il manifesto 5.9.18
Cosa ci racconta dell’Europa l’attività cinese in Africa
Cina
in Africa. Siamo ancora, tranne fulgide eccezioni giornalistiche come
Nigrizia o questo giornale, ad una informazione sull’Africa da Faccetta
Nera o Bingo Bango Bongo io sto bene sto nel Congo di fascista memoria.
Cerchiamo allora, anche come sinistra, di riprendere l’analisi
internazionale, specie quella di un Continente cui siamo
indissolubilmente legati e che rappresenta non solo una parte del nostro
passato ma, soprattutto, del nostro futuro
di Raffaele K Salinari
Il
vertice tra la Repubblica popolare cinese e cinquanta nazioni
dell’Africa ha trovato, poco, spazio sui giornali solo per via delle
preoccupazioni europee in merito al neocolonialismo cinese. I 60
miliardi di dollari, una parte a dono ma molti sotto forma di prestito,
dunque da restituire, ricordano in un certo molto da vicino gli aiuti
del Fondo Monetario e della Banca Mondiale che, già dagli anni ’60 del
secolo scorso, dovevano sostenere lo sviluppo di nazioni appena uscite
dal giogo coloniale. Conosciamo bene quella storia: poco a poco il
debito contratto, a fronte di un modello di sviluppo tutto centrato
sulle esportazioni in mano a multinazionali coperte da elites corrotte e
golpiste, vere e proprie cleptocrazie messe in piedi dalle ex potenze
coloniali per continuare a fare gli affari loro, portò i Paesi africani
nelle mani dei cosiddetti Piani di Riaggiustamento Strutturale, cioè nel
governo de facto degli asset strategici da parte dei creditori. Chi si
ribellava moriva.
Un esempio per tutti è certamente quello del
Congo di Lumumba che, una volta eletto legittimamente primo ministro, fu
di fatto ucciso e sostituto con Mobutu perché, come tanti alti leader
africani della prima generazione, aveva capito che la decolonizzazione
doveva essere effettiva, non solo economica cioè, ma partire
dall’universo simbolico per costruire un modello di sviluppo a misura
della storia dei vari Paesi, centrato sulle loro tradizioni e
peculiarità e non sulla riproduzione pedissequa di quelle occidentali.
In
quegli anni Frantz Fanon sarà forse il più lucido analista di questa
degenerazione simbolico-polita che colpirà progressivamente le culture
africane sino a renderle ben presto drammaticamente subalterne.
Dopo
la Guerra fredda, ancora una volta, l’Africa, con le sue diversità e
ricchezze, ha sperato di diventare un insieme di Paesi che potessero
prendere in mano il loro destino, come d’altronde aveva sperato l’Europa
unita.
Ma non è stato così; ed è proprio in quegli anni che la
Cina, già discretamente presente nel Continente sin dagli anni ’70,
comincia la sua conquista di spazi e materie prime, distinguendosi dai
governi occidentali per via della politica di Deng sul famoso gatto di
cui non importa il colore purché prenda i topi.
In altre parole la
Cina non pretendeva, a differenza dell’Europa e degli Usa, il peloso
rispetto dei diritti umani, degli spazi democratici e via enumerando
tutto l’apparato che, allora, sosteneva lo sviluppo economico
occidentale, ma solo materie prime a basso costo senza chiedere da che
governo fossero amministrate.
Questo ha progressivamente favorito
la penetrazione cinese e contratto gli spazi degli ex colonizzatori che,
come nel caso della Francia e del suo Franco Cfa, continuano a drenare
risorse senza dare nulla in cambio se non, sempre e comunque, appoggio a
regimi corrotti ed antidemocratici. Ora ci si lamenta della Cina, senza
memoria per ciò che si è imposto al continente africano per secoli, a
partire dallo schiavismo, la vera fonte dell’accumulazione primitiva del
capitale americano, e che ancora adesso si vorrebbe continuare ad
imporre.
E qui si aprono un paio di questioni di fondo. La prima è
che solo una Europa unita e solidale, come ai tempi della prima
Convenzione di Lomé nel ’75, potrebbe riprendere un ruolo di
partenariato forte nel Continente, e non certo quei «galli di Renzo»
come oggi sono le varie nazioni europee nei confronti del resto del
mondo. Secondo, e non è un banale dettaglio ma un particolare
rivelatore, sulla nostra stampa, mentre Xi Jinping era sempre chiamato
per nome, il resto dei Capi di Stato africani un nome non lo avevano,
erano solo «leader africani», una pletora di negri ridenti senza
identità specifica, tranne un paio di eccezioni che confermano la
regola. Una ennesima versione mediatica del romanico Hic sunt leones
insomma.
E dunque, si può veramente pensare ad una politica estera
di cooperazione con questi Paesi se si ignorano perfino i nomi dei loro
Capi di Stato, se si confonde Repubblica Popolare con Repubblica
Democratica del Congo come si trattasse della stessa nazione? E come
capire, allora, come si generano i flussi migratori senza voler
approfondire la conoscenza delle diverse realtà, nel caso si volesse
fare qualcosa? Siamo ancora, tranne fulgide eccezioni giornalistiche
come Nigrizia o questo giornale, ad una informazione sull’Africa da
Faccetta Nera o Bingo Bango Bongo io sto bene sto nel Congo di fascista
memoria. Cerchiamo allora, anche come sinistra, di riprendere l’analisi
internazionale, specie quella di un Continente cui siamo
indissolubilmente legati e che rappresenta non solo una parte del nostro
passato ma, soprattutto, del nostro futuro.