mercoledì 5 settembre 2018

il manifesto 5.9.18
Salute e libertà, il Garante tutela i pazienti in TSO
di Grazia Zuffa


I pazienti psichiatrici sottoposti a Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) sono protetti dalla vigilanza del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, come ricorda la recente Relazione al Parlamento dello stesso. Di più.
Il controllo sui luoghi e sulle condizioni in cui si svolgono i Tso è segnalato come settore di intervento nuovo e privilegiato, insieme ad altri nello stesso ambito sanitario: riguardanti soggetti deboli (anziani come disabili), che, dietro lo schermo delle pretese cure, rischiano di scivolare in situazioni di limitazione o privazione della libertà.
È un’indicazione che merita grande attenzione. L’impegno del Garante apre una nuova prospettiva in tema di salute e libertà, atta a svelare situazioni lesive della dignità delle persone, nascoste sotto l’ombrello rassicurante della «cura».
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio poi è questione particolarmente delicata, legata com’è alla concezione del malato mentale, tuttora in evoluzione. La privazione della libertà è stata il cardine del modello manicomiale, per i soggetti «pericolosi a sé e agli altri». Il passaggio al modello terapeutico, centrato sul «malato da curare» alla pari di altri, non ha sciolto del tutto le ambiguità.
La «normalizzazione» del paziente psichiatrico si scontra col residuo di approccio manicomiale, connesso all’idea della «compromissione della capacità di intendere e decidere su di sé» quale caratteristica portante della patologia stessa.
La stessa concezione all’origine della compressione dei diritti, secondo cui per questi malati non potrebbero valere le stesse regole di competenza e responsabilità legali dei non malati di mente.
Dunque, la ribadita volontà del Garante di esercitare i propri compiti di vigilanza sul Tso è un grande contributo nel processo di normalizzazione dell’assistenza psichiatrica: richiama tutti, le autorità sanitarie e gli operatori in primo luogo, a considerare l’obbligatorietà della cura come una assoluta eccezione al principio costituzionale che stabilisce la libertà della persona di non sottostare alle cure (art.32). Se non per dispositivo di legge, come prosegue lo stesso articolo.
Ma il rinvio alla legge va inteso come garanzia alla persona rispetto alla straordinarietà della procedura, e non come viatico alla ordinarietà della stessa.
Su questa linea garantista, la Relazione offre osservazioni e suggerimenti importanti: dall’allarme per la carenza di dati certi, all’invito a riflettere se alcuni reparti «a porte chiuse» (di stile segregativo) «siano tali da assicurare la tutela dei diritti fondamentali»; alla sottolineatura della perniciosa sovrapposizione e confusione fra obbligatorietà del trattamento e contenzione (quanto mai indicativa di cascami di cultura manicomiale); fino alla richiesta di istituire un Registro Nazionale dei Tso, dove trovare informazioni fondamentali a garanzia dei diritti.
Circa la contenzione, sono riprese le raccomandazioni del Comitato Nazionale di Bioetica alle autorità sanitarie, perché attivino programmi per la riduzione fino al superamento della contenzione e predispongano indici di qualità dei servizi, promuovendo le pratiche no restraint, nei reparti che abbiano rinunciato ad applicare la contenzione.
Sono indicazioni corpose che presuppongono un lavoro capillare nei territori, di vigilanza, ma anche di interlocuzione con le autorità preposte, dagli assessori regionali alla Sanità, ai responsabili sanitari delle Asl e dei dipartimenti di Psichiatria.
L’attivazione della rete dei Garanti regionali è perciò fondamentale.
Mi permetto un suggerimento: perché non iniziare il confronto con le autorità citate proprio su quanto ha scritto il Garante delle persone private della libertà?

«Lui lo sa...»
Repubblica 5.9.18
 I doveri della sinistra
Nella mente di Salvini
di Massimo Recalcati


La spregiudicata e lucida politica di Salvini ha saputo trasformare la Lega da movimento popolare, legato a un’etnia e a un territorio particolare, in un vero e proprio partito della nazione. Il consenso verso la sua azione non cessa di diffondersi e rafforzarsi in tutte le parti del nostro Paese. Cosa ha reso possibile il successo della sua politica? In termini psicoanalitici, Salvini ha saputo sfruttare quella pulsione securitaria che per Freud è a fondamento di ogni psicologia di massa. La difesa della propria identità, il rifiuto dell’estraneo, l’arroccamento di fronte alla minaccia dello straniero prima di essere xenofobia, razzismo o altro, che piaccia o meno, è una inclinazione fondamentale dell’essere umano. Ogni filosofia politica che trascura questo dato di fondo rischia l’idealismo impotente. Una delle leggi isolate da Freud come determinanti nel regolare la nostra vita psichica è, infatti, quella della difesa strenua del proprio equilibrio interno e dei propri confini. Salvini vince facile perché ha elevato questa tendenza basica della vita pulsionale alla dignità dell’azione politica.
La totale subalternità del M5S deriva da questa mossa inaugurale. Cosa conta di più? Impugnare populisticamente l’ideale della giustizia e dell’onestà, oppure invocare il pericolo imminente di una rottura degli argini, di una inondazione pestilenziale dell’immigrato che depaupererebbe le sorti di un popolo — quello italiano — già affamato dagli effetti di una globalizzazione sospinta che la politica non ha saputo gestire?
Salvini sfrutta, in altre parole, l’angoscia dell’impoverimento e della perdita dei diritti degli italiani individuando in un fantomatico nemico esterno (l’immigrato) la sua causa prima. Egli alza la voce pretendendo di parlare — come accade anche per il suo collega Di Maio — nel nome di tutto il popolo italiano. In questo sfrutta astutamente il carattere parziale della pulsione. La pulsione, infatti, non si nutre di ideali, ma solamente di portare a soddisfazione la propria spinta. È questo che Salvini e, al suo seguito ancillare, il M5S in realtà promettono. Non pensieri lunghi, visioni del nostro futuro, piani di riforme ad ampio respiro, ma provvedimenti, come ha ricordato recentemente su questo giornale Veltroni, tutti schiacciati sul presente immediato, ovvero sulla promessa di garantire alla pulsione il suo soddisfacimento.
Sbaglierebbe però, ancora una volta, la sinistra a non tener conto di questa realtà " umana troppo umana" invocando come suo antidoto l’Europa come ideale universale. In politica l’universalismo tende sempre a perdere contro il particolarismo. La forza mediatica di Salvini è quella di dichiarare di inchiodare l’Europa alle sue responsabilità concrete. Il gioco è facile: egli sfida un’Europa solo di carta nel nome della concretezza realissima della pulsione securitaria. E la sinistra non potrà vincere questa ondata reazionaria invocando un astratto desiderio di Europa perché il desiderio senza pulsione resta, come insegna la psicoanalisi, totalmente vuoto. La sinistra non deve scindere il desiderio dalla pulsione, sebbene questa rischi ancora di essere la sua inclinazione di fondo.
Considerare la pulsione securitaria solo come un elemento regressivo, barbaro, analfabeta, senza invece cogliere che essa riguarda un fondamento imprescindibile della nostra vita psichica. Per questo l’azione meritoria di un ministro coraggioso e lucido come Minniti, per fare un esempio, è stata descritta da una certa sinistra come poliziesca o, peggio, neo-nazista. La politica ha invece il dovere di misurarsi con queste cristallizzazioni pulsionali senza ignorarne il peso specifico per dare a esse uno sbocco diverso da quello del populismo o della pura strumentalizzazione reazionaria. Altrimenti la parola Europa rischia di fare la stessa fine di quella di Uomo. Di diventare, cioè, un puro artificio retorico, un’astrazione vuota di contenuti, un desiderio sganciato dalla base materiale della pulsione. Non esiste l’Uomo con la U maiuscola. Esistono gli uomini in carne e ossa, uno per uno. Non esiste l’Europa sganciata dai suoi popoli, dalle sue differenze, dai suoi territori.
Il leghismo che fonda il nuovo partito della nazione cavalca la pulsione securitaria, dimenticando però che senza desiderio essa genera odio e distruzione. La sinistra non deve opporre il desiderio — il sogno — alla pulsione. Dovrebbe provare a leggere la pulsione senza snobismo, come fissazione legittima ai suoi interessi parziali e territoriali. Altrimenti il rischio è quello di lasciare che la canalizzazione della pulsione securitaria prenda solamente la via dell’odio e della lacerazione. Non servirà invocare l’Europa, se essa resterà solo un desiderio nobile sganciato dal soddisfacimento pulsionale. Dovremmo invece saper mostrare che il nostro desiderio di "Europa" coincida innanzitutto con il destino stesso — per usare un termine appropriato di Freud — della pulsione e dei suoi interessi.

Il Fatto 5.9.18
Spavento Vaticano: tutti i nomi nella lista della lobby gay
Il documento
A San Pietro circola l’inchiesta esplosiva dei cardinali Herranz, Tomko e De Giorgi. Intanto la Santa Sede non smentisce il dossier Farrell svelato dal Fatto
di Francesca Fagnani


