martedì 25 settembre 2018

il manifesto 25.9.18
Cina, la lista dei preti sarà approvata dal partito comunista
Accordo Cina-Vaticano. La Chiesa clandestina ora grida al tradimento e al rischio scisma
di Luca Kocci

Per gli oppositori di papa Francesco e per alcuni settori della Chiesa «clandestina» cinese è un cedimento, anzi un «tradimento» alla Cina comunista. Per gli estimatori invece è un grande successo della diplomazia vaticana e dello stesso pontefice. Sicuramente l’accordo «provvisorio» tra Santa sede e Repubblica popolare cinese sulla nomina dei vescovi, firmato sabato scorso a Pechino dai viceministri degli esteri vaticano (mons. Camilleri) e cinese (Wang Chao), apre una nuova pagina nei rapporti tra Cina e Vaticano, congelati dal 1951.
Dopo la proclamazione, da parte di Mao, della Repubblica popolare, nel 1958 viene creata, con l’appoggio del governo, l’Associazione patriottica cattolica cinese, da cui nasce una sorta di Chiesa ufficiale, che ordina vescovi non riconosciuti e automaticamente scomunicati dal Vaticano. Parallelamente si sviluppa una Chiesa clandestina, con vescovi fedeli a Roma. Fra gli aderenti alle due comunità vi sono contatti e sovrapposizioni, ma di fatto in Cina esistono due Chiese.
L’accordo «provvisorio» del 22 settembre stabilisce una procedura unica per la scelta dei vescovi. Il testo resta segreto, così da poterlo modificare senza clamori. Tuttavia l’iter dovrebbe essere il seguente: i candidati vengono selezionati nelle diocesi, il governo concede la propria approvazione, infine il papa consacra i vescovi. Se strada facendo c’è qualche intoppo, si azzera tutto. In questo modo il papa è il solo a consacrare i vescovi ma il governo mantiene un controllo sui nomi. Una mediazione in cui entrambi gli attori concedono qualcosa ottenendo qualcos’altro e che potrebbe porre fine alla duplicazione delle Chiese e portare alla «pace» fra Roma e Pechino.
È un «tradimento, si rischia uno scisma», tuona il cardinale Zen, arcivescovo emerito di Hong Kong, punto di riferimento della Chiesa clandestina, fortemente critico verso il riavvicinamento alla Cina perseguito da Francesco. Zen spara a zero anche sulla segretezza dell’accordo: la Santa sede ci dice «abbiate fiducia in noi, accettate quello che abbiamo deciso», dichiara ad Asia news, ma «accettare ed obbedire senza sapere nulla? Obbedire “come un cadavere”, secondo la regola dei gesuiti?».
«Questo accordo sarà un segno di speranza e di pace in un mondo in cui continuano a costruirsi muri», commenta in maniera entusiastica padre Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica e vicinissimo a papa Francesco. Il segretario di Stato, cardinal Parolin, regista dell’operazione, spiega il senso dell’accordo anche alla luce della realpolitik: «C’è bisogno di pastori che siano riconosciuti dal papa e dalle legittime autorità civili cinesi», in questo modo le «Chiese locali godranno condizioni di maggiore libertà, autonomia e organizzazione». Il primo frutto dell’accordo: la revoca della scomunica ai sette vescovi “patriottici” (otto se si conta un vescovo morto nel 2017 che aveva espresso il desiderio di essere riconciliato con Roma) fino ad ora non riconosciuti dal Vaticano.

Repubblica 25.9.18
La presenza dell’assenza
Un lutto impossibile da elaborare
Era mio padre e adesso non so dov’è
Non si può piangerlo, “semmai piangiamo il non averlo pianto”
di Massimo Recalcati


Un genitore sparito nel nulla quando lei, Ida, aveva tredici anni L’assenza come presenza costante e le domande senza risposta. Il nuovo romanzo di Nadia Terranova racconta un lutto impossibile da elaborare
L’assenza può essere una forma di presenza assoluta; accade soprattutto quando abbiamo fatto esperienza della perdita di una persona cara. La sua assenza scava nella nostra vita e nel mondo un buco che non può essere riempito. Diventa una forma radicale di presenza. È quello che definiamo comunemente "lutto": la reazione affettiva di fronte ad una perdita che non si lascia digerire psichicamente, ma che insiste in noi come fosse una spina nella carne, un’assenza sempre presente che duole e che impedisce lo scorrere della vita. Come fare allora per lasciare che l’assenza diventi tale, scivoli nell’oblio, come fare per evitare che la nostra vita resti impigliata al dramma di quella perdita, per evitare che la sua presenza — la presenza dell’assenza — diventi una ossessione alla quale è impossibile fuggire?
Di questa materia tormentata e essenziale è fatto l’intensissimo ultimo romanzo di Nadia Terranova, titolato Addio fantasmi (Einaudi). Non si tratta solo di una nuova prova di scrittura capace di raggiungere livelli di equilibrio e di maturità davvero rari, ma di un vero e proprio viaggio attraverso il fantasma inquietante di una assenza che non vuole cedere il passo, che non vuole cadere nell’oblio. È la storia di Ida che ritorna nella propria casa a Messina dove è cresciuta prima di trasferirsi a Roma e ricostruire la propria vita: una casa, un lavoro, un matrimonio. L’assenza che l’assilla è quella di suo padre, "stimato professore di liceo", che una mattina, quando lei aveva 13 anni, esce di casa senza fare più ritorno. Non una morte, dunque. Piuttosto una sparizione, una evaporazione nel nulla, una scomparsa irreversibile. Ida è "figlia dell’assenza". È questa la sua tragica eredità. La bellezza dei ricordi della sua vita di bambina col padre (i baci, le coccole, il profumo del suo tabacco, la barca insieme verso Stromboli a vedere i delfini, le passeggiate lungo il mare con i pattini) è come stordita di fronte all’enigma atroce di questo addio.
Nessuna elaborazione simbolica è stata possibile, nessun lavoro del lutto di fronte alla morte ha consentito l’incorporazione dell’oggetto perduto.
Piuttosto il tempo si sospende, resta inchiodato alle lancette dell’orologio che coincidono con l’ultimo risveglio del padre prima della sua dipartita: «la sveglia segnava le sei e sedici, avrebbe segnato le sei e sedici per sempre». L’assenza diviene allora una forma di presenza; la bara del padre è "dappertutto" perché non è in nessun luogo. Il mistero indecifrabile di questa scomparsa resta senza risposta: perché lo ha fatto?
voleva morire o voleva vivere diversamente? Era, la sua, una resa o una ribellione? Si è ucciso in mare? Vive ancora, magari in un Paese straniero?
Ha avuto un infarto o un aneurisma? Ritornerà? La scomparsa del padre non coincide con la sua morte. Il lavoro del lutto non può compiersi simbolicamente perché il suo ritorno resta inconsciamente sempre atteso. Non c’è pace perché quella scomparsa impedisce la sua morte. Mentre, infatti, «la morte è un punto fermo», quella scomparsa «è la mancanza di un punto»: «se mio padre non era morto, non sarebbe morto mai». Non si può piangerlo, «semmai piangiamo il non averlo pianto». I sopravvissuti sono costretti a resistere in un tempo bloccato, congelato, fermo, senza avvenire. Lo stesso che aveva caratterizzato gli anni della depressione paterna: rannicchiato tra le lenzuola, succube dei farmaci, senza desideri, senza voglia di vivere, con delle cuffie sulle orecchie attaccate ad una radio spenta e lo sguardo nel vuoto. Il tempo del padre si era fermato per primo. La vita di Ida resta minata da questa ferita che sembra non conoscere sutura: «non voglio figli perché ho paura che muoiano, che scompaiano, perché ho paura che tra me e Pietro frani l’amore…».
L’ombra spessa della perdita si insedia ovunque: sulla vita cala l’assenza sempre presente del padre scomparso. Il mondo deve essere mantenuto a distanza per evitare che il dolore della perdita si possa nuovamente ripetere.
Tutto è iniziato a crollare con la scomparsa di suo padre, con la rottura del "triangolo originario" che lega la figlia e la madre al padre. Ida torna nei luoghi della sua infanzia, nella sua prima casa dove aveva vissuto sino ai vent’anni, perché essa sta crollando ancora, non ha mai smesso di crollare. Torna per scegliere cosa portare con sé e cosa lasciare andare per sempre. Una cosa tra tutte le interessa sottrarre all’oblio: una scatoletta rossa. Il suo contenuto è tutto quello che resta del padre: la sua vecchia pipa e una cassetta registrata sulla quale è impressa la sua voce mentre canta. È tutto quello che resta di lui: il suo odore e la sua voce. Sono le sole tracce superstiti.
Ma in quella scatoletta rossa Ida aveva richiuso, insieme ai "resti" del padre, anche la sua vita. È, infatti, più facile amare l’assenza, che amare chi davvero c’è. Bisogna allora lasciare cadere quel rifugio insidioso che era divenuta l’assenza del padre. Bisogna liberarsi del contenuto della scatoletta rossa. È necessario un rito di separazione, un funerale, una tomba che richiuda con sé il mistero del padre liberando la vita della figlia. La vera emergenza non sono i nostri morti, la vera emergenza, sostiene infine Ida, è «pensare ai sopravvissuti». Perché «veniamo tutti da un funerale… tutti abbiamo perso qualcosa e sappiamo quanto lunghissimo e ingiusto sia il tempo davanti a noi, il tempo senza quella persona. Il tempo che cominceremo a contare anno dopo anno, a partire dalla perdita».

