mercoledì 5 settembre 2018

il manifesto 5.9.18
Finisce il mito del paese che accoglie i profughi
Svezia al bivio. Giro di vite del governo: tetto al numero di rifugiati e ricongiungimenti familiari più difficili
di Carlo Lania


Le prossime elezioni svedesi potrebbero sancire la fine ufficiale di un mito che ha resistito per decenni, quello della Svezia come modello di accoglienza per ogni profugo in cerca di un rifugio sicuro. E non si tratta certo di un processo cominciato oggi. E’ almeno dal 2016, dopo la crisi dei migranti che l’anno prima aveva raggiunto il suo picco, che il Paese ha cominciato lentamente a chiudersi diventando sempre meno accogliente verso i suoi ospiti stranieri. Un cambiamento dovuto non solo alla pressione esercitata sull’opinione pubblica dalla destra xenofoba, ma anche alla sinistra, ai Socialdemocratici svedesi al governo che lentamente ma costantemente hanno cominciato a modificare le politiche sull’accoglienza rendendo sempre più difficile la permanenza – oltre che l’ingresso – nel Paese. Tutto pur di rincorrere i Democratici svedesi, la formazione anti migranti e anti europeista confinata al terzo posto in parlamento fino alle ultime elezioni, ma che tra pochi giorni potrebbe uscire vincitrice dalle urne.
I segnali del malumore creato da anni di politica delle porte aperte non sono mancati. Un recente sondaggio ha rivelato come sia proprio l’immigrazione il tema che maggiormente preoccupa gli svedesi (20%), più della salute (19%), della sicurezza (12%) e dell’ambiente (9%), molto più – e la dice lunga – del lavoro (3%) segno che oltre al mito dell’accoglienza sta per tramontare anche quello del multiculturalismo. Percentuali che si spiegano solo in parte con altri numeri, quelli relativi alle richieste di asilo presentate nel Paese negli ultimi quattro anni e che ammontano a più di 314.000. L’apice nel 2015, con 163 mila richieste delle quali 70.384 da parte di minori non accompagnati. Numeri che fanno della Svezia il Paese europeo con la maggiore percentuale di rifugiati in rapporto alla popolazione (9,5 milioni di abitanti), ma che nel corso degli anni sono diminuiti sempre più, tanto che da gennaio a oggi si contano solo 12.000 nuove richieste.
Il fiume di persone arrivate nel 2015 ha provocato come prima reazione del governo la sospensione nel novembre dello stesso anno del trattato di Schengen con il ripristino dei controlli alla frontiera con la Danimarca, insieme alla successiva adozione di una serie di misure inizialmente presentate come temporanee ma che dallo scorso mese di maggio sono diventate definitive. Tra queste la decisione di mantenere i controlli alle frontiere, di consentire i ricongiungimenti familiari solo a chi ha ottenuto la status di rifugiato e di fissare a 14.000 l’anno il tetto per le richieste di asilo, la metà rispetto al 2017 quando furono 27.205. Ma soprattutto ha intensificato le espulsioni degli afghani, con il conseguente aumento di suicidi tra i più giovani:  pur di non tornare in Afghanistan 12 ragazzi tra i 10 e i 21 anni si sono tolti la vita solo nel 2017. Fine del «Paese dell’accoglienza», ma fine anche dell’impegno preso nel 2014 da Stoccolma quando promise che i siriani in fuga dalla guerra civile avrebbero sempre trovato ospitalità. Uno dei motivi per cui nel 2015 a migliaia fecero di tutto pur di arrivare in Svezia. «Da una politica dell’asilo considerata generosa, la Svezia passa allo stretto minimo europeo», ha scritto Le Monde.
Dietro il giro di vite del governo svedese, che può sembrare esagerato per un paese la cui economia gode comunque di buona salute, c’è sicuramente la constatazione di un’integrazione fallita, ma anche l’ansia di non perdere terreno rispetto a una destra xenofoba che a lungo ha alimentato la paura dell’imminente fine di un generoso stato sociale, indicando come prime vittime anziani e disoccupati. «L’immigrazione è costosa, prende risorse da insegnanti, medici, assistenti sociali e influisce su tutto il resto. Non possiamo non renderci conto di questo», è uno degli slogan più ripetuti dai Democratici svedesi. Che adesso , fiutando un possibile successo elettorale, promettono di finanziare un miliardo di corone (cento milioni di euro), un programma di rimpatri volontari nei paesi di origine.