Dietro al tenace silenzio dei vertici del Vaticano rispetto a quanto denunciato nell’ormai famoso documento dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò potrebbe esserci la paura di essere smentiti da nuovi fatti e vicende che porterebbero all’esplosione di quella “guerra atomica” di cui – da giorni – voci interne alla Santa Sede riferiscono.
Ieri vi abbiamo raccontato il “caso Farrell”: sarebbe depositato in Vaticano, presso la Congregazione per la dottrina per la fede che si occupa di indagare i reati sessuali e contro la morale, un dossier sul vescovo ausiliare di Washington, Kevin Joseph Farrell, che se non smentito, ricadrebbe addosso al Pontefice come un macigno. Farrell, nominato direttamente da Bergoglio a capo del Dicastero per la famiglia, avrebbe convissuto con Theodore McCarrick, ex cardinale, già arcivescovo di Washington, coinvolto in diversi casi di abusi sessuali ai danni di seminaristi.
Contattata la Congregazione per avere un commento, o eventualmente una smentita, la risposta è stata: “Non ci sarà nessuna comunicazione”. Il Vaticano dunque non smentisce Il Fatto Quotidiano, ma sceglie come per McCarrick la strategia del silenzio. Anche perché le preoccupazioni della Santa Sede non si esauriscono qui.
Le nuove nubi all’orizzonte riguardano la concreta possibilità che escano documenti contenuti nell’inchiesta che i cardinali Julián Herranz, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi consegnarono a Benedetto XVI prima delle sue dimissioni. Il rapporto contiene un quadro dettagliato e inquietante della corruzione morale e materiale del clero, con nomi, cognomi e circostanze. Siamo eccezionalmente riusciti a visionare un documento con intestazione pontificia contenuto nell’inchiesta, e di cui qui pubblichiamo uno stralcio: si tratta di una lista di prelati e laici che apparterrebbero alla cosiddetta lobby gay, che attraverso ricatti e segreti potrebbero condizionare, o aver condizionato, posizioni e carriere (le loro, come quelle degli altri).
Non riveleremo i nominativi indicati nell’elenco, ma possiamo confermare che tra i nomi sono presenti persone rimosse dal Papa, altre spostate di ufficio, altre che invece tuttora ricoprono importanti incarichi all’interno di organi strategici per il Vaticano, come per esempio Propaganda Fide e addirittura la Segreteria di Stato.
L’inchiesta dei tre cardinali Herranz-Tomko-De Giorgi finora è rimasta top secret. Una cerchia ristretta ma non esigua di persone ha avuto però modo di leggerlo, e questo già prima del Conclave, per dare una mano allo Spirito Santo che avrebbe portato poi Bergoglio sul soglio pontificio. Per redigere il dossier furono interrogati decine di sacerdoti e alti prelati, e raccolti documenti di ogni tipo. Se l’opinione pubblica venisse a conoscenza del contenuto della relazione finale sarebbe un disastro per l’immagine della Chiesa, già devastata in tutto il mondo dagli scandali sessuali. Ma è quello che in questa fase potrebbe accadere, visto che il volteggiar di corvi è una prassi secolare in Vaticano che rispunta fuori ogni qualvolta la guerra tra bande si fa più dura.
E stavolta la guerra è al Papa stesso. Bergoglio, del resto, non può certo contare sulla protezione della Curia, visto il rapporto complicato che si è instaurato sin da subito, per questioni di potere, personali e dottrinali (si ricordi solo la questione dei Dubia sollevati da quattro cardinali al Papa sull’enciclica Amoris Laetitia, in cui Bergoglio apriva alla comunione per i divorziati risposati).
Ma Francesco non può contare nemmeno su alcuni dei suoi più potenti amici e sostenitori, travolti loro stessi da scandali per abusi sessuali o per aver coperto tali comportamenti: da McCarrick a Farrell, dal cardinale Roger Mahony al cardinale Godfried Danneels, dai prelati cileni al potentissimo cardinale George Pell, il numero tre del Vaticano, attualmente in Australia sotto processo per reati sessuali plurimi. Pell avrebbe voluto dimettersi dall’incarico di ministro delle Finanze vaticane, ma il Papa ha preferito un semplice congedo. Del resto, quando fu nominato numero tre del Vaticano le sue vicende non potevano non essere note a Bergoglio stesso.
Chiediamo attraverso queste pagine a Papa Bergoglio, al Segretario di Stato Parolin di fare chiarezza su McCarrick, Farrell e sulla commissione dei tre cardinali, sulle questioni morali non ci si può nascondere dietro al silenzio. La riforma della chiesa passa anche attraverso la verità.

il manifesto 5.9.18
Svolta sovranista «a sinistra», al via il nuovo movimento Aufstehen (Alzati)
Germania. Sara Wagenknecht e Oskar Lafontaine: «Contro la deriva di destra»
di Sebastiano Canetta


BERLINO Guardano alla «Francia Indomita» di Jean-Luc Mélenchon ma anche al «Momentum» immaginato tre anni fa dal laburista Jeremy Corbyn. Sulla carta, ma sarebbe meglio dire su internet, vantano l’appoggio di 100 mila tedeschi pronti a unirsi «contro la linea politica dominante nella Linke, Verdi e Spd». Nella realtà, però, il nuovo movimento Aufstehen (Alzati) punta a diventare il contraltare di sinistra «a vocazione maggioritaria» dei fascio-populisti di Alternative für Deutschland, cui non intende lasciare il monopolio della critica alla «politica di benvenuto» dei migranti di Angela Merkel.
È LA SVOLTA sovranista presentata ieri a Berlino dalla capogruppo Linke Sahra Wagenknecht che – insieme al compagno Oskar Lafontaine – è scesa ufficialmente in campo per «contrastare la deriva di destra tornando ai temi che davvero interessano i tedeschi: casa, scuola e lavoro».
Per adesso, il nuovo soggetto politico è solo un’associazione indipendente e trasversale ai tre partiti progressisti del Bundestag. Ma il suo obiettivo conclamato è «la sterzata radicale della sinistra» in direzione opposta all’internazionalismo dell’attuale segretaria Linke Katja Kipping. In attesa di «trasformare l’Europa in un’unione di democrazie sovrane» e, prima ancora, provare a riempire le urne delle imminenti elezioni regionali in Baviera e poi delle Europee del 2019.
Una mossa annunciata fin dal 4 agosto, il cui primo effetto è la moltiplicazione del biasimo da parte degli attuali dirigenti della Linke. A partire dal governatore della Turingia, Bodo Ramelow, che considera Aufstehen «un errore, perché un movimento deve nascere dal basso e non in un partito. In più non polarizzerà la società tedesca ma solo la sinistra, e dubito che sarà in grado di ottenere molto come forza on-line».
SULLA STESSA LINEA il co-segretario Bernd Riexinger non nasconde lo scetticismo per una manovra che rischia di atomizzare il comune campo politico. «Nell’epoca in cui alla “massa bruna” viene permessa la caccia allo straniero, la sinistra deve evitare qualunque parvenza di divisione».
Più e meno ciò che pensa Kipping, da sempre in rotta di collisione con la realpolitik di Wagenknecht e Lafontaine, che si sforza di dare per buono il loro programma in attesa di vedere le carte in tavola. «Non è chiaro cosa sarà Aufstehen ma se intendono creare una maggioranza progressista sono contenta dell’iniziativa» fa sapere, tùittando però le immagini dei 65 mila antifascisti scesi in piazza lunedì a Chemnitz senza bisogno di nuovi contenitori.
MESSAGGIO in codice ma non troppo: è la replica alla lettura di Alzati secondo cui «il caso Chemnitz e la crescita dell’ultra-destra sono causate dall’insoddisfazione per le politiche della Groko e della sinistra» come ha precisato ieri Wagenknecht. A sentire la leader sovranista «dal 2015 i tedeschi hanno avuto l’impressione che le risorse fossero dirottate solo sui migranti. Vogliamo rimettere al centro i temi cari alla maggioranza dei tedeschi come salute, casa e lavoro. Il motivo del successo di Afd sta proprio in questi problemi storici mai risolti da governo e opposizione. Dobbiamo ripartire dalle diseguaglianze». Due visioni opposte difficili da far collimare, anche se per Wagenknecht il suo ruolo in Aufstehen «non è in contrasto con la carica di capogruppo Linke».
Al suo fianco, fuori dal recinto della sinistra, spicca l’ex Verde Ludger Volmer (segretario di Stato agli Esteri dal 1998 al 2002) ultra-dissidente della politica dei Grünen «non più ancorata a pacifismo e sociale ma “stampella” di Merkel», pronto a «rinnovare la politica tedesca» con Alzati al pari della sindaca di Flensburg, Simone Lange, e del deputato Marco Bülow, entrambi della Spd.

il manifesto 5.9.18
Cosa ci racconta dell’Europa l’attività cinese in Africa
Cina in Africa. Siamo ancora, tranne fulgide eccezioni giornalistiche come Nigrizia o questo giornale, ad una informazione sull’Africa da Faccetta Nera o Bingo Bango Bongo io sto bene sto nel Congo di fascista memoria. Cerchiamo allora, anche come sinistra, di riprendere l’analisi internazionale, specie quella di un Continente cui siamo indissolubilmente legati e che rappresenta non solo una parte del nostro passato ma, soprattutto, del nostro futuro
di Raffaele K Salinari


Il vertice tra la Repubblica popolare cinese e cinquanta nazioni dell’Africa ha trovato, poco, spazio sui giornali solo per via delle preoccupazioni europee in merito al neocolonialismo cinese. I 60 miliardi di dollari, una parte a dono ma molti sotto forma di prestito, dunque da restituire, ricordano in un certo molto da vicino gli aiuti del Fondo Monetario e della Banca Mondiale che, già dagli anni ’60 del secolo scorso, dovevano sostenere lo sviluppo di nazioni appena uscite dal giogo coloniale. Conosciamo bene quella storia: poco a poco il debito contratto, a fronte di un modello di sviluppo tutto centrato sulle esportazioni in mano a multinazionali coperte da elites corrotte e golpiste, vere e proprie cleptocrazie messe in piedi dalle ex potenze coloniali per continuare a fare gli affari loro, portò i Paesi africani nelle mani dei cosiddetti Piani di Riaggiustamento Strutturale, cioè nel governo de facto degli asset strategici da parte dei creditori. Chi si ribellava moriva.
Un esempio per tutti è certamente quello del Congo di Lumumba che, una volta eletto legittimamente primo ministro, fu di fatto ucciso e sostituto con Mobutu perché, come tanti alti leader africani della prima generazione, aveva capito che la decolonizzazione doveva essere effettiva, non solo economica cioè, ma partire dall’universo simbolico per costruire un modello di sviluppo a misura della storia dei vari Paesi, centrato sulle loro tradizioni e peculiarità e non sulla riproduzione pedissequa di quelle occidentali.
In quegli anni Frantz Fanon sarà forse il più lucido analista di questa degenerazione simbolico-polita che colpirà progressivamente le culture africane sino a renderle ben presto drammaticamente subalterne.
Dopo la Guerra fredda, ancora una volta, l’Africa, con le sue diversità e ricchezze, ha sperato di diventare un insieme di Paesi che potessero prendere in mano il loro destino, come d’altronde aveva sperato l’Europa unita.
Ma non è stato così; ed è proprio in quegli anni che la Cina, già discretamente presente nel Continente sin dagli anni ’70, comincia la sua conquista di spazi e materie prime, distinguendosi dai governi occidentali per via della politica di Deng sul famoso gatto di cui non importa il colore purché prenda i topi.
In altre parole la Cina non pretendeva, a differenza dell’Europa e degli Usa, il peloso rispetto dei diritti umani, degli spazi democratici e via enumerando tutto l’apparato che, allora, sosteneva lo sviluppo economico occidentale, ma solo materie prime a basso costo senza chiedere da che governo fossero amministrate.
Questo ha progressivamente favorito la penetrazione cinese e contratto gli spazi degli ex colonizzatori che, come nel caso della Francia e del suo Franco Cfa, continuano a drenare risorse senza dare nulla in cambio se non, sempre e comunque, appoggio a regimi corrotti ed antidemocratici. Ora ci si lamenta della Cina, senza memoria per ciò che si è imposto al continente africano per secoli, a partire dallo schiavismo, la vera fonte dell’accumulazione primitiva del capitale americano, e che ancora adesso si vorrebbe continuare ad imporre.
E qui si aprono un paio di questioni di fondo. La prima è che solo una Europa unita e solidale, come ai tempi della prima Convenzione di Lomé nel ’75, potrebbe riprendere un ruolo di partenariato forte nel Continente, e non certo quei «galli di Renzo» come oggi sono le varie nazioni europee nei confronti del resto del mondo. Secondo, e non è un banale dettaglio ma un particolare rivelatore, sulla nostra stampa, mentre Xi Jinping era sempre chiamato per nome, il resto dei Capi di Stato africani un nome non lo avevano, erano solo «leader africani», una pletora di negri ridenti senza identità specifica, tranne un paio di eccezioni che confermano la regola. Una ennesima versione mediatica del romanico Hic sunt leones insomma.
E dunque, si può veramente pensare ad una politica estera di cooperazione con questi Paesi se si ignorano perfino i nomi dei loro Capi di Stato, se si confonde Repubblica Popolare con Repubblica Democratica del Congo come si trattasse della stessa nazione? E come capire, allora, come si generano i flussi migratori senza voler approfondire la conoscenza delle diverse realtà, nel caso si volesse fare qualcosa? Siamo ancora, tranne fulgide eccezioni giornalistiche come Nigrizia o questo giornale, ad una informazione sull’Africa da Faccetta Nera o Bingo Bango Bongo io sto bene sto nel Congo di fascista memoria. Cerchiamo allora, anche come sinistra, di riprendere l’analisi internazionale, specie quella di un Continente cui siamo indissolubilmente legati e che rappresenta non solo una parte del nostro passato ma, soprattutto, del nostro futuro.

