il manifesto 5.9.18
Pubblico o privato? No, comune
Dopo il
crollo del Morandi. Invece della diatriba pubblico-privato, la tragedia
del ponte Morandi dovrebbe spingere a chiedersi se siano meglio tante
nuove Grandi opere inutili e costose, oppure una manutenzione seria
delle infrastrutture, degli impianti e dei servizi esistenti
di Guido Viale
Il
crollo del ponte Morandi ha resuscitato l’eterno dibattito se sia
meglio il pubblico o il privato. Ma sul punto c’è ormai un ampio
materiale probatorio: quasi tutti i settori produttivi e
infrastrutturali del paese hanno sperimentato entrambi i regimi.
Il
confronto è impietoso. Una volta privatizzati e fatti spezzatino,
settori come l’elettronica e l’elettromeccanica sono quasi scomparsi
dall’Italia.
Altri, ridimensionati come la siderurgia, sono a
rischio; per tenere in piedi l’Ilva dopo vent’anni di malgoverno bisogna
passare come un rullo compressore su vite e salute di decine di
migliaia di persone; l’alimentare pubblico è stato tolto di mezzo.
Privatizzare Alitalia è stata una truffa per far rieleggere Berlusconi;
con autostrade e Telecom, dopo una girandola di “capitani d’industria”
improvvisati, D’Alema aveva fatto di Palazzo Chigi «l’unica banca di
affari dove non si parla inglese»; privatizzati, i collegamenti
marittimi con le isole ne hanno moltiplicato l’isolamento.
Delle
banche, una volta tutte pubbliche e ora tutte private, il campione è
senz’altro Mps; altre sei sono fallite per aver finanziato speculazioni e
progetti strampalati di soci e amici e le due banche maggiori sono in
gran parte impegnate a speculazioni edilizie che hanno devastato città e
campagne, lasciando edifici vuoti e impianti inutilizzati in una
girandola che rischia di affondare tutti. Il settore elettrico, il solo
costruito da privati, aveva dovuto essere nazionalizzato proprio per
accompagnare uno sviluppo guidato dall’industria di Stato che altrimenti
rischiava di soffocare.
Mostri come Tav Torino-Lione, terzo
valico, Mose, Tap, Brebemi e pedemontane varie, sorti per «impulso» dei
privati, sono stati portati avanti con soldi pubblici, a volte spacciati
per finanza di progetto.
Se per i privati le privatizzazioni sono
state una pacchia a spese dello Stato, non altrettanto si può dire per i
lavoratori: il loro numero è stato ridotto; condizioni e salari
fortemente peggiorati; in aziende come l’Ilva, trasformata in Lager, la
famiglia Riva aveva addirittura creato una struttura di comando
parallela a quella ufficiale, fatta di aguzzini posti direttamente ai
suoi ordini…
Ma nessun economista ha finora studiato il nesso tra
privatizzazioni e calo della produttività, o esplosione di quel debito
pubblico che la grande svendita avrebbe dovuto abbattere, ma che ha solo
accresciuto.
Ma l’impresa pubblica era minata da clientelismo,
sottogoverno e intrusione dei partiti, perdendo lo slancio che ne aveva
fatto la protagonista del «miracolo economico». Vero. Ma a gestire
quelle privatizzazioni è stato lo stesso ceto politico che le stava
mandando in rovina, né poteva essere altrimenti; sostituendo alle
vecchie clientele nuovi imprenditori di comodo che gli garantivano gli
stessi vantaggi; più l’onere degli extraprofitti e procurandosi appoggi e
prebende senza doversi più occupare della gestione di apparati
giganteschi e complicati per dedicare tutto il tempo a intrallazzi,
chicchere e comparsate Tv.
Oggi il ritorno a una gestione pubblica
cambierebbe poco; il contesto è mutato: a governare è la finanza
internazionale e un’impresa pubblica di diritto privato (una SpA) non
può avere obiettivi diversi da una privata: profitti e rendite.
C’è
un’alternativa? Sì, evitare il falso dilemma pubblico-privato. Servizi,
infrastrutture e produzioni di base sono beni comuni, ma solo se con
controllo e gestione condivisi da parte della collettività. Sembra
un’utopia solo perché a furia di non essere ascoltati si è perso il
desiderio di partecipare alla vita pubblica.
La strada per
ricostituire quell’interesse è la trasparenza e la pubblicità totale di
bilanci, piani finanziari, contratti, tecnologie, remunerazioni: cose
difficili, ma in ogni comitato popolare ci sono esperti per leggere e
capire quei documenti e spiegarli agli altri.
Così si tornerebbe a
interessarsi alla cosa pubblica e a pretendere di essere ascoltati. E’
la democrazia partecipata che non è democrazia diretta né telematica, né
è alternativa a quella rappresentativa. Ammette la delega, purché su
mandato e revocabile; e non chiede a tutti di occuparsi di tutto. Delle
cose che non segui direttamente si occupa qualche altro comitato, finché
non si arriva ai nodi che interessano tutti.
Invece della
diatriba pubblico-privato, la tragedia del ponte Morandi dovrebbe
spingere a chiedersi se siano meglio tante nuove Grandi opere inutili e
costose, oppure una manutenzione seria delle infrastrutture, degli
impianti e dei servizi esistenti.