il manifesto 5.9.18
Quelle ombre nere sull’ex paradiso socialdemocratico
Elezioni
in Svezia. Gli Sverigedemokraterna, razzisti e anti-Ue, grandi favoriti
nel voto di domenica. Sullo sfondo, la crisi del multiculturalismo
di Guido Caldiron
Annika
Strandhall, ministro delle politiche sociali ha indossato in parlamento
la maglia di Jimmy Durmaz, il centrocampista di origine turca
bersagliato dagli insulti razzisti dopo che la Germania ha sconfitto la
Svezia nei mondiali di calcio. Elin Ersson, giovane attivista dei
diritti umani, ha impedito che un richiedente asilo afghano fosse
rimpatriato, bloccando all’aeroporto di Göteborg il decollo dell’aereo
sul quale l’uomo era stato imbarcato.
Malgrado dalla Svezia siano
arrivate di recente notizie che evocano la volontà di lottare contro le
discriminazioni, c’è il rischio che si tratti di eccezioni che
confermano la regola. In un paese fin qui noto per la propria capacità
di coniugare giustizia sociale e integrazione tra culture diverse, spira
infatti un forte vento di destra. Al punto che, secondo tutti i
sondaggi, le elezioni politiche del 9 settembre vedranno una clamorosa
affermazione dell’estrema destra.
IL PARTITO ANTI-IMMIGRATI dei
Democratici Svedesi (Sverigedemokraterna) è dato in testa con
percentuali che oscillano tra il 20 e il 25% – nel 2014 aveva il 12,9%
-, seguito dai liberal-conservatori con il 23% e dai socialdemocratici,
arbitri della vita politica locale nell’ultimo mezzo secolo, che si
fermerebbero al 22%. Per la destra xenofoba un risultato storico. Non
solo di natura simbolica.
Parallelamente alla crescita dei
consensi per gli Sd, anche il cordone sanitario stabilito nei loro
confronti dalle maggiori forze politiche ha finito per cedere. Il leader
dei conservatori Ulf Kristersson, si dice già pronto a costituire,
contro le sinistre, «la più grande maggioranza possibile»: vale a dire
alleandosi con i razzisti. E non è solo il quadro interno a far temere
il peggio. Un inedito asse tra conservatori e nuove destre caratterizza
da tempo la politica anche in Danimarca, Norvegia e Finlandia. Segno che
nelle terre dell’ex «paradiso socialdemocratico» qualcosa non funziona
più. L’ascesa dei Sd ne è del resto l’illustrazione più efficace.
NATO
NEL 1979 da un movimento suprematista bianco chiamato «Mantenere la
Svezia svedese» (Bevare Sverige Svensk), a lungo ombrello legale dei
gruppi violenti, sotto la guida del giovane leader Jimmie Åkesson, il
partito ha saputo approfittare dell’inedito senso di incertezza che ha
investito il paese, imponendo i propri temi nell’agenda politica.
ALLEATI
A BRUXELLES DI GRILLO e dell’Ukip britannico, critici della Ue al punto
di annunciare un referendum per la «Swexit» in caso di vittoria, gli Sd
hanno eliminato con il tempo ogni riferimento al razzismo biologico per
trasformarsi nei critici più implacabili del modello multiculturale
locale. In un paese uscito rapidamente dalla crisi economica globale, ma
dove le certezze di un tempo sulla solidità del welfare sono state
comunque minate, il tema della presenza degli stranieri è diventato
ossessivo.
GLI SD HANNO UTILIZZATO la paura per il terrorismo, lo
scorso anno un uzbeko legato all’Isis ha ucciso quattro persone a
Stoccolma, come per le forme crescenti di marginalità urbana, segnalate
già nel 2015 dalla rivolta delle periferie della capitale, dove vivono
soprattutto immigrati, per mettere in discussione i principi stessi su
cui si è costruita la democrazia svedese. Denunciando come una minaccia
per la sopravvivenza dell’identità nazionale sia le politiche
dell’accoglienza che la cultura del «politicamente corretto». Con il
risultato, come spiega Peter Wolodarski sul quotidiano Dagens Nyheter,
che «per molto tempo, per favorire l’integrazione, si è detto che era
meglio non parlare dei problemi legati all’immigrazione. Oggi, accade il
contrario».
Mentre, durante i loro successivi governi, sia i
conservatori che gli stessi socialdemocratici hanno varato una stretta
su rifugiati e migranti, contraddicendo il tradizionale spirito di una
«società aperta», la visione all’insegna della decadenza e della paura
propugnata dall’estrema destra si è andata imponendo. E ora, alla
vigilia del voto, Jimmie Åkesson può annunciare, certo che le sue parole
trovino ascolto, «noi vogliamo che chi viene qui contribuisca a
mantenere questo paese come è stato finora, tutti gli altri devono
semplicemente andarsene». Una promessa che suona come una minaccia.