il manifesto 5.9.18
Pubblico o privato? No, comune
Dopo il crollo del Morandi. Invece della diatriba pubblico-privato, la tragedia del ponte Morandi dovrebbe spingere a chiedersi se siano meglio tante nuove Grandi opere inutili e costose, oppure una manutenzione seria delle infrastrutture, degli impianti e dei servizi esistenti
di Guido Viale


Il crollo del ponte Morandi ha resuscitato l’eterno dibattito se sia meglio il pubblico o il privato. Ma sul punto c’è ormai un ampio materiale probatorio: quasi tutti i settori produttivi e infrastrutturali del paese hanno sperimentato entrambi i regimi.
Il confronto è impietoso. Una volta privatizzati e fatti spezzatino, settori come l’elettronica e l’elettromeccanica sono quasi scomparsi dall’Italia.
Altri, ridimensionati come la siderurgia, sono a rischio; per tenere in piedi l’Ilva dopo vent’anni di malgoverno bisogna passare come un rullo compressore su vite e salute di decine di migliaia di persone; l’alimentare pubblico è stato tolto di mezzo. Privatizzare Alitalia è stata una truffa per far rieleggere Berlusconi; con autostrade e Telecom, dopo una girandola di “capitani d’industria” improvvisati, D’Alema aveva fatto di Palazzo Chigi «l’unica banca di affari dove non si parla inglese»; privatizzati, i collegamenti marittimi con le isole ne hanno moltiplicato l’isolamento.
Delle banche, una volta tutte pubbliche e ora tutte private, il campione è senz’altro Mps; altre sei sono fallite per aver finanziato speculazioni e progetti strampalati di soci e amici e le due banche maggiori sono in gran parte impegnate a speculazioni edilizie che hanno devastato città e campagne, lasciando edifici vuoti e impianti inutilizzati in una girandola che rischia di affondare tutti. Il settore elettrico, il solo costruito da privati, aveva dovuto essere nazionalizzato proprio per accompagnare uno sviluppo guidato dall’industria di Stato che altrimenti rischiava di soffocare.
Mostri come Tav Torino-Lione, terzo valico, Mose, Tap, Brebemi e pedemontane varie, sorti per «impulso» dei privati, sono stati portati avanti con soldi pubblici, a volte spacciati per finanza di progetto.
Se per i privati le privatizzazioni sono state una pacchia a spese dello Stato, non altrettanto si può dire per i lavoratori: il loro numero è stato ridotto; condizioni e salari fortemente peggiorati; in aziende come l’Ilva, trasformata in Lager, la famiglia Riva aveva addirittura creato una struttura di comando parallela a quella ufficiale, fatta di aguzzini posti direttamente ai suoi ordini…
Ma nessun economista ha finora studiato il nesso tra privatizzazioni e calo della produttività, o esplosione di quel debito pubblico che la grande svendita avrebbe dovuto abbattere, ma che ha solo accresciuto.
Ma l’impresa pubblica era minata da clientelismo, sottogoverno e intrusione dei partiti, perdendo lo slancio che ne aveva fatto la protagonista del «miracolo economico». Vero. Ma a gestire quelle privatizzazioni è stato lo stesso ceto politico che le stava mandando in rovina, né poteva essere altrimenti; sostituendo alle vecchie clientele nuovi imprenditori di comodo che gli garantivano gli stessi vantaggi; più l’onere degli extraprofitti e procurandosi appoggi e prebende senza doversi più occupare della gestione di apparati giganteschi e complicati per dedicare tutto il tempo a intrallazzi, chicchere e comparsate Tv.
Oggi il ritorno a una gestione pubblica cambierebbe poco; il contesto è mutato: a governare è la finanza internazionale e un’impresa pubblica di diritto privato (una SpA) non può avere obiettivi diversi da una privata: profitti e rendite.
C’è un’alternativa? Sì, evitare il falso dilemma pubblico-privato. Servizi, infrastrutture e produzioni di base sono beni comuni, ma solo se con controllo e gestione condivisi da parte della collettività. Sembra un’utopia solo perché a furia di non essere ascoltati si è perso il desiderio di partecipare alla vita pubblica.
La strada per ricostituire quell’interesse è la trasparenza e la pubblicità totale di bilanci, piani finanziari, contratti, tecnologie, remunerazioni: cose difficili, ma in ogni comitato popolare ci sono esperti per leggere e capire quei documenti e spiegarli agli altri.
Così si tornerebbe a interessarsi alla cosa pubblica e a pretendere di essere ascoltati. E’ la democrazia partecipata che non è democrazia diretta né telematica, né è alternativa a quella rappresentativa. Ammette la delega, purché su mandato e revocabile; e non chiede a tutti di occuparsi di tutto. Delle cose che non segui direttamente si occupa qualche altro comitato, finché non si arriva ai nodi che interessano tutti.
Invece della diatriba pubblico-privato, la tragedia del ponte Morandi dovrebbe spingere a chiedersi se siano meglio tante nuove Grandi opere inutili e costose, oppure una manutenzione seria delle infrastrutture, degli impianti e dei servizi esistenti.

La Stampa 5.9.18
La voglia di fico del nuovo pd
di Federico Geremicca


Si può minimizzare l’accaduto ricorrendo a spiegazioni tattiche (il nemico del mio nemico è mio amico) o perfino a letture psicologiche, che spiegano quale rapporto paradossale possa instaurarsi - a volte - tra «vittima» e «carnefice» (sindrome di Stoccolma).
L’accaduto però resta: e gli applausi e il calore che hanno circondato Roberto Fico alla Festa de l’Unità di Ravenna, qualcosa vorranno pur dire.
Dicono, prima di tutto, di un popolo (o quel che ne è rimasto) alla disperata ricerca di un riferimento - di un leader - che indichi da dove ripartire e che via seguire. Frastornato dalla sensazionale sconfitta elettorale, turbato da analisi che indicano destra e sinistra come categorie ormai superate, e sgomento per le piccole risse che ancora agitano quel che resta dello stato maggiore, il cosiddetto «popolo di centrosinistra» sembra infatti in attesa che qualcosa - o qualcuno - arrivi a ristabilire qualche certezza.
In molti, dentro e fuori il Pd, avevano sperato che la lezione subita il 4 marzo spingesse il gruppo dirigente a metter mano con rapidità ad una indispensabile (e autocritica) rivoluzione nei temi e nei volti da proporre al Paese: a questa aspettativa, invece, si è risposto con un biblico allungamento dei tempi del Congresso, un sordo braccio di ferro tra segretari uscenti e segretari reggenti ed una vera e propria Babele di proposte intorno alla strada da imboccare.
Vale qui la pena di indicarne solo alcune: ripartire da Pd, cambiare nome al partito, sciogliersi in un «fronte repubblicano», andare alla ricerca di un nuovo Ulivo, affrontare le elezioni europee con un listone di sinistra che faccia da levatrice per un nuovo soggetto politico... Tutto e il contrario di tutto. Con pochissima attenzione a quello che oggi appare il tema cruciale: come fare opposizione ad un governo che, piaccia o non piaccia, sembra interpretare sentimenti e paure tutt’ora largamente maggioritari nel Paese.
Queste vaghezza e queste difficoltà si sono tradotte, di fatto, in un «tasso di opposizione» assai ridotto e scarsamente convincente. Ed è anche per questo che non possono destare meraviglia gli applausi riservati al presidente della Camera: che pur militando nel fronte avverso (diciamo pure il più avverso) ha accettato l’invito alla Festa dell’Unità e lì ha elencato - con linguaggio netto e comprensibile - le cose che lo rendono distante da Matteo Salvini, dalla Lega e dai suoi alleati.
Con l’aria che tira tra i militanti del Pd, sarebbe bastato anche meno per guadagnarsi simpatie e consensi. Resta solo da domandarsi cosa resti dell’intervento di Roberto Fico a Ravenna e che senso può essere attribuito al modo col quale alcuni quotidiani ieri hanno titolato la sua performance: «Fico conquista il Pd». Per dirla più direttamente: quante possibilità ci sono che l’attuale presidente della Camera possa essere tra i ricostruttori di un nuovo centrosinistra?
Dovessimo fare una previsione oggi, diremmo pochissime. Anzi, nessuna. E non solo per il dubbio interesse di Roberto Fico - considerato a sinistra alla stregua di «un cinquestelle dal volto umano» - a cimentarsi nell’impresa: ma anche per le distanze politiche e le legittime resistenze ipotizzabili in casa democratica. Affidarsi al «fratello gemello» di Luigi Di Maio per riorganizzare l’opposizione al governo gialloverde? Oppure considerare i cinquestelle - alla vecchia maniera - una «costola della sinistra» e dunque aprire un vero canale di confronto con loro? Va bene lavorare all’evoluzione di certo populismo, ma scegliere uno di loro come rifondatore...
Al momento è fantapolitica: ma il momento è appunto inedito e in assoluta evoluzione, e nessuno può davvero prevedere quale sarà la geografia politica (a destra come a sinistra) di qui alla prossima primavera. Una cosa, invece, è possibile ipotizzarla fin da ora: gli applausi di Ravenna non faranno bene a Roberto Fico nel rapporto col suo partito. Già sospettato da tempo di «eresia», ora è recidivo. Quando Di Maio pensa a lui, pensa ad un avversario e non ad un fedele amico: cosa - e il presidente della Camera lo sa - nient’affatto comoda in questi tempi di «politica social», muscolare e molto spiccia.

