/ ch’ignora
le sue forze; e perciò stassi/ a pesi e botte di legni e di sassi/
guidato da un fanciul che non ha possa».