l’Espresso 23.9.18
Cattolicofascisti
I guerrieri del Rosario indottrinano i fedeli
E Bannon e Burke progettano corsi di fomazione per giovani leader cattolici e populisti
Antimoderni all’assalto
Gerarchia, dipendenza, legame...
colloquio con padre Vilmar Pavesi

L'incenso stordisce, i fedeli rimangono in piedi, poi si accasciano sulla panca, attendendo le parole di don Vilmar Pavesi. Nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, la preghiera scorre tra canti e litanie, ma è alla fine della solenne liturgia che Padre Vilmar stringe mani e saluta parrocchiani. Durante l'omelia padre Pavesi ha allertato i fedeli: «La Santa Chiesa chiede a nostro Signore di liberarci da ogni diabolico contagio. C'è un rischio reale di contrarre un'infezione diabolica. Sappiamo che tra il 1347 e il 1352 la peggiore epidemia di peste, la cosiddetta peste nera, uccise un terzo della popolazione europea. Anche l'Italia venne contagiata. La peste nera è un simbolo di ciò che la ribellione guidata da Lucifero provoca». Vilmar Pavesi, padre spirituale di Lorenzo Fontana già a Verona, fidatissimo parroco della Lega, fin dai tempi del Carroccio secessionista, allontanato dal partito dall'allora sindaco Flavio Tosi ma seguito dagli attuali vertici della Lega fino a Roma. Ora è qui, protetto dalla lunga tonaca nera e da un sorriso che non si spegne neppure quando pronuncia sentenze terribili. Per esempio contro le donne. «In questa chiesa vengono solo uomini, perché le ragazze e le donne si sono molto adeguate a questo mondo e non vogliono andare controcorrente. E poi ci vuole uno sforzo mentale per seguire una messa in latino. I ragazzi con i libri in mano si trovano più a loro agio».
Padre, lei è la guida spirituale del ministro Lorenzo Fontana?
«Conosco Lorenzo dal 2005, quando non era ancora in politica e lavorava alla fiera di Verona. Veniva tutti i giorni alla messa». Parlate di politica?
«Certo che parliamo di politica, ma Lorenzo fa parte di un Governo che può non accettare le nostre idee, anche se in questo momento passano».
Lei crede che un ministro debba portare le sue idee nel Governo?
«Noi non siamo schizofrenici. Quando la domenica andiamo in chiesa, apriamo la porta e ci troviamo in strada, non smettiamo di essere cristiani. Non possiamo professare la fede in chiesa e quando andiamo fuori trovare nella società, nel governo, nella scuola e nelle leggi tutto il contrario di quello che ha detto Gesù Cristo. Noi siamo giovani, ma questa casta unione tra l'altare e il trono ha fondato l'Europa, la civiltà, la cultura. È Carlo Magno».
In democrazia ci sono anche gli altri, c'è il pluralismo religioso, etico, politico, non crede?
«C'è stata sempre collaborazione tra l'autorità religiosa e l'autorità civile. In questa democrazia Lorenzo rappresenta una corrente che la pensa come lui. Con lui può avere un suo spazio. Noi siamo a un punto che dire la verità è un reato. Ma lui non ha mai detto nulla di male».
Ma un ministro della Repubblica non dovrebbe rappresentare tutti?
«Lui rappresenta la famiglia, naturale e organica».
Non c'è solo l'idea cattolica della famiglia, ce ne sono altre nella società italiana.
«Ma la famiglia naturale precede la Chiesa. C'è poco da dire: c'è un ragazzo che si innamora di una ragazza, ci sono i figli. Questa è la famiglia».
Lei conosce anche Matteo Salvini?
«Certo» (fa segno con la mano che è venuto anche lui in chiesa).
È stato lei a regalargli il rosario con cui ha chiuso la campagna elettorale?
«No... io glielo avrei regalato più bello...» (ride)
Quali sono le sue idee politiche?
«La fede cattolica ha sempre prediletto la monarchia. È sempre stato il governo prediletto dei cattolici. C'era una collaborazione tra altare e chiesa, quello è stato l'inizio della civiltà. Dio ha voluto che la società fosse ispirata secondo un modello familiare: gerarchia, dipendenza, legame».
Tornerebbe a uno Stato pre-democratico? Tornerebbe alla divisione pre - Unità d'Italia?
«Sì, al regno delle due Sicilie, alla Serenissima Repubblica di San Marco... L'Italia è sempre stata un mosaico di regni che esistono anche oggi. Sussistono nel dialetto, nella mentalità, nel modo di mangiare. Lorenzo Fontana viene qui dentro ma io non posso portarlo in un angolo e incensarlo, purtroppo, come si faceva con il re...».
Se domani diventasse un dittatore cosa farebbe?
«Dittatore? Non posso essere re?».
Va bene, re.
«Come primo decreto regio abolirei l'aborto, il divorzio, l'eutanasia».
Solo questo?
«Anche i giornalisti».
In uno Stato governato da lei il divorzio sarebbe vietato?
«Sì. La Chiesa ha sempre previsto la separazioni dei coniugi per motivi gravi, senza che questo dia diritto al divorzio, perché poi c'è la possibilità di tornare insieme. Con il divorzio le ragazze sanno che c'è una porta. Poi ci sono giovani che la sera rimangono soli, in giro per strada...».
E l'aborto? Vieterebbe anche questo?
«Se io la ammazzo, vado in galera. Se io faccio un torto a una persona, ho fatto un reato che è passibile di una condanna. Com'è possibile invece che l'uccisione di un bambino sia addirittura incoraggiata dallo Stato e finanziata? Dov'è il futuro? È un crimine. Una società che uccide i propri figli, lo fa per un capriccio. Cosa era un principe? Era un padre di tutti i padri. È ereditario, perché quella era la famiglia e questo dà un grande senso di stabilità. L'aborto va a distruggere l'idea di civiltà. È un capriccio. Non esiste famiglia senza rinuncia».
Sulle coppie gay Papa Francesco nel suo primo viaggio ha dichiarato di non essere nessuno per giudicare l'amore.
«La dottrina cattolica non cambia. I papi cambiano, la dottrina cattolica non può cambiare. Le porte degli inferi non prevarranno. È impossibile che un Papa (papa Francesco, ndr.) possa insegnare qualcosa che non è la dottrina. Morirà prima. Il papa è il sovrano pontefice, può essere giudicato solo da Gesù Cristo».
In realtà il papa Bergoglio non è giudicato solo da Gesù Cristo. Ci sono cardinali, tra cui Burke, che hanno espresso contro di lui i dubia, i dubbi sul suo magistero.
«Giudicare significa hai fatto bene o fatto male. Io da cattolico posso manifestare i miei dubbi. È stato lui stesso a dire: criticatemi».
Ma lei allora cosa pensa delle coppie omosessuali?
«Esiste la mano del maligno. Il maligno esiste. Non ha bisogno di dormire, di mangiare, lavora sempre. Il diavolo è il padre della menzogna, ispira il peccato, la ribellione. C'è il diavolo dietro ogni peccato di superbia, di sensualità, di lussuria. È c'è l'istigazione del diavolo dietro al peccato. Per il catechismo della Chiesa l'omosessualità è un peccato contro natura perché la differenza tra uomo e donna trova il suo fine nei figli, nell'unione matrimoniale e nella procreazione. Non rispettare questa finalità è un peccato. Per questo l'omosessualità è sempre stata definita un peccato contro natura. E se è il diavolo a istigare una ribellione contro Dio, è certo che lui sia l'istigatore di questo tipo di peccato e di tutti gli altri».
Lei accoglierebbe?
«Io credo che a casa mia, prima i miei. Posso anche fare carità, ma la carità ha un ordine. L'Italia e l'Europa non possono accogliere tutti. Ci vuole disciplina, una legge, un ordine, altrimenti è il caos».
Lei crede sia giusto lasciare delle persone a bordo di una nave per puntare i piedi contro Bruxelles?
«Perché devono salire su una barca? Quante persone su queste barche arrivano senza una gamba, senza una mano o con una pallottola nel petto, non sembrano che scappino da una guerra. Sono in maggioranza tra i 25 ed i 30 anni, non mi sembrano che scappino da una guerra. Non mi sembra».
Lei è antieuropeista?
«Cosa è l'Europa? L'Europa è popoli. Se io posso camminare con le mie gambe perché mi offri la sedia a rotella».
Lei pensa che le idee del ministro Fontana siano uguali alle sue?
«Certo, per questo siamo amici. Se la pensassimo diversamente le nostre strade si dividerebbero».
Un'ultima domanda: qui vengono tanti politici importanti, perché?
«Meno male».
Perché meno male?
«Perché hanno bisogno di purificarsi».
E.T.