Corriere 5.9.18
Il documentario «Diversi, 1938» di Treves
Liliana Segre: sul razzismo riemerge l’indifferenza
di Stefania Ulivi


Venezia «Nel 1940 alla Mostra di Venezia fu proiettato in anteprima Süss l’ebreo, manifesto nazista dell’antisemitismo. Portare qui oggi Diversi, 1938, a ottant’anni esatti dalle leggi razziali in Italia, ha un significato profondo».
Giorgio Treves, regista del documentario presentato fuori concorso, è arrivato al Lido con una delle voci che, insieme a materiali d’archivio tra gli anni Trenta e il 1943, compongono un mosaico su quella pagina terribile della storia. Liliana Segre, senatrice a vita, internata da ragazzina a Auschwitz, oggi a 88 anni ancora testimone lucidissima e indomita dell’Olocausto. Se il mondo ha scoperto che cos’è il Binario 21 della Stazione centrale di Milano, parte del merito va a lei. «Sono una delle poche ancora in vita. Da trent’anni racconto soprattutto ai giovani quel che mi è successo quando avevo 13 anni con l’unica colpa di essere nata ebrea».
Fu l’amica Goti Bauer a convincerla a vincere il silenzio e dare voce all’orrore. «Portare qui il film significa molto perché oggi noto il risorgere di sentimenti osceni che erano stati tenuti segreti. Il razzismo e l’antisemitismo non sono mai sopiti, solo che si preferiva nella ritrovata democrazia non esprimerlo. Oggi il razzismo riemerge così come l’indifferenza generale che rese possibili quei crimini. Allora i senza nome eravamo noi ebrei, i senza diritti a cui veniva tatuato un numero sul braccio. Percepisco la stessa indifferenza per i migranti che muoiono nel mare d’indifferenza mentre il Mediterraneo si chiude sopra di loro».
Nel documentario — prodotto da Tangram — oltre a Liliana Segre, parlano storici, scrittori, politici e altri testimoni diretti. L’editore Bruno Segre, centenario o il medico Roberto Bassi che vediamo tornare per la prima volta nel cortile della scuola elementare Diaz di Venezia da cui fu cacciato, all’improvviso, una mattina di ottanta anni fa.

Corriere 5.9.18
Il Labour adotta un codice contro l’antisemitismo
di Luigi Ippolito


I laburisti britannici provano a lasciarsi alle spalle la polemica sull’antisemitismo che li ha assediati per tutta l’estate: ma difficilmente riusciranno a voltare completamente pagina. Ieri la direzione nazionale del partito ha finalmente adottato la definizione di antisemitismo codificata dall’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto: ma l’ha accompagnata con una postilla in cui si fa salva la libertà di parola, ossia il diritto di critica a Israele. Era stata proprio la mancata adozione, all’inzio dell’estate, della definizione completa di antisemitismo a scatenare la controversia: la ritrosia dei laburisti era motivata con la volontà di non mettere la sordina a legittime critiche allo stato ebraico, ma molti vi hanno visto il risorgere di una latente ostilità agli ebrei. A gettare benzina sul fuoco hanno contribuito una serie di rivelazioni sul passato del leader Jeremy Corbyn: dalla sua presenza a una cerimonia per i palestinesi di Settembre nero a un discorso in cui rimproverava ai «sionisti» di «non capire l’ironia inglese». Corbyn ha subìto per questo dure contestazioni anche da parte di esponenti ebraici del suo partito: e anche se non tutti sono convinti che lui stesso sia un cripto-antisemita, resta il fatto che si è rifiutato di affrontare la questione di petto. Il problema è che Corbyn viene da una tradizione di ultrasinistra terzomondista e anti-imperialista, che lo porta automaticamente a solidarizzare con i palestinesi e a osteggiare Israele: un atteggiamento di fondo che può facilmente sconfinare nella tolleranza per posizioni ben più inquietanti. E quanto la situazione sia grave lo dimostra la rivelazione che Scotland Yard sta indagando su un dossier di episodi antisemiti nel Labour, per verificare se ci si trovi davanti a «crimini d’odio». Anche se l’imperturbabilità di Corbyn ha una spiegazione: finora la controversia non pare aver spostato consensi nell’elettorato.

La Stampa 5.9.18
I sovranisti nella patria dello Stato sociale
Gli ex neonazi puntano a prendersi la Svezia
di Monica Perosino


Jimmie Åkesson ci crede ancora, forse come mai prima d’ora. «Voglio essere il primo ministro della Svezia, voglio ribaltare il potere costituito, voglio cambiare il Paese». Il leader dei Democratici svedesi, il partito populista di destra che aspira a diventare il secondo del Riksdag, ha riverniciato l’immagine della formazione neonazista e l’ha trasformata in un partito sovranista anti-migranti. L’operazione ha funzionato: gli Sverigedemokraterna galleggiavano sulla soglia di sbarramento (4%) nel 2010, oggi sono proiettati a conquistare il 19%, ma potrebbero arrivare oltre.
Domenica prossima 7,3 milioni di elettori decideranno quale strada imboccherà il Paese, e sebbene i sondaggi facciano pensare a un nuovo – debole – governo di minoranza a guida socialdemocratica, la svolta sarà comunque storica: l’ondata sovranista che ha invaso l’Europa rischia di arrivare fino a Stoccolma e incrinare il regno incontrastato della rosa rossa di Stefan Löfven, che potrebbe registrare il peggior risultato di sempre (-10% rispetto alle ultime elezioni).
«Quando pensiamo alla Svezia la associamo alla socialdemocrazia – dice il politologo Patrik Öhberg -. Ma sembra che questa epoca stia per finire, siamo diventati un Paese come qualsiasi altro, e il bastione della socialdemocrazia sta per diventare un cumulo di macerie». Se si eccettuano i governi di Pedro Sanchez in Spagna e di Antonio Costa in Portogallo (anche se nessuno dei due ha vinto le elezioni), il declino in Europa dei socialisti sembrerebbe inarrestabile. E, sebbene sia altamente improbabile che questo sarà il turno di Åkesson gli effetti della propaganda anti migranti e della «Sweden First» hanno avuto effetti anche sulla politica del premier socialdemocratico Löfven, che è stato costretto, come già lo era stata Merkel, a un passo indietro nell’accoglienza. La Svezia nel 2015 era il Paese «che non chiude le porte a nessuno» (accolse 135.000 migranti), tra il 2017 e il 2018 è diventato il Paese che accoglie, ma ogni tanto sospende Schengen e aumenta i rimpatri.
I temi della campagna
I socialdemocratici sono stati al potere per la maggior parte degli ultimi 100 anni, e senza interruzioni il primo partito per numero di voti. Coerentemente, la forza politica del «padre» della socialdemocrazia moderna, Olof Palme, ha concentrato la campagna sull’aumento del Welfare e, meno coerentemente, ha tentato di compiacere l’elettorato di centro con la promessa di una restrizione alle politiche storicamente liberali in materia di asilo. Come Jimmie Åkesson voglia cambiare il Paese è invece meno definito: se si eccettua la volontà di una Swexit, tutta la divisiva campagna elettorale (e il programma di governo) ruota attorno alle politiche anti migranti «per una Svezia agli svedesi». Il risultato è ancora una volta lo stato sociale, in questo caso destinato solo agli svedesi. Ma il suo sogno gialloblu potrebbe dover aspettare: tutti i principali partiti si sono rifiutati di pensare ad alleanze di governo con i Democratici svedesi, per le sue radici nei movimenti neonazisti. Ciò significa che il giorno delle elezioni potrebbe essere solo l’inizio di un periodo di grande instabilità politica, con un governo di minoranza debole e lo spettro di elezioni anticipate, in un momento in cui gli analisti prevedono una probabile flessione dell’economia durante il prossimo mandato.
Il nodo Swexit
L’allarme lo lancia l’ex premier (Moderati), Carl Bildt, sullo «Svenska Dagbladet»: «Mi spiace vedere che il nodo più importante di queste elezioni non sia stato preso sufficientemente sul serio: la proposta più pericolosa dei Democratici svedesi è il referendum per chiedere l’uscita della Svezia dalla Ue. E di questo che dovremmo tutti essere molto, molto preoccupati».

Repubblica 5.9.18
 Le elezioni
"La Svezia è in mano ai migranti" così la paura fa volare i sovranisti
Il 9 settembre si vota e SD, il partito della destra antieuropea, sale nei sondaggi Tanto da mandare in crisi il Paese modello del welfare nordico
di Andrea Tarquini


STOCCOLMA La Svezia, paese guida del Nord, modello di welfare, solidarietà, pace sociale e competitività economica al top si avvia alle politiche del 9 settembre in un clima di tensione sociale, dopo una campagna elettorale dominata dai temi della sicurezza. Gli SverigeDemokraterna, i sovranisti antimigranti ed euroscettici locali, hanno il vento in poppa.
Dai poster ovunque il loro 39enne leader Jimmie Akesson, la sua compagna Louise Erixon e i loro altri capi ti invitano sorridenti, tutti rigorosamente giovani e vestiti casual, a sceglierli per cambiare, fermare la «marea musulmana» e il crimine.
In periferia come nei quartieri centrali di Stoccolma, ragazze e donne per la prima volta hanno paura di far jogging da sole nei parchi. I furti in appartamento, spesso di giorno, da fatto ignoto sono divenuti frequenti. A Malmö, terza città del paese, ogni notte gang straniere di narcotrafficanti si danno battaglia con kalashnikov e bombe a mano, troppo pochi e male armati sono i poliziotti per fermarli. Uno spettro s’aggira per la Svezia, lo spettro del vento ungherese e della nuova Italia, evoca una morte annunciata per il "Modell Sverige", il modello svedese.
Li incontri dappertutto, gli attivisti volontari degli SverigeDemokraterna (SD) che nei sondaggi oscillano tra il ruolo di terzo e primo partito.
«Abilissimi, sui social media hanno già vinto, hanno da soli tanta audience quanta tutti gli altri partiti insieme», spiega il professor Magnus Ranstorp, alto consigliere della Säpo, la polizia segreta. «Cavalcano ogni paura della gente, dai migranti agli stupri, dal crimine, ai tagli, alle zone autoghettizzate». Come fa in Svezia ogni partito in campagna elettorale, erigono chioschi in piazza e discutono con la gente.
Eccoci a Odenplan. Karin, volontaria Sd col figlio accanto, narra cosa si sente dire. «Non tremano solo le donne, anche i ragazzi sono bersagli di bande di picchiatori. Rubano, spacciano droga, loro sono 160mila e noi svedesi 10 milioni, ma loro compiono 60 stupri su cento. Non ci sentiamo più a casa».
I socialdemocratici dell’incolore premier Stefan Löfvén, da 101 anni primo partito svedese, rischiano grosso. Lo hanno capito tardi. «La gente teme migranti e crescenti disuguaglianze sociali, noi abbiamo taciuto», afferma Göran Persson, ex capo di governo che fu il Tony Blair del Nord. «Dovevamo lavorare meglio su immigrazione e integrazione», nota la ministra delle Pari opportunità Lena Hallengren, «gli Sd tra espulsioni e misure contro l’eguaglianza di genere ci porterebbero indietro di 60 anni. Lottiamo per l’Europa».
Difficile, senza leader carismatici.
«Finché governo rossoverde e conservatori e moderati che gli danno appoggio esterno sapranno solo isolare gli Sd, li rafforzeranno. Temo persino nuove elezioni e governi deboli, ci scopriamo non più diversi dagli altri europei», nota Ranstorp. E cita dossier della Säpo: «Il rischio islamista, specie i salafisti, è reale».
Percorrendo Stoccolma in Tunnelbana da un capo all’altro, ecco nel quartiere borghese di Liljeholmen, un altro chiosco sovranista. Un anziano militante spiega a una classe di liceali etnicamente mista: «Tranquilli, non vogliamo espellere chi di voi non è bianco, solo i nuovi arrivati divenuti criminali». Atmosfera paradossale: un paese del boom — piú crescita e meno debiti che in Germania, ricchezza fatta da export di eccellenze — in preda alla paura. Lo dice il signor Inge, responsabile di quartiere del partito Sd che tiene il chiosco a Medborgarplatsen, cuore di quella Sodermalm che è la zona di tendenza della vita giovanile e dell’industria musicale. Anche qui, nella Stoccolma più alternativa, SD è presente.
«Troppi giudici liberano subito i migranti arrestati in flagrante, la polizia è demotivata. Svaligiano case di giorno quando la gente è al lavoro. Chi va in ferie vicino a campi-raccolta o quartieri-ghetto è invitato dagli agenti a coprire le targhe, altrimenti con una ricerca online può venire scoperto l’indirizzo dove andare a rubare.
Gli immigrati poi costano tanto da mettere in crisi welfare scuola e sanità». L’ex patria del consenso è spaccata dall’immigrazione.
Viségrad, Salvini, Marine Le Pen sperano in "Jimmie" come nuovo forte alleato, L’Europa (per chiunque tifi) attende il 9 settembre col fiato sospeso, la Svezia felix è ricordo di ieri.

