il manifesto 27.9.18
Corbyn riparte dalle origini e detta le condizioni a May
Il
congresso di Liverpool. Fine dell’austerity, lavoro, azionariato
operaio, il Labour riscopre se stesso. Il Partito voterà contro il piano
Chequers della premier: no all’uscita “dura” dall'Ue
di Leonardo Clausi
LONDRA
Nel discorso con cui Jeremy Corbyn ha concluso la tre giorni
congressuale del partito a Liverpool c’erano gli elementi principali che
hanno contraddistinto il ritorno del Labour a se stesso nei tre anni da
che ne ha preso rocambolescamente le redini: la lotta alla
disuguaglianza, alla catastrofe ambientale, alla disoccupazione, alla
colpevole passività del Paese nei confronti del problema palestinese (di
cui è tutto sommato corresponsabile) e – elemento, questo, del tutto
nuovo – al suo tradizionale ruolo ancillare nei disastri statunitensi in
politica estera.
MA C’ERA SOPRATTUTTO la riluttanza a fare dello
psicodramma Brexit la propria tomba politica: quello che auspicabilmente
accadrà ai conservatori, che nel loro scomposto accapigliarsi
confermano che non vi è davvero guerra più sanguinosa di quella civile.
Nonostante le stridule proteste dei centristi del partito, che assieme
agli esangui Lib-dem cercano di limitare la propria erosione immolandosi
teatralmente sulle barricate di un fantomatico secondo referendum,
questo non è stato nominato nemmeno una volta. Al suo posto, quello di
cui invece il Paese ha davvero bisogno: stimoli a un’occupazione che non
sia sfruttamento, superamento dell’ingordigia finanziaria, azioni serie
per contrastare l’eco-massacro del quale siamo già vittime e con il
quale stiamo suicidando a sangue freddo la posterità.
RIGUARDO AL
REFERENDUM, il Partito voterà contro il piano Chequers di Theresa May,
che scontenta tutti, e si opporrà all’uscita “dura” (dal mercato comune e
dall’unione doganale) dall’Ue: «Sarebbe un disastro nazionale. Per
questo se il Parlamento respingerà l’accordo dei conservatori o se il
governo non riuscisse a raggiungere alcun accordo spingeremo per le
elezioni anticipate. E se non sarà così, saremo aperti a tutte le
possibilità».
Corbyn ha poi aggiunto l’inaspettata – evidentemente
tattica – apertura alla premier: «Se ottiene un accordo che comprende
l’unione doganale e nessun confine fisico con l’Irlanda, se si
proteggono i posti di lavoro e i diritti … ebbene allora sosterremo
quell’accordo». Per poi sferrare la stilettata che ha mandato in
visibilio i delegati: «Ma se non è in grado di negoziare quell’accordo
allora deve farsi da parte e lasciare che lo faccia un partito che lo è e
lo sarà».
NEL SEGNO di un keynesismo di ritorno è la promessa di
una fine dell’austerity, da articolarsi in 400mila nuovi posti di lavoro
nelle energie rinnovabili, un poderoso programma di edilizia abitativa e
soprattutto – tenetevi forte – azionariato operaio: obbligare tutte le
aziende con più di 250 operai a versare un dieci per cento del proprio
patrimonio netto in un fondo per i lavoratori. Insomma, fine al
vandalismo sociale che dal 2010 i conservatori, soli o in coalizione,
infliggono al Paese.
IN POLITICA ESTERA, il leader ha confermato
la piena dissociazione dai deliri trumpiani sul clima, dalle ambasciate
americane a Gerusalemme, dall’accordo di pace con l’Iran, dai crimini
israeliani a Gaza – «un oltraggio» – e dalla legge Stato-Nazione
ebraica. Ribadito invece l’appoggio a una soluzione dei due Stati,
niente più guerre umanitarie e riconoscimento immediato dello Stato
palestinese, oltre alla condanna risoluta di ogni razzismo e
antisemitismo all’interno del partito, agitato convulsamente da
polemiche in questo senso.
È STATO UN DISCORSO non reboante, ma
chi lo pronunciava non aveva più nulla della legnosità e dell’incertezza
degli esordi. Corbyn ha ora dalla sua, oltre alla naturale amabilità,
un notevole controllo della tecnica oratoriale. Forma e contenuto sono
finalmente complementari e messi al servizio di un programma di governo
che, quando si guardi a quello che succede altrove in Europa, per tacere
del nostro Paese, sembra un miraggio. Ma soprattutto è stato il
discorso di un ex-parvenu della politica che si sente prossimo al
potere, capace di scuotere un Labour politicamente anchilosato dal suo
inane centrismo facendogli finalmente aprire gli occhi sull’avidità e il
cinismo acquisitivo ai quali l’era blairiana lo aveva sospinto
ibridando ideologie contrapposte in una fittizia operazione di
maquillage andata drammaticamente sbriciolandosi a partire dal 2008.