il manifesto 25.9.18
La rabbia degli operai senza salario, Di Maio oggi dovrà trovare la soluzione
Tre Anni di Jobsact. Lavoratori da tutta Italia per denunciare il rischio licenziamento per il taglio degli ammortizzatori. Oggi Fim, Fiom e Uilm incontrano il ministro: vogliamo impegni precisi
di Massimo Franchi


Il presidio dei sindacati sotto il ministero dello Sviluppo ottiene subito un risultato. Il ministro Luigi Di Maio ha convocato per oggi alle 17 Fim, Fiom e Uilm, ma già ieri c’è già stato un confronto.
ARRIVAVANO DA TUTTA ITALIA gli operai del settore metalmeccanico nel terzo anniversario del decreto legislativo del Jobs act di riforma degli ammortizzatori sociali: un compleanno di rabbia per chi si è visto tagliare un anno di cassa integrazione straordinaria e in questi mesi rischia di essere licenziato dalla propria azienda che non può più rinnovare Cigs e contratti di solidarietà.
Le azienda in crisi riguardano tutti i comparti: dagli elettrodomestici alla siderurgia, dall’Information Technology all’elettronica per finire con l’automotive e l’indotto e molti stabilimenti Fca. Con licenziamenti già in atto – i cinesi di Wanbao hanno già dato il ben servito a 90 lavoratori alla Acc di Mel (Belluno) – si stimano oltre 80mila lavoratori metalmeccanici interessati dalla Cassa integrazione straordinaria che arrivano a 189mila sommando quelli delle 144 aziende per cui al Mise è aperto un tavolo di crisi, mentre – denuncia la Fiom – «31 aziende hanno cessato l’attività in Italia per delocalizzare all’estero mettendo a repentaglio oltre 30mila posti di lavoro e ci sono 147 gruppi di imprese interessate da procedure di amministrazione straordinaria».
SI VA DALLE GRANDI multinazionali dell’elettrodomestico – Electrolux e Whirlpool – alla Tecno di Reggio Emilia e la Comital di Torino che sono in procedura fallimentare, per passare alla Emarc di Chivasso (Torino), la De Masi di Gioia Tauro, la Jabil di Caserta, la Imat Marcegalia di Pordenone, la Piaggio di Savona, la Jp Industries di Fabriano e di Nocera Umbra, la Om Carrelli di Bari. Senza dimenticare le aziende dell’indotto dell’ancora non ripartita Alcoa di Portovesme, quelle del petrolchimico di Siracusa, la Comdata di Padova, la Agis di Vicenza.
«Non ne possiamo più, il Jobs act ci fa licenziare anche se l’azienda ha buone prospettive», è la frase che si sente raccontare più spesso.
IL MINISTRO DI MAIO ha buon gioco a denunciare «l’assassinio politico» operato col Jobs act «una riforma folle che umilia le persone». Molto meno nel trovare soluzioni: ha annunciato da settimane il ritorno della cassa integrazione per cessazione che consentirebbe ai 318 lavoratori della Bekaert di Figline Valdarno di avere 12 mesi di «cassa» in più – il testo però non si vede e la scadenza del 3 ottobre per i licenziamenti si avvicina mentre tante altre aziende, come la Comital in procedura fallimentare non sanno se saranno inserite – e ora dovrà dare risposte alla stragrande maggioranza di lavoratori a cui la cigs per cessazione non serve.
«NON CI ACCONTENTEREMO di proroghe, quello che serve è una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali», avverte il segretario generale della Uil Rocco Palombella. Sulla stessa linea Francesca Re David (Fiom): «Bisogna bloccare l’emergenza, ma poi bisogna pensare ad ammortizzatori universali con solidarietà difensiva e espansiva che prevedano la riduzione dell’orario di lavoro necessario per affrontare l’epoca di innovazione che ci aspetta è ora di finirla con le disuguaglianze. Occorre connettere gli ammortizzatori sociali allo sviluppo di politiche industriali e innovazione». Ora, spiegano i sindacati, ad un’azienda costa meno licenziare che mandare i lavoratori in cassa integrazione o con contratti di solidarietà. «In ogni caso non accetteremo la Naspi o il reddito di cittadinanza come soluzione», ha aggiunto il segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli.

Repubblica 25.9.18
La tragedia in carcere
Io, tra i figli prigionieri di Rebibbia
di Rosella Postorino