il manifesto 5.9.18
Quelle ombre nere sull’ex paradiso socialdemocratico
Elezioni in Svezia. Gli Sverigedemokraterna, razzisti e anti-Ue, grandi favoriti nel voto di domenica. Sullo sfondo, la crisi del multiculturalismo
di Guido Caldiron


Annika Strandhall, ministro delle politiche sociali ha indossato in parlamento la maglia di Jimmy Durmaz, il centrocampista di origine turca bersagliato dagli insulti razzisti dopo che la Germania ha sconfitto la Svezia nei mondiali di calcio. Elin Ersson, giovane attivista dei diritti umani, ha impedito che un richiedente asilo afghano fosse rimpatriato, bloccando all’aeroporto di Göteborg il decollo dell’aereo sul quale l’uomo era stato imbarcato.
Malgrado dalla Svezia siano arrivate di recente notizie che evocano la volontà di lottare contro le discriminazioni, c’è il rischio che si tratti di eccezioni che confermano la regola. In un paese fin qui noto per la propria capacità di coniugare giustizia sociale e integrazione tra culture diverse, spira infatti un forte vento di destra. Al punto che, secondo tutti i sondaggi, le elezioni politiche del 9 settembre vedranno una clamorosa affermazione dell’estrema destra.
IL PARTITO ANTI-IMMIGRATI dei Democratici Svedesi (Sverigedemokraterna) è dato in testa con percentuali che oscillano tra il 20 e il 25% – nel 2014 aveva il 12,9% -, seguito dai liberal-conservatori con il 23% e dai socialdemocratici, arbitri della vita politica locale nell’ultimo mezzo secolo, che si fermerebbero al 22%. Per la destra xenofoba un risultato storico. Non solo di natura simbolica.
Parallelamente alla crescita dei consensi per gli Sd, anche il cordone sanitario stabilito nei loro confronti dalle maggiori forze politiche ha finito per cedere. Il leader dei conservatori Ulf Kristersson, si dice già pronto a costituire, contro le sinistre, «la più grande maggioranza possibile»: vale a dire alleandosi con i razzisti. E non è solo il quadro interno a far temere il peggio. Un inedito asse tra conservatori e nuove destre caratterizza da tempo la politica anche in Danimarca, Norvegia e Finlandia. Segno che nelle terre dell’ex «paradiso socialdemocratico» qualcosa non funziona più. L’ascesa dei Sd ne è del resto l’illustrazione più efficace.
NATO NEL 1979 da un movimento suprematista bianco chiamato «Mantenere la Svezia svedese» (Bevare Sverige Svensk), a lungo ombrello legale dei gruppi violenti, sotto la guida del giovane leader Jimmie Åkesson, il partito ha saputo approfittare dell’inedito senso di incertezza che ha investito il paese, imponendo i propri temi nell’agenda politica.
ALLEATI A BRUXELLES DI GRILLO e dell’Ukip britannico, critici della Ue al punto di annunciare un referendum per la «Swexit» in caso di vittoria, gli Sd hanno eliminato con il tempo ogni riferimento al razzismo biologico per trasformarsi nei critici più implacabili del modello multiculturale locale. In un paese uscito rapidamente dalla crisi economica globale, ma dove le certezze di un tempo sulla solidità del welfare sono state comunque minate, il tema della presenza degli stranieri è diventato ossessivo.
GLI SD HANNO UTILIZZATO la paura per il terrorismo, lo scorso anno un uzbeko legato all’Isis ha ucciso quattro persone a Stoccolma, come per le forme crescenti di marginalità urbana, segnalate già nel 2015 dalla rivolta delle periferie della capitale, dove vivono soprattutto immigrati, per mettere in discussione i principi stessi su cui si è costruita la democrazia svedese. Denunciando come una minaccia per la sopravvivenza dell’identità nazionale sia le politiche dell’accoglienza che la cultura del «politicamente corretto». Con il risultato, come spiega Peter Wolodarski sul quotidiano Dagens Nyheter, che «per molto tempo, per favorire l’integrazione, si è detto che era meglio non parlare dei problemi legati all’immigrazione. Oggi, accade il contrario».
Mentre, durante i loro successivi governi, sia i conservatori che gli stessi socialdemocratici hanno varato una stretta su rifugiati e migranti, contraddicendo il tradizionale spirito di una «società aperta», la visione all’insegna della decadenza e della paura propugnata dall’estrema destra si è andata imponendo. E ora, alla vigilia del voto, Jimmie Åkesson può annunciare, certo che le sue parole trovino ascolto, «noi vogliamo che chi viene qui contribuisca a mantenere questo paese come è stato finora, tutti gli altri devono semplicemente andarsene». Una promessa che suona come una minaccia.

il manifesto 5.9.18
Finisce il mito del paese che accoglie i profughi
Svezia al bivio. Giro di vite del governo: tetto al numero di rifugiati e ricongiungimenti familiari più difficili
di Carlo Lania


Le prossime elezioni svedesi potrebbero sancire la fine ufficiale di un mito che ha resistito per decenni, quello della Svezia come modello di accoglienza per ogni profugo in cerca di un rifugio sicuro. E non si tratta certo di un processo cominciato oggi. E’ almeno dal 2016, dopo la crisi dei migranti che l’anno prima aveva raggiunto il suo picco, che il Paese ha cominciato lentamente a chiudersi diventando sempre meno accogliente verso i suoi ospiti stranieri. Un cambiamento dovuto non solo alla pressione esercitata sull’opinione pubblica dalla destra xenofoba, ma anche alla sinistra, ai Socialdemocratici svedesi al governo che lentamente ma costantemente hanno cominciato a modificare le politiche sull’accoglienza rendendo sempre più difficile la permanenza – oltre che l’ingresso – nel Paese. Tutto pur di rincorrere i Democratici svedesi, la formazione anti migranti e anti europeista confinata al terzo posto in parlamento fino alle ultime elezioni, ma che tra pochi giorni potrebbe uscire vincitrice dalle urne.
I segnali del malumore creato da anni di politica delle porte aperte non sono mancati. Un recente sondaggio ha rivelato come sia proprio l’immigrazione il tema che maggiormente preoccupa gli svedesi (20%), più della salute (19%), della sicurezza (12%) e dell’ambiente (9%), molto più – e la dice lunga – del lavoro (3%) segno che oltre al mito dell’accoglienza sta per tramontare anche quello del multiculturalismo. Percentuali che si spiegano solo in parte con altri numeri, quelli relativi alle richieste di asilo presentate nel Paese negli ultimi quattro anni e che ammontano a più di 314.000. L’apice nel 2015, con 163 mila richieste delle quali 70.384 da parte di minori non accompagnati. Numeri che fanno della Svezia il Paese europeo con la maggiore percentuale di rifugiati in rapporto alla popolazione (9,5 milioni di abitanti), ma che nel corso degli anni sono diminuiti sempre più, tanto che da gennaio a oggi si contano solo 12.000 nuove richieste.
Il fiume di persone arrivate nel 2015 ha provocato come prima reazione del governo la sospensione nel novembre dello stesso anno del trattato di Schengen con il ripristino dei controlli alla frontiera con la Danimarca, insieme alla successiva adozione di una serie di misure inizialmente presentate come temporanee ma che dallo scorso mese di maggio sono diventate definitive. Tra queste la decisione di mantenere i controlli alle frontiere, di consentire i ricongiungimenti familiari solo a chi ha ottenuto la status di rifugiato e di fissare a 14.000 l’anno il tetto per le richieste di asilo, la metà rispetto al 2017 quando furono 27.205. Ma soprattutto ha intensificato le espulsioni degli afghani, con il conseguente aumento di suicidi tra i più giovani:  pur di non tornare in Afghanistan 12 ragazzi tra i 10 e i 21 anni si sono tolti la vita solo nel 2017. Fine del «Paese dell’accoglienza», ma fine anche dell’impegno preso nel 2014 da Stoccolma quando promise che i siriani in fuga dalla guerra civile avrebbero sempre trovato ospitalità. Uno dei motivi per cui nel 2015 a migliaia fecero di tutto pur di arrivare in Svezia. «Da una politica dell’asilo considerata generosa, la Svezia passa allo stretto minimo europeo», ha scritto Le Monde.
Dietro il giro di vite del governo svedese, che può sembrare esagerato per un paese la cui economia gode comunque di buona salute, c’è sicuramente la constatazione di un’integrazione fallita, ma anche l’ansia di non perdere terreno rispetto a una destra xenofoba che a lungo ha alimentato la paura dell’imminente fine di un generoso stato sociale, indicando come prime vittime anziani e disoccupati. «L’immigrazione è costosa, prende risorse da insegnanti, medici, assistenti sociali e influisce su tutto il resto. Non possiamo non renderci conto di questo», è uno degli slogan più ripetuti dai Democratici svedesi. Che adesso , fiutando un possibile successo elettorale, promettono di finanziare un miliardo di corone (cento milioni di euro), un programma di rimpatri volontari nei paesi di origine.

