il manifesto 4.9.18
La commedia umana di Amos Gitai
Venezia
75. Si intitola «A Tramway in Jerusalem» il nuovo film del regista
presentato fuori concorso insieme al corto «A Lettere to a Friend in
Gaza»
di Cristina Piccino
VENEZIA La proposta
di legge avanzata governo israeliano (che prevede il diretto controllo
della commissione statale, ndr) distruggerà il cinema in Israele. Non ha
dubbi Amos Gitai che ne è la figura internazionalmente più emblematica
anche quando dal suo Paese era lontano, tra Parigi e New York, poi
tornato con l’entusiasmo dell’elezione di Rabin e di nuovo fuggito dopo
il suo assassinio indagato in diverse sue opere. Quella frattura finora
quasi «apparente» tra immaginari critici, quali sono i più interessanti
nelle nuove generazioni del cinema israeliano, e la politica governativa
che nonostante il dissenso li finanzia (come vuole una società
«democratica» era anche la leva su cui si fondava la vitalità espressa
in questi decenni che ora, appunto, rischia di essere inghiottita dalla
propaganda. Lui le distanze le ha affermate da tempo, in ognuno dei suoi
film che del suo Paese tracciano una cartografia oltre i miti fondanti e
l’attualità nel rapporto tra passato e presente, nel movimento tra
l’Europa e la «terra promessa».
Cè un passaggio molto bello in A
Tramway in Jerusalem quando l’allenatore della squadra di Gerusalemme
viene intervistato dalla televisione e al suo posto risponde un
fantomatico vice, parla per lui su tutto, dai giocatori al cibo, e
l’uomo che arriva dall’Europa non riesce mai a prendere la parola. Quel
silenzio, quella bocca riempita di frasi altrui secondo le quali tutto è
fantastico restituisce nella sua violenza la direzione presa da Israele
oggi e in qualche modo la sua Storia.
A Tramway in Jerusalem è il
nuovo film del regista presentato ieri fuori concorso insieme al
potente corto A Letter to a Friend in Gaza. L’idea è semplice e viene
dichiarata sin dal titolo: un tram che attraversa la città centro
spirituale delle tre religioni monoteiste, islam, cristianesimo,
ebraismo, da est a ovest dove si mescolano le componenti della società
israeliana e i suoi conflitti, spazio ristretto dove diventa possibile
fare fronte allo scontro invece che alimentarlo: un’utopia? La scommessa
è restituirla attraverso le immagini ma la natura politica del cinema
di Gitai è sempre determinata dalla messinscena, da uno sguardo in cui
ogni movimento della macchina da presa è di bellezza sorprendente e però
mai fine a stesso.
Eccoci dunque tra ortodossi integralisti,
machi della sicurezza che aggrediscono ogni donna bella e sola, razzismi
quotidiani contro chi appare come «un arabo», tensioni familiari, un
uomo e una donna che hanno idee opposte sulla scelta di avere un figlio,
due giovani donne una palestinese e l’altra ebrea con passaporti di
mezzo mondo che rivendicano una «nazionalità astratta» incomprensibile
al poliziotto – e l’opposto dello stato-nazione ebraico appena sancito
dal parlamento israeliano. Memorie yiddish, nella lingua parlata dalla
«Jew Mama» incapace di capire come mai il figlio accudito con tanto
amore sia divorziato mentre quello dell’amica che gli scaldava il cibo
nel forno a microonde è affermato professionista con due figli; un
viaggiatore che esplora Gerusalemme insieme al figlioletto seguendo la
traccia di Flaubert (è Mathieu Amalric); due fanatici militaristi a cui
l’uomo prova a opporre la bellezza del clima e del paesaggio (come
spesso fa Gitai) inutilmente; un conduttore radiofonico che dedica la
sua trasmissione a Trotszky e alla sua idea di socialismo; un prete che
parla di libertà – Pippo Delbono bellissimo; un soldatino che saluta la
sua ragazza facendole promettere che non piangerà.
Tra i volti, in
primo piano di questa commedia umana e tra le loro storie è come se
Gitai disseminasse frammenti di sé, la sua biografia personale e di
artista, le sue convinzioni, la sua ostinata voglia di mettere alla
prova il cinema e la realtà, la ricerca nel patrimonio di un passato
europeo (da cui arrivava il padre architetto del Bauhaus), un racconto
pubblico e privato di una società che ha dimenticato di interrogare se
stessa. A Tramway in Jersualem è quasi un archivio (non a caso vi
ritroviamo molti attori che hanno lavorato col regista) che afferma al
tempo stesso l’ininterrotto desiderio di mettere alla prova le proprie
immagini, quella spinta che rende il cinema vitale.