Non meritava di essere madre» è la frase che più ho letto dopo che Alice Sebesta ha lanciato i suoi due figli dalle scale del nido di Rebibbia, uccidendoli. Così gran parte della gente ha liquidato la questione: un caso di follia, del tutto avulso dal contesto in cui è avvenuto. Il ministro Bonafede ha sospeso i vertici del carcere, la polizia penitenziaria si è indignata, Bonafede ha invocato il silenzio. Invece proprio adesso bisogna parlare del tema che sembrano trascurare in molti: la detenzione dei bambini è una violenza.
Quelle scale le conosco. Sono entrata nel nido per partecipare alle feste della Befana o di Pasqua organizzate in ludoteca, una saletta con giocattoli, tavolini colorati e sbarre alle finestre; le uova di cioccolato venivano rotte a causa dei controlli, anche se questo rovinava la sorpresa. Per più di due anni, con l’associazione "A Roma insieme", mi sono occupata dei piccoli detenuti di Rebibbia, portandoli fuori il sabato su un pulmino assieme ad altri volontari, per mostrare loro il mondo: le strade, i cani al guinzaglio, i supermercati, il teatro dei burattini, il rumore dei clacson. Non per forza la bellezza, semplicemente la normalità.
I bambini di Rebibbia avevano meno di tre anni, il catarro perenne, abiti sempre inadatti alla stagione, giubbotti con la zip rotta, nomi assurdi come Al Capone e cognomi che indicavano la loro etnia Rom o africana. Li ho imboccati, perché spesso si rifiutavano di mangiare in autonomia, li ho addormentati, alcuni avevano problemi di sonno, li ho portati in braccio se non avevano voglia di camminare, sono rimasta sulla battigia con loro ad aspettare la risacca, perché di immergersi avevano paura, e l’istinto con cui si affidavano a me, un’estranea, mi sconvolgeva, tanto da farmi dimenticare che quelli erano i sintomi della sindrome da prigionia di cui parla lo psicologo Gianni Biondi.
Mancanza d’appetito, problemi locomotori, ritardo nel linguaggio: se per tutto il giorno ripeti gli stessi gesti, come fa il tuo vocabolario a svilupparsi? Di fronte alla camera da letto di una donna che ci ospitava a casa in uno dei sabati di libertà, un bambino disse: «Che bella, la tua cella!» In montagna, un’altra s’infilò in tasca una palla di neve e pianse perché si sciolse: avrebbe voluto regalarla alla mamma. Poi a sei anni quei bambini escono dal carcere, e alla prigionia si somma il trauma della separazione.
La legge 62/2011 dovrebbe teoricamente tutelare il minore, che può crescere accanto alla madre ma fuori dalla galera. Prevede infatti misure alternative — gli arresti domiciliari (ma non in un campo Rom), le case famiglia protette e gli Icam ( istituti di custodia attenuata, dove si applica l’ordinamento penitenziario, per esempio rispetto ai rapporti con l’esterno, ma gli agenti sono in borghese) — cui però possono accedere solo le detenute che non incorrono nella recidiva. Ma statisticamente quelli femminili sono piccoli reati, legati a furto o spaccio, e ripetuti nel tempo. E di Icam in Italia ce ne sono due appena. Le case famiglia pesano sul bilancio degli enti locali, non sull’amministrazione carceraria, dunque se non ci sono soldi non si fanno. D’altronde la legge non elimina le sezioni nido, continua a contemplarle.
Il risultato è che oggi 60 bambini vivono ancora reclusi: a qualcuno sembrerà un numero esiguo, che non rappresenta un’urgenza. Ma se la detenzione ha lo scopo di rieducare chi ha sbagliato, che cosa insegniamo a chi paga una pena da innocente?
Alice aveva partorito Divine da soli sei mesi. Quante donne affrontano un disagio psichico dopo la gravidanza, sentendosi incapaci di rispondere ai bisogni del neonato? Quale senso d’inadeguatezza può provare una madre in gabbia, che ha costretto, seppur non intenzionalmente, i figli alla segregazione? Persino se si trattasse di un unico bambino, il numero sarebbe troppo alto. Uno Stato che invece di proteggerlo gli fa scontare la colpa di chi l’ha messo al mondo, gli sta negando il diritto a una vita degna nonostante le sue origini. È uno Stato che non crede nel suo futuro e così rinuncia al proprio. Finché accettiamo che esistano bambini di serie B, e li chiudiamo in galera, nessuno di noi merita di essere genitore, anzi di considerarsi umano.

Repubblica 25.9.18
Negare i diritti aumentando i clandestini
di Carlo Bonini


Il ministro dell’Interno Matteo Salvini battezza un decreto sicurezza che fa di un manifesto ideologico la “norma”. Un “venghino, signori venghino” da mercato della paura dove l’imbonitore, dopo aver trascorso quattro mesi a fare il piromane, posa ora a pompiere offrendo agli “italiani” l’estintore che — dice — spegnerà l’incendio.
Per rifilare la patacca, deve naturalmente svuotare di ogni complessità una vicenda epocale e dalle implicazioni geopolitiche continentali come i flussi migratori, vendendo un’emergenza che non c’è (gli sbarchi) per una minaccia incombente alla sicurezza nazionale che gli consenta di legiferare d’urgenza, e dunque per decreto, strozzando ogni dibattito parlamentare.
E deve soprattutto giocare, forte dell’analfabetismo e la rozzezza civile che gli sono propri, con principi fondamentali dei diritti dell’uomo (tutti gli uomini), quali la presunzione di innocenza, il diritto di asilo, la protezione umanitaria, la cittadinanza, degradandoli a "concessioni" agli uomini dalla pelle nera, come tali revocabili. Dal Principe (cioè lui, il Difensore degli Italiani) o dalla discrezionalità di un’autorità amministrativa.
Salvini deve soprattutto tacere agli italiani quello che lui per primo ha imparato in questi quattro mesi da ministro. Che nessuno manda a casa nessuno approdato sulle nostre coste – neppure Gesù Cristo – senza l’accordo dei Paesi di provenienza. E lo deve tacere perché se lo spiegasse, tutti comprenderebbero che il "decreto sicurezza" avrà sui flussi migratori lo stesso effetto del pugno battuto sul tavolo con cui il nostro Paese, da qualche mese, si copre di ridicolo in ogni vertice internazionale. La riduzione dei potenziali beneficiari del diritto di asilo, la cancellazione di fatto della protezione umanitaria, la liquidazione dell’esperienza degli Sprar ancorché scoraggiare i migranti (la disperazione che convince a fuggire dal continente africano è più forte di ogni Salvini) avranno infatti il solo effetto di moltiplicare i clandestini, nonché il numero di coloro che, da detenuti, languiranno nei centri di espulsione (già oggi sotto dimensionati e da domani ancor più diminuiti nella capienza dal raddoppio dei tempi di detenzione legittimi) in attesa di rimpatrio. E questo perché, esaurito il termine di detenzione, il raddoppiato esercito di migranti irregolari avrà come accade oggi un semplice foglio di via che non li avvierà certo a un "ritorno volontario" nei Paesi di provenienza, ma solo alla loro clandestinità.
Non è complicato scommettere che, in questa forma, il decreto difficilmente passerà l’esame del Quirinale, prima, e della Corte Costituzionale, poi, quando comincerà ad essere investita dal contenzioso che le nuove norme produrranno. Ma è ancora una volta sorprendente come a mettere la faccia su questo manifesto costituzionalmente sgangherato sia un Presidente del Consiglio che posa a fine giurista e, non più tardi di due giorni fa, ha preso cappello "indignato" per la "violazione della privacy" e dei diritti costituzionali del suo portavoce Rocco Casalino.
Quando si dice gli azzeccagarbugli.

Repubblica 25.9.18
Giovanni Maria Flick
"Levare la cittadinanza come se fosse un castigo viola la nostra Costituzione"
di Liana Milella


ROMA «Mettere insieme migrazione, terrorismo e mafia vuol dire applicare ai migranti un’etichetta di sospetto e qualificazione negativa a priori, il che mi sembra inaccettabile». Dice così Giovanni Maria Flick, ex Guardasigilli ed ex presidente della Consulta, oltre che professore di diritto penale.
Anche la Chiesa critica quest’abbinamento. Per lei è improponibile?
«Applicare etichette aprioristiche di pericolosità significa presentare il migrante come un "diverso" di per sé pericoloso sia nel giudizio dell’opinione pubblica sia nell’approccio politico al problema delle migrazioni».
Qual è la disposizione che lei ritiene più a rischio di
incostituzionalità?
«Il riconoscimento della cittadinanza italiana come una specie di premio di buona condotta e la sua privazione come un castigo, una pena accessoria. A me sembra una norma da cancellare perché la Costituzione dice con chiarezza che non si può essere privati della cittadinanza per motivi politici ma implicitamente aggiunge che non la si può dare o levare per ragioni di buona condotta. Altrimenti bisognerebbe trattare allo stesso modo anche i cittadini italiani e ritorneremmo ai tempi dell’esilio».
Neppure i reati di terrorismo potrebbero meritare una "pena" di questo genere?
«La revoca della cittadinanza non può essere una pena che andrebbe comunque prevista allo stesso modo per italiani e migranti. È un’ulteriore dimostrazione del fatto che non si possono mettere insieme i problemi di terrorismo e immigrazione».
È fuori dalla Costituzione la stretta sui permessi di soggiorno per motivi umanitari?
«Direi di no. Non è in linea con la tendenza dell’articolo 10 della Costituzione a riconoscere la massima espansione al diritto di asilo. Ma è rimesso alle scelte del legislatore che potrebbe seguire una linea più restrittiva rispetto a quella seguita finora. Comunque è una scelta politica che non promuove la pari dignità sociale di tutti, cittadini e migranti».
Negare la richiesta d’asilo o cancellarne uno già esistente per una condanna non definitiva è possibile?
«Se si viola il principio di non colpevolezza finché la sentenza non è definitiva, è evidente che si viola l’articolo 27 della Costituzione».
E che ne pensa del Daspo ai corrotti prima dell’ultima parola della Cassazione?
«Un Daspo perpetuo sarebbe incostituzionale. Un Daspo temporaneo è già previsto da tempo come pena accessoria o come misura cautelare».
Trattenere fino a 180 giorni i migranti nei centri di permanenza non equivale al carcere preventivo?
«Novanta o 180 non cambia. Non c’è una privazione della libertà personale che richieda l’intervento di un giudice. Chi chiede asilo accetta di restare nel campo. Se esce, e può farlo, ritorna clandestino e perde la qualità di richiedente asilo.
Occorre chiarire questo passaggio essenziale, altrimenti continueremo ad avere uno, cento, mille casi Diciotti».
Salvini promette di chiudere i campi rom entro la fine della legislatura.
«Mi pare una pessima promessa. E purtroppo la storia dell’Europa ci ha insegnato quanto possano essere pericolose certe promesse, al di là della loro intenzione».