il manifesto 5.9.18
Svezia, il vecchio «paese avanguardia» pronto a invertire il corso della propria storia
Scenari post-elettorali. Anche se l’economia è buona, aumentano le diseguaglianze tra la popolazione. A trarne profitto potrebbero essere le destre
Una fabbrica della Volvo
di Paolo Borioni


Giungono pessimi segnali dalla Svezia. Anche qui nei sondaggi la destra nazional-populista straborda, e pare possa sferrare un doppio colpo letale al sistema politico. I socialdemocratici perderebbero il primo posto che detenevano senza rivali da quando, nel 1918, era stato introdotto il suffragio universale, rompendo il lunghissimo dominio di un voto censitario particolarmente retrogrado. Anche il maggiore partito liberal-conservatore, i Moderaterna, tracolla al 15%, ed è dubbia la presenza in parlamento di un altro partito di centro-destra come i Cristiano-Democratici, sotto la soglia di sbarramento al 4%.
A SINISTRA solo la formazione post-comunista Vänsterpartiet pare recuperare voti. Uno sconvolgimento, con gli Sverigedemokraterna primi al 25% e una situazione ingovernabile con qualunque parametro coalizional
e finora immaginato. Per alcuni la storia europea è semplice: i nordici sono costituzionalmente pacifici, nonché tendenzialmente illuminati e progressisti, i mediterranei il contrario. La realtà è che fino agli anni 1920 l’emigrazione è stata obbligatoria per circa il 20% di una popolazione povera quanto la nostra, con un dominio di classe fortissimo e, fino agli anni ’30, la situazione sociale e sindacale più turbolenta in Europa, con conflittualità aspra e non di rado violenta.
LE COSE MUTARONO del tutto solo nel 1934, con l’accordo fra socialdemocratici e partito contadino, fino a quel momento molto conservatore se non reazionario. La questione sociale unì contadini e operai in un compromesso in cui la domanda interna degli uni costituì quella degli altri e viceversa. La grande depressione fu sconfitta e cominciò la storia della Svezia avanguardia socialdemocratica del mondo, fra il comunismo di cui rifiutava l’oppressione (anche e soprattutto operaia) e il capitalismo, in cui vedeva la diseguaglianza come ingiustizia non riparabile dalle libere elezioni.
Secondo qualificate misurazioni gli indici di eguaglianza così ottenuti finirono negli anni 1980 per essere i maggiori della storia, verosimilmente minori che nelle società comunitarie primitive. Ma con gli anni 1990 molto è cambiato, non per il meglio. Da allora l’incremento di diseguaglianza registrato ovunque è stato in Svezia il maggiore fra i paesi avanzati. La crescita annuale del Pil è molto buona, i surplus di bilancio e commercio estero nettamente positivi, ma si dimostra che se il segno positivo è importante, la qualità e la distribuzione ineguale della crescita e la fissazione per la riduzione del deficit sono letali, non solo per la sinistra. I socialdemocratici, al governo la maggiore parte del tempo dal 1991, dando la priorità ai conti pubblici non hanno davvero ribaltato le misure introdotte dai governi «borghesi» (1991-94 e 2006-2014).
L’ultimo governo di centro-destra, come molti liberal-conservatori e liberal-progressisti, ha ritenuto che precarizzazione del lavoro e riduzione del welfare a segnali di mercato (New Public Management) fossero compatibili con l’apertura verso centinaia di migliaia di profughi in aggiunta ad un 20% già presente di popolazione con retroterra non svedese. Famoso il discorso dell’ultimo primo ministro liberal-conservatore Reinfeldt, che descrivendo da un velivolo una Svezia con tanto spazio per innumerevoli nuovi arrivi esortava i connazionali: «aprite i vostri cuori». Proprio mentre l’incoraggiamento dell’utile individualistico assurgeva al massimo livello.
UN DATO INTERESSANTE: secondo uno studio del grande sindacato confederale LO (Högerpopulismen och jämlikheten: Populismo di destra ed eguaglianza) la diffidenza verso l’immigrazione non è aumentata. A crescere è la quantità di persone che la ritengono tema tanto prioritario da infrangere le lealtà politico-elettorali. Così, lo scatenamento d’intolleranza (dall’accondiscendenza per l’aggressività degli Sverigedemokraterna, ai linciaggi in rete di Durmaz, calciatore di origine aramaica reo di un errore ai danni della nazionale giallo-blu ai mondiali) potrebbe essere visto in modo nuovo.
Più che prendersela con la «ignoranza del popolo», come semplicisticamente si fa in Italia (ma il degrado avviene anche nella scolarizzata Scandinavia) la Svezia che va a destra mostra che i sindacati e i partiti come la socialdemocrazia riescono a «far riflettere» i propri elettori solo se le loro politiche rimangono centrali. Solo così la smettono di ritrarsi dal proprio spazio argomentativo, solo così riducono quello di altre argomentazioni ed ossessioni. D’altra parte, il centro-destra liberal-conservatore classico può vincere sgravi fiscali iniqui e privatizzazioni del welfare, ma solo finché il fondamento «socialdemocratico» rimane abbastanza cospicuo da bilanciarli.
Oltre questo limite anche le classi medie declinano e «sragionano«. E anche la Svezia può invertire il corso della propria storia.

il manifesto 5.9.18
La voce incenerita del Brasile
Patrimonio. Il rogo al Museo nazionale di Rio de Janeiro ha cancellato il 90% dei reperti lì conservati, tra cui le registrazioni di canti indigeni e i preziosi libri della biblioteca di antropologia culturale
di Valeria Ribeiro Corossacz

Il Museu Nacional di Rio de Janeiro, museo di storia naturale, etnologia e antropologia, considerato l’istituzione scientifica più antica del paese, non esiste più. Aveva sede nel Palácio de São Cristóvão, storica sede della famiglia reale portoghese e poi della famiglia imperiale brasiliana, che si trova nel Parque da Quinta da Boa Vista, mèta di passeggiate per molti cariocas, soprattutto residenti nei quartieri circostanti, popolari e lontani dall’area più ricca e turistica della città. Il Museu riceveva ogni anno centocinquantamila visite, tra cui molti alunni della scuola pubblica.
OLTRE ALLE COLLEZIONI zoologiche, paleontologiche e botaniche formate da materiali raccolti sul territorio brasiliano, i visitatori potevano ammirare documenti sulla storia dell’Impero, artefatti greco-romani ed egizi, raccolti dalla famiglia reale portoghese. Tra i pezzi conservati nelle gallerie, c’era anche un meteorite: è stato trovato intatto, avendo sopportato le alte temperature provocate dall’incendio.
NON SI SA ANCORA se sia andato distrutto il fossile del cranio di Luzia, che attestava la presenza delle prime popolazioni dell’America latina circa undicimila anni fa. Il cranio, con la sua ricostruzione facciale, non era esposto al pubblico per mancanza di fondi. I dirigenti del Museu calcolano che sia andato distrutto il 90% delle collezioni. Il vice Direttore dell’istituzione, l’antropologo culturale Luiz Fernando Dias Duarte ha denunciato l’abbandono da parte della classe dirigente degli ultimi governi: da decenni, la direzione cerca di ottenere i fondi necessari per portare avanti il processo di ristrutturazione e ricollocazione delle varie gallerie, deciso proprio per proteggere il patrimonio in esse contenuto. Si trattava, infatti, di materiali facilmente infiammabili, che non potevano rimanere in quella struttura, vetusta e prevalentemente di legno – che infatti ha ceduto, distruggendo le teche. Duarte ricorda che nella festa per celebrare i duecento anni dell’Istituzione, nel giugno scorso, la direzione non è riuscita a ottenere la partecipazione di nessun ministro del governo, a dimostrazione della disattenzione verso questa struttura.
IL MUSEU ERA ANCHE SEDE del prestigioso Programa de Pós Graduação em Antropologia Social dell’Universidade Federal do Rio de Janeiro, in cui sono nati, negli anni della dittatura, nuclei di ricerca di antropologia indigenista, rurale e urbana, importantissimi per l’antropologia brasiliana.
Sono state sviluppate qui indagini sul campo che hanno interessato l’intero territorio nazionale, in cui si studiavano le relazioni di sfruttamento nelle campagne, i quilombos (territori rurali gestiti da popolazioni nere), le lingue indigene, le trasformazioni delle popolazioni indigene, il ruolo del razzismo nella formazione della nazione, le politiche di «sbiancamento» per liberarsi dei discendenti di schiavi africani favorendo l’immigrazione europea.
QUESTE RICERCHE hanno allo stesso tempo documentato forme diverse di oppressione e resistenza durante la dittatura, e costruito un progetto di antropologia impegnata e militante ancora oggi vivo. L’importanza del Museu Nacional risiede anche nel fatto di aver accolto studiosi che hanno analizzato criticamente il legame che esisteva all’inizio del 900 tra etnologia, antropologia fisica e la nascente antropologia culturale, gettando le basi per una disciplina libera dal determinismo biologico. La biblioteca di Antropologia culturale, la più importante di Rio, è andata distrutta, e sembra anche tutte le registrazioni audio di canti in lingue indigene oggi non più parlate, così come altri documenti preziosi.
La cancellazione del patrimonio del Museu Nacional è un lutto non solo per il Brasile, ma per tutta l’umanità. Poteva essere evitata se, invece di tagliare i fondi dedicati a esso e, in generale, alla cultura e alla ricerca, il governo federale avesse investito per realizzare il progetto messo a punto dalla direzione.
Lunedì, studenti dell’Ufrj hanno manifestato fuori dai cancelli del Museu per protestare contro i tagli del governo Temer all’educazione e alla cultura; l’Ateneo ha sospeso le lezioni. Un’altra manifestazione si è tenuta nel centro della città, in difesa dell’educazione pubblica e per esprimere il sentimento di perdita e lutto. Per molti, questo incendio è la metafora del momento buio che attraversa il Brasile, del disprezzo delle classi dirigenti per la cultura e della negligenza verso il patrimonio pubblico. Ora è il momento di ricostruire il Museu e un Brasile socialmente più giusto.
anche: https://ilmanifesto.it/brasile-la-memoria-bruciata/

il manifesto 5.9.18
«El Pepe», una vita di militanza continua
Venezia 75. L’ex presidente dell'Uruguay raccontato nel documentario di Emir Kusturica «El Pepe, una vida suprema» (fuori concorso) e nel film di Alvaro Brechner «La noche de 12 años» (Orizzonti)
Josè «Pepe» Mujica in «El Pepe, una vida suprema» di Emir Kusturica
di Silvana Silvestri