il manifesto 25.9.18
Varsavia deferita alla corte di giustizia di Bruxelles
Attacco alla democrazia. La legge polacca «incompatibile con il diritto dell’Ue: nega l'indipendenza dei giudici»
di Giuseppe Sedia


VARSAVIA Bruxelles deferisce Varsavia alla Corte di giustizia dell’Unione europea. L’Ue si affida così al tribunale con sede in Lussemburgo per bloccare la riforma della Corte suprema in Polonia. La Commissione europea ritiene che la legge polacca sia «incompatibile con il diritto Ue in considerazione del fatto che mette a repentaglio l’indipendenza della giustizia e l’inamovibilità dei giudici», si legge in una nota ufficiale rilasciata nella giornata di ieri.
UNA DECISIONE che di certo non sorprende il governo della destra populista di Diritto e giustizia, PiS. A nulla sono valsi i colloqui in corso da luglio tra il premier polacco Mateusz Morawiecki e il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans. Da allora il partito di Jaroslaw Kaczynski non ha fatto alcun passo indietro sul pensionamento anticipato dei membri della corte che hanno compiuto 65 anni, anzi: Varsavia ha spinto sull’acceleratore nelle ultime settimane per portare a termine l’avvicendamento dei 27 giudici ritenuti «pensionabili» per ragioni anagrafiche. A dover appendere la toga al chiodo anche la presidente della corte Malgorzata Gersdorf tutelata però dalla costituzione polacca che fissa la durata del suo incarico a sei anni. Il suo mandato sarebbe garantito fino al 2019.
Il caos amministrativo a Varsavia è accentuato anche dal fatto che alcuni dei membri della Corte suprema, finiti nel mirino del PiS, si sono avvalsi della possibilità di richiedere un prolungamento del proprio incarico, così come previsto dalla contestata riforma.
L’ULTIMA PAROLA al riguardo spetta comunque al presidente polacco e giurista di formazione Andrzej Duda. Intanto il Consiglio nazionale della magistratura, Krs, ha già individuato 40 candidati per la corte dopo un concorso pubblico organizzato in tempi da record. Ancora una volta dovrà essere Duda a pronunciarsi in merito. Le sue scelte definitive saranno quasi sicuramente ufficializzate nelle prossime settimane prima delle elezioni amministrative previste il prossimo 21 ottobre.
«Spero che la decisione della Commissione europea sia l’inizio di un ritorno alla normalità così come dovrebbe essere in un paese democratico nel Ventunesimo secolo», ha commentato il membro della corte Krzysztof Raczka in una dichiarazione riportata dalla Pap, la principale agenzia di stampa polacca. Giovedì scorso Duda ha invece finalizzato la nomina dei dieci membri di un nuovo ente disciplinare chiamato a valutare l’operato dei membri della Corte suprema. Ci sono anche 5 procuratori ritenuti dei fedelissimi del «superministro» alla giustizia Zbigniew Ziobro. Mancano ancora 6 giudici per completare le nomine ma l’ente potrà comunque prendere decisioni disciplinari con la maggioranza dei due terzi.
UNA NOTIZIA quest’ultima che non farà sicuramente piacere a Bruxelles. Negli ultimi mesi l’Ue si è trovata costretta a cambiare strategia visto che l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona incontrerebbe inevitabilmente il veto dell’Ungheria di Viktor Orban, da sempre alleato diplomatico di Kaczynski nell’arena europea.

il manifesto 25.9.18
Brexit, Corbyn non esclude un secondo referendum
Gran Bretagna. Il tema sarà al centro del congresso laburista che si apre domenica a Liverpool. Con May ormai sull’orlo del precipizio, il partito si prepara anche a possibili elezioni anticipate
di Leonardo Clausi


LONDRA Temperatura Brexit sempre al calor bianco in Gran Bretagna. Più che mai dopo la distratta sufficienza con cui le proposte di Theresa May per un’uscita cerchiobottista del paese dall’Ue – il cosiddetto «accordo Chequers» (dal nome della residenza estiva dei Primi ministri britannici: manterrebbe il Paese allineato con gli standard europei su merci e generi alimentari) -, sono state accolte dai 27 al summit di Bruxelles della scorsa settimana. Una sufficienza che ha provocato la reazione stizzita della premier, che ha preteso «rispetto» dai partner europei in un successivo discorso tonante nella forma, flebile nella sostanza. Dopotutto l’accordo le era costato/valso la dipartita di ministri come David Davis e Boris Johnson.
NON CHE NEL PARTITO laburista dell’era Corbyn, riunito in congresso a Liverpool da domenica, le cose vadano lisce. Anche lì c’è stata una guerra civile, benché a differenza di May – ostaggio delle frange più illuse, deluse e confuse della destra e dei loro farfuglii neovittoriani – Corbyn, la sua, sembra averla vinta. La deliberata (e mascalzona) confusione fra antisionismo e antisemitismo cui la destra laburista si è stolidamente aggrappata pur di ostacolare la «deriva» socialista di un partito che per la prima volta nella sua storia ha avuto il fegato – e lo stomaco – di dissociarsi dalla politica estera israeliana, sembra finalmente cominciare a sbiadire, benché di danni ne abbia fatti eccome. Il fatto che i deputati ebrei che gridano ai pogrom nel partito siano tutti dei moderati, dovrebbe risparmiare un’oltremodo oziosa analisi del problema.
Ma resta un altro contendere, quello sull’ormai fantomatico (perché somigliante agli avvistamenti «scientifici» degli Ufo) secondo referendum, che i liberal eurobritannici invocano come se potesse invertire la catastrofe ecologica nella quale il capitalismo ci sta menando. Ebbene Corbyn, che da bravo veterosocialista inglese è euroscettico nel Dna, sta dando segni di aver recepito l’importanza tattica – se non di aprire – di socchiudere la porta ad un possibile secondo referendum. Perché socchiudere?
PUR AVENDO FIN DALL’INIZIO dichiarato di voler rispettare l’esito del referendum, presumendo, non del tutto scorrettamente, che i vagheggiamenti di un’Europa senza confini fossero appannaggio di una classe media orfana della terza via blairiana – una «terza via preferenziale» per la quale la disuguaglianza ha sfrecciato gioconda dagli anni 80 in poi – e soprattutto dopo la succitata figura barbina di May a Salisburgo, la prospettiva di un’uscita senza paracadute del Paese dall’Ue è più realistica che mai.
CON IL PROFILARSI minaccioso delle file chilometriche di Tir a Dover e dei razionamenti di generi alimentari tipici di un assedio bellico, per tacere della perdita di posti di lavoro che i sindacati – suoi alleati imprescindibili – ovviamente paventano, Corbyn ha ammesso che ora si rimetterà alla decisione dei membri del partito (il più grande d’Europa con circa 500 mila iscritti da quando lui è al timone) riguardo al cosiddetto «voto popolare» (People’s vote) su Brexit.
Si tratterebbe di un voto sull’accordo che May sarà in grado di siglare con la controparte europea e di cui il Parlamento (composto per la maggioranza di remainers bipartisan) rivendica la ratifica. Una linea che ora si affianca a quella originale della dirigenza del partito: agevolare – e vincere – le prossime probabili elezioni anticipate che potrebbero portare il socialismo del XXI secolo di Corbyn al potere in un’Europa che, dove non si sta consegnando al neofascismo del XXI secolo, è vittima, come la Francia, del deja vu macroniano (Macron e Blair: trova le differenze).
AL CONGRESSO si è dunque scatenata una ridda di mozioni (più di 140) in questo senso, compresa quella di un secondo referendum. Anche se John McDonnell, ministro ombra delle finanze, in un’intervista alla Bbc, preferisce distinguere: un simile voto dovrebbe essere sui termini dell’accordo siglato da May e non sull’opzione di una permanenza nell’Unione europea. Come si evince dal testo della mozione, messa ai voti ieri in serata: «Se non possiamo ottenere elezioni anticipate il Labour deve sostenere tutte le opzioni rimaste sul tavolo, compresa una campagna per un voto pubblico».