VENEZIA «Non sapevo nulla dell’Uruguay – dice Kusturica, qualcuno mi ha detto c’è il presidente che sta guidando il trattore. Mi sono detto: devo conoscerlo». La presenza di Pepe Mujica sul Lido è stato uno degli eventi più emozionanti della manifestazione: due sono stati i film in programma accolti dal pubblico con grande commozione, che raccontano il suo presente e il suo tragico passato di detenuto politico e delineano la sua imponente figura di politico coerente nelle parole e nello stile di vita. Emir Kusturica firma il documentario El Pepe, una vida suprema (fuori concorso), dove ha potuto cogliere precisamente il giorno in cui Mujica il 1 marzo del 2015 ha rimesso il mandato di presidente dell’Uruguay che aveva ricoperto dal 2010, dopo aver ridotto la soglia di povertà del paese dal 25% al 9%, una vittoria che si deve anche alle sue iniziative personali, dedicando il 70% del suo stipendio ai poveri.
Una gigantesca folla lo attende in strada in un abbraccio collettivo, 150 mila persone che applaudono e piangono. «No me voy – risponde lui, stoy llegando»: non vado via, sto arrivando, a significare che la militanza continua. Una militanza che non è mai stata persa, tutto sta a dimostrarlo. Kusturica ascolta in silenzio il racconto di Pepe, nella campagna che circonda la sua casa e che lui cura personalmente alla guida del vecchio trattore, spostandosi anche con la Wolkswagen celestina dell’87, accanto alla moglie, una militante di lunga data anche lei, la senatrice Lucia Topolansky conosciuta alla fine degli anni Sessanta.
Kusturica il rude regista esperto in sarabande zingaresche fuma il sigaro in silenzio, assaggia l’amarezza del «mate» e lo ascolta raccontare in pochi cenni l’estrema solitudine di quei 13 anni vissuti in isolamento in tutte le carceri del paese insieme ai suoi compagni: senza quell’esperienza, dice, sarei stato più frivolo, più ambizioso, più vanesio, ebbro di successo. Invece ha scelto la povertà («non sono povero, semplicemente il denaro non mi serve, posso fare a meno di tante cose inutili»). Accompagna il regista in un grande magazzino, il mall Punta Carretas: proprio nel corridoio centrale dove ora si affacciano i negozi gli dice, c’era il corridoio centrale del carcere.
La gente gli si fa intorno in un grande abbraccio. Insieme agli altri capi della guerriglia urbana che compiva gli espropri proletari (il sistema bancario, dice, «è il grado più alto di delinquenza umana che fa lavorare il denaro degli altri senza lavorare») dal carcere di Punta Carretas evase clamorosamente una prima volta con altri 106 compagni, ma nel ’72 fu tenuto come ostaggio per più di un decennio. Impossibile resistere alla forza della sua oratoria sincera, ne furono conquistati i delegati dell’Onu e perfino Obama.
Una scena da «La noche de 12 años» di Alvaro Brechner
Tra le sequenze di Stato d’assedio di Costa Gavras, per non dimenticare che le dittature in latinoamerica furono originate dal Plan Condor pilotato dagli Usa, racconta e accompagna Kusturica a visitare le piante che coltiva. Con lui ci sono i vecchi compagni di lotta del Movimiento de liberacion Nacional, i Tupamaros Neto (Eleuterio Huidobro) diventato ministro della difesa e Ruso, il poeta e scrittore Mauricio Rosencrof . Pepe, Neto e Ruso sono i tre protagonisti di La noche de 12 años di Alvaro Brechner (Orizzonti) tutte le caratteristiche del genere carcerario sviluppato in un crescendo di grande umanità lungo anni di isolamento, scene riempite con grande abilità, dove l’insegnamento principale è la necessità della resistenza a tutti i costi: sentire parlare i reali protagonisti della vicenda (Huidobro è scomparso da poco) nel doc di Kusturica, rende l’opera ancora più emozionante.
È un film nato da anni di investigazioni e testimonianze, un lavoro sulla memoria che denuncia la detenzione in violazione di ogni diritto umano, di un fatto molto poco conosciuto in un paese dove ancora non si sono fatti i conti con il passato. Pepe Mujica non parla dell’epoca della detenzione, pensa che siano ferite profonde da rispettare, ma non si tira indietro quando deve commentare situazioni politiche come chi gli chiede una soluzione per il Venezuela: «Non so proprio cosa si possa fare, dice, ma ho fiducia nei popoli. A volte i popoli hanno bisogno di aiuto, ma ci sono aiuti che è meglio non avere, il Venezuela saprà uscirne da solo. Noi in America Latina non abbiamo bisogno di sostegno, altri paesi nel mondo ne hanno bisogno. I ricchi del mondo devono capire che esiste il concetto di responsabilità e che i poveri non sono dell’Africa ma dell’umanità».

Repubblica 5.9.18
La mostra a Londra
Se l’arte si obbliga alla parità dei sessi
La parità è arte
di Melania Mazzucco


La Royal Academy of Arts di Londra, per la mostra Renaissance Nude che aprirà nel marzo del 2019, ha introdotto la "parità di genere" (o gender equality): esporrà tanti nudi femminili quanti nudi maschili. La scelta di Tim Marlow può prestarsi a polemiche e facili derisioni. Si può discutere sull’opportunità dell’inserimento del criterio quantitativo nella valutazione della rappresentatività di un’opera d’arte, e del rischio del naufragio nella deriva della correttezza. O chiedersi se si possono applicare le quote a opere dipinte in epoche in cui la pittura era praticata da uomini e a uomini per lo più destinata, e rarissime erano le committenti che potessero imporre un soggetto a loro gradito (Cristina di Svezia si accaparrò un nudo maschile per suo diletto, ma le altre, regine davvero, mogli e madri, non avrebbero potuto farlo).
Una mostra, però, non è solo una mostra, e dice del proprio tempo molto più di quanto dica del tempo in cui i quadri che esibisce furono creati. E l’insolita applicazione delle quote alle immagini dipinte rivela l’attenzione religiosa e quasi isterica al rispetto della differenza che impregna oggi il clima culturale dei Paesi anglofoni. In Italia ne facciamo spensieratamente e spudoratamente a meno, e le campagne di sensibilizzazione sul tema sono accolte con lazzi e sghignazzi, se non con tombale indifferenza.
In realtà, come ha ammesso il direttore Marlow, selezionare le opere badando a rispettare la parità è stato «un esercizio molto interessante». E potrebbe avere un esito sorprendente. L’elenco delle opere non è ancora stato diffuso e chissà se si vedranno il nudo maschile più eretico del Cinquecento ( La derisione di Noè di Giovanni Bellini), e la maliziosa Venere dormiente di Giorgione… Ma forse proprio questa provocatoria equazione visiva permetterà ai visitatori di riflettere sul modo in cui il nudo è stato trattato dagli artisti del Rinascimento. Di chiedersi se il nudo di Venere o di Eva e quello di Adamo miravano allo stesso scopo — forse no, se i primi spesso erano dipinti per scomparire nelle camere da letto dei committenti, a volte pudicamente celati da drappi e panneggi, e gli altri servivano a glorificare la creazione e la somiglianza dell’uomo col Dio che lo ha formato; perché lo studio dell’anatomia non si applica al corpo della donna, o perché a questo si addica il naturalismo e l’idealizzazione eroicizzante a quello maschile… Ma in realtà la notizia più clamorosa dell’annuncio della Royal Academy è un’altra, e non deve passare inosservata. Nella mostra la parità di genere non sarà riservata alle immagini, ma si estende agli studiosi. Dunque a coloro che la mostra concepiscono, allestiscono, comunicano e tramandano. Non solo di corpo stiamo parlando, infatti, ma di intelletto. Un’immagine veicola un pensiero e una visione del mondo: ma anche l’atto stesso di selezionare le immagini, decifrarle e commentarle non è neutrale e genera messaggio, tradizione e cultura. E se Guerrilla Girls e altre attiviste di resistenza femminista hanno censito, oltre che la presenza femminile nei nudi delle collezioni, la presenza delle artiste nei musei (peraltro tuttora grama, nonostante più di trent’anni di battaglie), non so se sia stato fatto altrettanto per le curatrici delle mostre, le autrici dei saggi e dei contributi dei cataloghi, le conferenziere degli eventi che fioriscono attorno alle mostre, e via dicendo. La loro assenza, o invisibilità, o comparsa ancillare, suscita poco stupore e nessuno scandalo. Ecco, questa parità meno chiassosa, rivoluzionaria e ancora lontanissima dal nostro orizzonte, sarebbe l’esempio virtuoso da imitare.

Repubblica 5.9.18
Il falso mito dei 10mila passi (che però male non fanno)
Gli esperti: "Quel numero non ha basi scientifiche" Fu un’azienda giapponese a creare negli anni 60 il primo contapassi: era il "manpo- kei", che vuol dire 10mila passi
di Cristina Nadotti


ROMA Un po’ come il limite del 3 per cento nel deficit pubblico o, per restare in ambito medico, il valore del colesterolo che non deve superare 200. Un altro numero totem perde il suo valore: i 10mila passi quotidiani, panacea per malattie varie, àncora cui assicurare il proprio benessere, sono stati stabiliti da un esperto di marketing e non da un conoscitore dell’attività fisica o della prevenzione delle malattie cardiovascolari.
Il quotidiano inglese Guardian ieri non usava mezzi termini: «L’obiettivo dei 10mila passi giornalieri è basato su presupposti scientifici inesatti» e specificava perché. Negli anni Sessanta, dopo il grande successo dei Giochi olimpici di Tokyo, un’azienda giapponese decise di sfruttare l’onda lunga dell’entusiasmo per lo sport. La Yamasa inventò il primo contapassi portatile che chiamò manpo- kei, cioè 10mila passi.
Da quel momento la ricerca scientifica si ingegnò per verificare se quel numero potesse stabilire uno stile di vita attivo.
Dell’intento pubblicitario celato nei 10mila passi sono stati in seguito ignari sostenitori, oppure oculati sfruttatori, gli esperti dell’Organizzazione mondiale della Sanità, che lanciarono qualche anno fa una campagna omonima. Gli sono andate dietro varie associazioni mediche e, naturalmente, altre aziende. Il giro d’affari dei congegni elettronici per misurare l’attività fisica giornaliera era nel 2015 di circa 40 milioni di esemplari venduti nel mondo, ma da allora è diventato più complicato tracciare le vendite dei semplici contapassi, inseriti nella tecnologia da indossare, negli smartwatch e, soprattutto, sostituiti dalle app scaricabili sul telefono. Di sicuro al contapassi sono legati i tentativi di tenersi in forma e in salute di molti. «Che male c’è? — osserva Carlo Tranquilli, medico dello sport dell’Università San Raffaele di Roma ed ex medico della nazionale di calcio under 21 — molti dei sistemi per migliorare l’attività fisica hanno sempre un’origine commerciale. I medici da sempre danno indicazioni sui benefici che vengono dal movimento, ma è soltanto quando questi consigli rappresentano un beneficio economico per qualcuno che il messaggio viene rinforzato».
La riprova dell’osservazione di Tranquili sta nei dati diffusi dal ministero della Salute: sebbene il numero dei sedentari in Italia sia ancora alto, con 4 persone su dieci inattive, negli ultimi anni chi si è convinto che muoversi sia una medicina è aumentato in modo considerevole. «E come per una medicina — precisa Tranquilli — il dosaggio e l’intensità vanno calibrati a seconda dell’individuo, per cui il limite dei 10mila passi può essere non allenante per alcuni o troppo faticoso per altri. In ogni caso iniziare a camminare e a muoversi fa sempre bene, a ogni età. L’importante è farlo consultando prima un medico».
Non un contapassi, dunque.