Il Fatto 25.9.18
Corbynism, la quarta via della Sinistra è ancora inglese
Solo al comando - Al congresso Labour il leader lancia il programma di governo “puro e duro” (e pro-Brexit) per sostituirsi ai conservatori
Corbynism, la quarta via della Sinistra è ancora inglese
di Sabrina Provenzani


Uno spettro si aggira per la City: è lo spettro del corbynismo. L’ipotesi non remota, data la crisi di credibilità e leadership dei Conservatori, che una incarnazione ortodossa del Socialismo si insedi a Downing Street, e avvii una lotta senza sconti al capitalismo della finanza, della grande industria, delle privatizzazioni.
Che non sia una fantasia lo dimostra l’attenzione con cui, in questi giorni, i quotidiani più vicini alla City o ai Conservatori – Financial Times, City am, Daily Telegraph – seguono le dichiarazioni di John McDonnell, ministro ombra dell’Economia e storico sodale del segretario laburista Jeremy Corbyn. Assaggi di governo corbynista? La distribuzione del 10% del capitale netto delle società ai lavoratori. Il pacchetto completo prevede anche un sostanzioso aumento delle tasse societarie, la nazionalizzazione di molte società di servizi e delle ferrovie e l’estensione di garanzie a tutte le categorie di lavoratori – purché iscritti a un sindacato. Politiche da partito dei Lavoratori, ma lontane anni luce da quello di Tony Blair.
L’ascesa di Jeremy Corbyn alla segreteria del Labour, nel 2015, è stato il frutto quasi casuale di un vuoto di leadership, ma da allora Corbyn e il suo entourage si sono mossi con consumata abilità politica, spostando il Labour su posizioni socialiste. Come? Con la rapida e spregiudicata emarginazione di fatto – in Parlamento e a livello di amministrazioni locali – di ogni dissenso significativo. Una rivoluzione degli equilibri interni con il recupero della centralità dei sindacati e l’ascesa degli attivisti di Momentum, il movimento che portò Corbyn alla segreteria e da allora rappresenta una sorta di sua milizia personale nel corpo del partito. Ma la trionfale marcia del Socialismo in Uk ha di fronte un ostacolo serio: Brexit, tema su cui iscritti e simpatizzanti sembrano lontanissimi dalla linea del segretario.
Che da sempre vede l’Unione europea come un consesso di interessi elitari, poteri forti e lacci burocratici e Brexit come l’occasione per liberarsene e dare il via, senza diktat della Troika o vincoli di bilancio, al suo programma di massiccio interventismo statale e conseguente aumento della spesa pubblica.
Quanto all’immigrazione, Corbyn tiene al benessere dei lavoratori – quelli britannici – da difendere anche con misure protezionistiche. In questa prospettiva, limitare l’immigrazione, specie non qualificata, significa conquistarsi consenso nelle aree del paese dove il lavoro è conteso al ribasso.
Posizioni che lo pongono in rotta di collisione con il grosso degli iscritti, tutt’altro che euroscettici o contrari alla libertà di movimento.
Il Congresso del Labour in corso a Birmingham rischia di essere il momento in cui queste contraddizioni deflagreranno. Il dibattito sulla Brexit non può più essere censurato, come successe lo scorso anno. E infatti inaugurando i lavori Corbyn ha aperto alla possibilità di sostenere un voto popolare su Brexit – lo chiede l’85% degli iscritti – salvo poi mandare McDonnell a chiarire che fra le opzioni non ci sarebbe quella del Remain, perché il referendum per lasciare l’Ue c’è già stato e va rispettato. A meno di cambi dell’ultimo minuto la mozione che oggi andrà al voto fra i delegati è il topolino partorito dall’elefante: il partito si impegna “a supportare ogni opzione sul tavolo, compresa una campagna per un voto popolare”, ma la priorità resta far cadere il governo e andare a elezioni.
Prevedibile una rivolta degli iscritti, ma Corbyn e il suo entourage, oltre alle convinzioni personali, hanno ragioni politiche legittime per non prendere posizioni chiare sulla Brexit. La principale: le elezioni non si vincono con la lealtà degli iscritti, ma con l’appoggio degli elettori, e non ci sono segnali convincenti che sull’Unione europea la maggioranza dei britannici, anche nei distretti Labour dove ha vinto il Leave, abbia cambiato idea. Schierarsi contro la Brexit rischia di alienarli. L’Europa può attendere. Il Socialismo ha già aspettato troppo.

La Stampa 25.9.18
Perché studiare l’arabo a scuola scatena in Francia il razzismo anti-Islam
di Tahar Ben Jelloun

Il povero e peraltro eccellente ministro della Pubblica istruzione francese, Jean-Michel Blanquer ha avuto la sfortuna, l’audacia, la follia di proporre l’insegnamento dell’arabo nelle medie e nelle superiori francesi. Cosa non avrà mai detto? L’estrema destra (Rassemblement national- Raduno nazionale) ha trovato un inestimabile pretesto per uscire dalla letargia estiva e lanciare un sos, «Blanquer vuole islamizzare la Francia!». Seguita dall’incredibile Nicolas Dupont-Aignan, presidente del movimento Debout la France e, come Matteo Salvini, grande ammiratore della politica di Viktor Orban, che non trova nemmeno le parole per esprimere la sua repulsione per questa proposta. Chiede che venga insegnato il francese, come se non si facesse già. Ma la reazione più stupida e indecente è quella di Luc Ferry, che è stato ministro con lo stesso incarico nel governo Sarkozy (chi se lo ricorda? Nemmeno più lui).
Anche Ferry si è scagliato contro la minaccia di arabizzare e islamizzare la Francia! I suoi discorsi riecheggiano le invettive dell’estrema destra: «Questa proposta rischia di portare l’islamismo nel sistema scolastico nazionale». Per molti francesi ed europei, la parola «islamismo» implica, jihadismo, terrorismo, ecc. E dire che il signor Ferry si occupa di filosofia, cioè di «amore della sapienza»!
La cantante con radici siriane
Questi ultimi avvenimenti sono sintomatici di una Francia che ha preso a odiare tutto ciò che è arabo e musulmano, ovviamente non tutta la Francia, ma ricordiamo il caso di Mennel, la giovane francese di origini siriane con una voce meravigliosa che, nel febbraio 2018 a «The Voice», ha cantato «Hallelujah» di Leonard Cohen, metà in inglese e metà in arabo. Hanno cercato, nei suoi vecchi tweet, delle dichiarazioni, inappropriate, è vero, sul terrorismo, poi l’hanno esclusa dalla competizione, sbarrandole la strada verso il successo. Il vero motivo l’ha detto una giornalista della popolare trasmissione televisiva «Touche pas à mon poste»: «Ha pure cantato in arabo! ». Che crimine!
Questa isteria scatta quasi in automatico quando un arabo fa un passo falso e non si comporta come si deve.
La guerra d’Algeria non è finita. Il dossier resta aperto e trasuda ancora di nauseabondi sentori di odio, e questo da entrambe le parti. Il fatto che Macron abbia riconosciuto la responsabilità dell’esercito francese per la tortura e la morte del giovane militante comunista Maurice Audin nel giugno 1957 è un passo importante nel processo di riconciliazione della memoria algerino-francese. Ma non è abbastanza. A oltre sessant’anni dalla fine della guerra, il risentimento e l’odio tra francesi e algerini non si sono ancora sopiti.
Un serio problema
In effetti chi preoccupa la Francia e l’Italia non sono gli immigrati che sono arrivati negli Anni 60 e ’70 spinti dal bisogno, no, sono i bambini nati in questo Paese dopo la decisione di Giscard D’Estaing di concedere il ricongiungimento familiare nel 1975. In un dibattito sull’insegnamento dell’arabo nelle scuole medie e superiori un giornalista molto a destra ha imputato a Giscard la responsabilità di ciò che sta accadendo oggi in Francia (cito a memoria): è lui che ha aperto i confini a centinaia di migliaia di famiglie. Da allora, la Francia ha un serio problema con gli arabi!
Le carceri francesi sono occupate per oltre il 60% da giovani francesi di origine maghrebina. Sono lì per reati minori. Questo riassume la questione. Con una disoccupazione di oltre il 40% nelle cosiddette aree difficili, la delinquenza e l’inciviltà si moltiplicano. Alcuni si comportano male, ma cosa fa o cosa ha fatto il governo francese per questi francesi di seconda classe? Il giornalista Eric Zemmour, che nei suoi libri sostiene esserci una razza bianca e una razza nera, ha dichiarato con orgoglio in tv: «Sono meno francesi del resto della popolazione». È detto tutto. Quando si è «meno» non si può fare di «più» o «meglio».
Per quanto riguarda la proposta di Blanquer, chi la rifiuta è accecato e ossessionato dal rifiuto di tutto ciò che è arabo e musulmano. C’è una specie di allergia endemica, spiegata dalla storia, ma anche dalle vecchie tradizioni di banale e quotidiano razzismo. È impossibile prendere in considerazione l’aspetto positivo di una tale proposta. L’apprendimento di una lingua è confuso in queste menti con la paura del jihadismo e del terrorismo. È strano e patetico.
Ecco perché l’introduzione dell’arabo come lingua facoltativa nelle scuole ha suscitato un’isteria incomprensibile. È facile immaginare che l’Italia di Matteo Salvini o l’Ungheria di Viktor Orban reagirebbero con la stessa violenza e cecità di fronte a un’analoga proposta.
Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 25.9.18
La denuncia di Amnesty
Quei processi di massa "parodia di giustizia" nell’Egitto delle vendette
Per i Fratelli Musulmani 75 pene capitali " Ma per la strage di Rabaa nessuno paga"
di Francesca Mannocchi


Lo scorso 9 settembre, un tribunale egiziano ha condannato a morte 75 tra membri e affiliati dei Fratelli Musulmani, come parte di un processo di massa che coinvolgeva 739 persone accusate di reati che vanno dall’omicidio, all’incitamento alla violenza, all’appartenenza a un gruppo bandito dalla legge al raduno illegale. Il processo è stato definito da Amnesty International una "grottesca parodia della giustizia".
I 739 imputati furono arrestati e processati per aver partecipato a un sit-in andato avanti per settimane nella piazza Rabaa al-Adawiya al Cairo, sit-in organizzato in segno di protesta contro la rimozione del presidente democraticamente eletto Mohamed Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana.
La protesta è culminata in violenze di massa: il 14 agosto del 2013 le forze di sicurezza egiziane, sotto il comando dell’attuale presidente Abdel Fattah al-Sisi hanno disperso i manifestanti con armi automatiche, mezzi corazzati e bulldozer.
Una strage costata la vita a 817 persone, una strage che per Human Right Watch rappresenta un crimine contro l’umanità.
Il verdetto, del giudice Hassan Farid el-Shami, è stato annunciato nel tribunale carcerario di Tora, ampiamente fortificato.
Tra i condannati a morte alla Corte penale del Cairo c’erano eminenti membri della Fratellanza Musulmana: Essam El-Erian, Mohamed Beltagy, Abdel-Rahman al-Bar e Osama Yassin.
La corte ha anche condannato il leader supremo dei Fratelli Musulmani, Mohammed Badie, oltre ad altri 56, all’ergastolo.
Mohamed Morsi, il primo presidente eletto democraticamente del paese dopo la caduta di Hosni Mubarak, rimane in prigione in attesa di un nuovo processo.
Osama, suo figlio, è stato condannato a 10 anni di carcere.
Per molti il verdetto è stata un’ulteriore conferma che il sogno di libertà che ha animato l’Egitto nel 2011 sia svanito. Dopo il colpo di Stato del 2013 Al Sisi ha etichettato la Fratellanza Musulmana come gruppo terrorista, i suoi membri sono stati arrestati, spinti alla clandestinità o costretti all’esilio.
Amr Darrag è un ingegnere e politico egiziano, esponente di spicco dei Fratelli Musulmani, ed è stato ministro della Cooperazione internazionale del governo Morsi, come molti ritiene che la strage di Rabaa non fosse soltanto un’espressione di violenza ma un messaggio politico di al-Sisi a chi si opponeva al colpo di stato «era il modo in cui al-Sisi stava dicendo al mondo e all’opposizione: guardate, così il mio regime reagirà alle proteste. Era un messaggio politico che spiegava agli oppositori che la parola chiave sarebbe stata paura: chi sarà contro di me non sarà arrestato, verrà ucciso».
Fuori dal tribunale, il giorno della sentenza, Khalid, il parente di una condannata a morte ha definito il processo «assurdo e ingiusto, i nostri figli e nipoti sono stati uccisi a Rabaa, quelli sopravvissuti, i fortunati scampati al massacro, anziché essere trattati come vittime vengono arrestati, processati e condannati a morte. Questi ragazzi sono le vittime del massacro e non coloro che l’hanno perpetrato».
Amg Darrag oggi è presidente dell’Eis, Egyptian Institute for Studies, e ricorda che questo è solo l’ultimo di una lunga serie di processi svoltisi negli ultimi cinque anni in Egitto senza che la corte ammettesse prove e testimoni da parte della difesa degli imputati: «Ci sono state già 33 esecuzioni, dozzine di altre sono in attesa. Dopo processi senza prove, come questo. E la cosa più paradossale e dolorosa è che nessuno dei servizi di sicurezza di Al Sisi è stato né sottoposto a indagini né condannato per la strage di Rabaa, strage condannata da tutte le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani come un crimine contro l’umanità». L’11 settembre scorso, immediatamente dopo la sentenza, il comitato giudiziario egiziano ha ordinato il congelamento dei beni di oltre 1.100 organizzazioni benefiche che si dice siano affiliate ai Fratelli Musulmani. «Qualsiasi errore politico abbia commesso la Fratellanza — continua Darrag — non giustifica queste violazioni. Morsi, ricordiamolo, era il primo presidente democraticamente eletto dell’Egitto contemporaneo. Una delle ragioni per cui Al Sisi continua a fare impunemente quello non è il silenzio, ma il supporto piuttosto: il doppio standard della comunità internazionale, nessuno sta dando attenzione alla giustizia o alla condizione dell’opposizione, Al Sisi sta facendo quello che vuole, intanto i cittadini egiziani assistono impotenti e impauriti al dominio militare».
Dal 2013, Al Sisi ha rafforzato fortemente il suo potere. Oggi in Egitto ci sono almeno 60.000 prigionieri politici più di 10 volte di quanti ce ne fossero prima che Mubarak fosse costretto a lasciare il governo.
Amnesty International, nelle parole di Najia Bounaim, sostiene che le violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza avvengano «su una scala mai vista prima».
Nonostante questo, le relazioni economiche con l’Europa e gli Stati Uniti restano solide e apparentemente non minacciate dalle denunce delle organizzazioni per i diritti umani. A luglio l’amministrazione Trump ha destinato 195 milioni di dollari in aiuti militari all’Egitto, fondi precedentemente trattenuti proprio a causa delle preoccupazioni sullo stato dei diritti umani nel paese.