Repubblica 5.9.18
Intervista
Il cardiologo
"Mezz’ora al giorno ottimo esercizio per stare in forma"


ROMA Sarà una convenzione, però i 10mila passi fanno bene, a patto che non si miri a dimagrire. Entra nei dettagli Roberto Volpe, del servizio prevenzione e protezione del Cnr.
I 10mila passi sono soltanto una cifra a caso?
«Diecimila passi corrispondono a circa 7 chilometri. Possono essere un buon allenamento cardiovascolare, ma dipende dalle condizioni generali di salute. In ogni caso si bruciano circa 300 calorie, poco più di un piatto di pasta».
Ciascuno ha un passo diverso, qual è consigliabile tenere?
«Ci vuole un passo svelto, che non affatichi, tale che si possa parlare senza fiatone. Se invece si vuole un allenamento maggiore, con effetti sul dimagrimento, i sette chilometri andrebbero fatti di corsa, in bici o a nuoto».
Con quale frequenza si ottengono benefici?
«Camminare tutti i giorni sarebbe l’ideale, ma almeno mezz’ora a piedi, non a passo da shopping, cinque volte a settimana è già un ottimo esercizio. E non serve farlo per 30 minuti di fila: per esempio, se si va a piedi alla fermata del bus all’andata e al ritorno dal lavoro, per un totale di mezz’ora, va benissimo».
Ecco, prendiamo un esercizio di questo tipo: cosa succede al metabolismo?
«Si agisce sulla glicemia, si diminuiscono i trigliceridi aumentando così il cosiddetto colesterolo buono, si riduce la pressione e si liberano le endorfine con effetti positivi sullo stress.
Insomma si riduce il rischio globale di malattie cardiovascolari».
(c. nad.)

Repubblica 5.9.18
Benvenuti nel mondo dei quanti "Prima e dopo qui non esistono"
di Elena Dusi


Giulio Chiribella, 38 anni, insegna a Oxford e Hong Kong Nel 2009 l’intuizione: causa ed effetto possono scambiarsi i ruoli. E ora arriva la conferma da uno studio australiano G iulio Chiribella fa ricerca contemporaneamente alle università di Oxford e Hong Kong e non è un caso che la sua disciplina sia la meccanica quantistica. Nel 2009, a 29 anni, ha aggiunto un tassello al principio secondo cui nel mondo dei quanti una particella può trovarsi in due luoghi. La particella può raggiungere una regione B prima della regione A e, contemporaneamente, la regione A prima di quella B. Alla dimostrazione Chiribella è arrivato con Mauro D’Ariano e Paolo Perinotti dell’università di Pavia, dove ha studiato fisica. Oggi l’idea è stata confermata con un test a base di fotoni da un team australiano. Si è guadagnata il nome di dilemma dell’uovo e della gallina in salsa quantistica.
« Prima e dopo, causa ed effetto possono scambiarsi i ruoli » dice Chiribella. « La meccanica quantistica è così, controintuitiva ma non complicata. Sembra un trucco di magia. A pensarci bene però è un modo diverso di pensare: come passare dall’idea di verità a quella di probabilità». Altro " trucco di magia" del gruppo di Chiribella: «Immaginiamo un treno con un libro a bordo che viene distrutto all’ingresso nella stazione A. Stessa cosa accade a se il treno entra nella stazione B. Il nostro treno quantistico può attraversare la stazione A prima di quella B e contemporaneamente la stazione B prima di quella A. In questo caso una parte del contenuto del libro arriva intatta. Quando io e un mio dottorando tedesco lo scoprimmo - racconta lo scienziato - non ci credevamo. Abbiamo deciso di andare a pranzo e rifare i calcoli alla lavagna dopo un paio di caffè, giusto per essere sicuri che non stavamo sognando ».
A questi " trucchi da prestigiatore" in realtà sono interessati i governi di mezzo mondo. «Realizzare un computer basato sulla meccanica quantistica sarà un’impresa equivalente alla conquista della Luna», non esita a dire Chiribella. L’Unione Europea ha investito nel settore un miliardo di euro ( la Quantum Flagship Initiative) e Google ha arruolato in massa dal mondo della meccanica quantistica. Altrettanto importante sarà creare linee di trasmissione a prova di spionaggio. Pechino qui è già passata in testa alla classifica, lanciando un satellite capace di inviare informazioni criptate con questa tecnologia. Nella " gara dei quanti" che da trent’anni impegna Stati Uniti, Europa e Giappone, è la Cina, ultima arrivata, il paese che sta muovendo i passi più dirompenti. E non è un caso che l’università di Pechino Tsinghhua nel 2012 abbia reclutato Chiribella nell’ambito del progetto dei "mille talenti della Cina".
«Lì ho provato un’enorme gratificazione professionale. Ho scoperto che i ricercatori possono essere persone prestigiose nella società. La meccanica quantistica in Cina fa parte della cultura popolare. Tanti ragazzi sognano di diventare scienziati e il coordinatore di questo settore a livello nazionale, Janwei Pan, appare spesso in tv, come da noi potrebbe essere per un calciatore » . A Pechino Chiribella riceve finanziamenti per i suoi progetti e si sente libero di esplorare nuove idee. E poi incontra sua moglie, professoressa nello stesso ateneo: « Una persona dall’entusiasmo straordinario e una vita da romanzo, passata dalla povertà della campagna all’università » . Lei, con il loro bimbo Francesco, vive a Hong Kong dove si occupa di intelligenza artificiale. «A Hong Kong è tutto più semplice perché l’inglese è lingua ufficiale. Mi piacerebbe imparare il cinese, certo, ma per ora la ricerca mi tiene troppo occupato ».
E l’Italia, che posto occupa oggi per questo "scienziato del mondo"? Non di primo piano, per quanto riguarda la ricerca. « Ma ho la sensazione molto nitida che non sarei qui se non avessi studiato in Italia. All’università ho seguito corsi di un livello intellettuale raramente uguagliati altrove. Sono infinitamente grato al mio paese per l’educazione che mi ha dato e per le persone che ho incontrato » . Liceo scientifico Belfiore di Mantova, diploma di pianoforte al conservatorio, poi università e dottorato a Pavia. «In quegli anni, penso soprattutto al liceo, provavo una sensazione unica, come se fossi immerso in un ambiente del Rinascimento. Dopo aver girato il mondo, posso dire di non aver mai ritrovato un clima analogo. Sentivo che la cultura veniva prima delle nozioni, che tutti i campi del sapere sono legati, che la scuola era una palestra dell’intelligenza, che eravamo educati per diventare cittadini prima ancora che per imparare un lavoro. Se a 17 anni mi avessero detto che sarei diventato professore di scienza della computazione a Oxford d’altronde non ci avrei creduto».
Quello che è diventato il suo lavoro oggi, Chiribella torna spesso a spiegarlo ai liceali dell’amato Belfiore. « La meccanica quantistica è entusiasmante, sorprendente. Non trovo difficile raccontarla ai ragazzi». Quando frequentava quelle aule, però, era soprattutto ai tasti del pianoforte che Giulio si dedicava. « Il mio sogno era diventare un compositore » . Oggi il sogno è cambiato, ma non poi così tanto. « Vorrei contribuire alla cultura del mio tempo attraverso la scienza, anziché la musica » . L’accento sulla parola cultura non è casuale: « Fare scienza vuol dire catturare e rivelare la realtà attraverso le idee. La tecnologia o le implicazioni strategiche della meccanica quantistica sono enormi, ma a mio modo di vedere vengono dopo il primato delle idee. La ricerca è una passione umanistica e creativa, ha un aspetto quasi artistico. Fra il pianoforte e il mondo dei quanti cambia il linguaggio, ma la passione è la stessa».

Repubblica 5.9.18
Frascati
Parte la caccia alla materia oscura
di Maria Francesca Fortunato


Nei laboratori dell’Infn ricercatori impegnati nel progetto Padme N ei laboratori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare di Frascati è partita la “ caccia” alla materia oscura. Dalla seconda metà di settembre i ricercatori che lavorano all’esperimento Padme - Positron annihilation into dark matter experiment inizieranno l’attività di presa dati, nella speranza di risolvere uno dei misteri che tormenta i cosmologi: trovare evidenze sperimentali della materia invisibile e sfuggente che forma gran parte dell’universo.
L’ipotesi su cui lavora l’Infn è che la materia oscura sia sensibile a un nuovo tipo di forza, diversa da qelle finora conosciute (elettromagnetica, nucleare forte, nucleare debole, gravitazionale) e associata a una particella- messaggero, simile al fotone ma provvisto di massa. Gli scienziati andranno alla ricerca di questa ipotetica particella, osservando l’annichilazione tra elettroni e positroni ( le antiparticelle degli elettroni): se esiste una quinta forza, la collisione dovrebbe liberare un fotone visibile e il “ gemello” oscuro.
L’esperimento sfrutta l’acceleratore dei Laboratori nazionali di Frascati per “ sparare” positroni su una membrana di diamanti artificiali spessa un decimo di millimetro. «È la prima volta che la tecnica di annichilazione viene usata su un bersaglio fisso - spiega Mauro Raggi, portavoce dell’esperimento, ricercatore dell’Infn e dell’Università La Sapienza di Roma - Questo ci garantisce una sensibilità maggiore, grazie a un’elevata presenza di elettroni». Ciò che Padme garantirà, spiega ancora Raggi, è un “ identikit” preciso del fotone oscuro, porta di collegamento verso la dark matter. « Padme permette di misurare due valori che identificano la particella: la massa e l’accoppiamento con la quinta forza. Una volta individuate queste caratteristiche - dice Raggi - tutti gli altri ricercatori potranno verificare nelle proprie osservazioni la presenza della particella » . Le rilevazioni a Frascati andranno avanti fino alla fine dell’anno.