Il Fatto 25.9.18
La guerra civile spagnola diventa “fiction”
di Massimo Novelli


Al tempo della storia-fiction, tutto è possibile. Dunque Marcello Simoni, recensore su Tuttolibri-La Stampa di L’ultima carta è la morte, romanzo di Arturo Pérez-Reverte, può dire che la guerra civile di Spagna 1936-39 fu un “contrasto tra fronte nazionale e quello repubblicano, di ispirazione marxista”.
Non fu proprio così. Lo storico Leo Valiani, che quella guerra combatté con le milizie antifasciste, scriveva che la legittima Repubblica spagnola, aggredita dai golpisti di Francisco Franco con il sostegno di Hitler e di Mussolini, “aveva identificato le sue sorti con le idee del liberalismo, della democrazia, del socialismo”. Tanto che Franco “fu costretto a dichiarare subito che guerreggiava contro tutte queste idee universali e in favore di idee opposte, autoritarie ed oligarchiche”.
Valiani, che non fu comunista, bensì socialista, azionista (Giustizia e Libertà) e quindi radicale-repubblicano, affermava queste cose nel 1942. Della tempra di Valiani era Carlo Casalegno. Pur non andando in Spagna, fece la Resistenza con Giustizia e Libertà; vicedirettore de La Stampa, finì assassinato dalle Brigate Rosse. Adesso, sullo stesso giornale di Casalegno (e di Norberto Bobbio, di Alessandro Galante Garrone, di tanti altri amici di quel Renzo Giua caduto da antifascista in Estremadura), è lecito parlare della guerra civile spagnola, anteprima dell’aggressione nazifascista del 1939 al mondo libero, non troppo diversamente da come veniva descritta dalla propaganda fascista e franchista: una guerra “nazionale” e cristiana di civiltà contro la barbarie rossa. Presentare la guerra di Spagna in tale maniera, tuttavia, non che è che l’ennesimo esempio di come oggi la storia, sui giornali, in tv, nell’industria editoriale, non sia più storia, ma fiction.
Esemplare è l’accoglienza acritica, salvo eccezioni (come fu nel caso di Giorgio Bocca), riservata ai libri di Giampaolo Pansa, campione della fiction revisionista in chiave fascista.
Per lui i patrioti della guerra civile italiana, o lotta di liberazione, non furono i partigiani, ma i fascisti della Repubblica fantoccio: i cosiddetti ragazzi (e le ragazze) di Salò, alleati dei nazisti. Nell’eterna zona grigia di questo Paese, del resto, fanno cassetta, soprattutto dall’era Berlusconi in poi, i “vinti” del nazifascismo: i brigatisti neri, le repubblichine, le spie, le Ciano e le Petacci. La storia è travisata, le vicende individuali assurgono a valore universale. Tutto può diventare fiction: chi uccideva la libertà, i fascisti e i nazisti, in realtà era un patriota. E il contesto storico annega nella mistica dell’azione per l’azione, come nel libro di Pérez-Revert; affascina il mito della “bella morte” fascista. Forse perché la morte nei lager nazisti e nelle galere di Franco, in effetti, non fu altrettanto bella.
La fiction, il revisionismo facile e spregiudicato, convivono con quello che si può chiamare l’abbandono della storia. “L’abisso che separa ricerca storica e revisionismo”, ha scritto lo storico Marco Labbate, “è solo all’apparenza netto. Talvolta la frattura si colloca dentro la stessa storiografia. È l’abisso che divide l’elaborazione innovativa della Resistenza come simultanea compresenza di tre guerre (di liberazione, di classe e civile), condotta da Claudio Pavone, dagli espedienti di Pansa, che abbondano di quelle strumentalizzazioni della storia da lui stesso condannate ancora all’inizio degli anni Novanta. Eppure il passato di Pansa è quello di un discepolo attento ed efficace del metodo storiografico: la sua è dunque la deliberata scelta di un abbandono”. Un abbandono con fiction, naturalmente.

Corriere 25.9.18
Papa Montini deluse Franco
Un saggio di Giovanni Maria Vian (Morcelliana) si sofferma sulla prudenza del Pontefice bresciano
Paolo VI rallentò la beatificazione dei martiri cattolici uccisi in Spagna
La sua figura è stata messa in ombra dal grande rilievo che hanno assunto le personalità di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II
di Paolo Mieli


Giovanni Battista Montini fu eletto Papa (alla quinta votazione) il 21 giugno 1963 e prese il nome di Paolo VI. Era nato a Concesio (Brescia) nel 1897, figlio di un editore di giornali contraddistintosi per il grande impegno politico e sociale. Montini era stato (dal 1937) uno stretto collaboratore di papa Pacelli, ma quando nel 1954 venne nominato arcivescovo di Milano si mormorò di suoi dissensi con Pio XII. Partecipò in maniera assai attiva ai lavori del Concilio Vaticano II convocato dal suo predecessore Giovanni XXIII. Promosse la riappacificazione con la Chiesa patriarcale di Costantinopoli e la revoca della reciproca scomunica del 1054. Nel 1964 con un viaggio in Terrasanta aprì la strada alle missioni dei pontefici fuori dai confini italiani. Si recò anche a Bombay, Bogotà e nella sede delle Nazioni Unite a New York. Nel 1967 con l’enciclica Populorum progressio sostenne che la pace sarebbe stata irraggiungibile finché il mondo fosse stato diviso tra poveri e ricchi. Nel 1968 emanò l’enciclica Humanae vitae, con la quale ribadì la dottrina della Chiesa sulla regolazione delle nascite. Ampliò il collegio cardinalizio ed escluse dal diritto di essere eletti Papa i cardinali ultraottantenni. Avviò una politica di distensione con il mondo comunista. Nel 1978, alla viglia della morte, si prodigò per salvare Aldo Moro «dal carcere delle Brigate rosse». Questo, in sintesi, il suo profilo storico. Ma — ovviamente — Paolo VI fu molto, molto di più.
Adesso, in occasione della sua santificazione, lo storico Giovanni Maria Vian (che è anche direttore dell’«Osservatore Romano») si accinge a pubblicare, per i tipi di Morcelliana, un libro, Montini e la santità, in cui lo definisce addirittura «un Papa dimenticato». Dimenticato, secondo Vian, «per l’incomprensione sofferta durante i difficili ma decisivi quindici anni del suo pontificato (1963-1978)» e soprattutto «per la rapida eclissi». Eclissi che si spiega con il difficile confronto tra Paolo VI, il suo predecessore Giovanni XXIII e il successore (suo e di Albino Luciani) Giovanni Paolo II: due papi popolarissimi.
Da una parte, quello tra lui e Angelo Roncalli fu un confronto quasi insostenibile, «per la forza dell’immagine rappresentata dal “Papa buono” dopo il ventennio pacelliano»; dall’altra, la comparazione con Karol Wojtyla fu ugualmente molto problematica, per la durata del lunghissimo regno e per la «personalità planetaria del primo Pontefice non italiano da oltre quattro secoli e mezzo». Vian ricorda, ad ogni buon conto, che era stato papa Roncalli a indicare, se non proprio a designare, Montini come suo possibile successore. E, quanto alla decisione di prendere un doppio nome, Giovanni Paolo, lo stesso Vian mette in risalto come Luciani prima e Wojtyla poi vollero sottolineare con quella scelta «un tentativo di composizione ideale tra i due Pontefici del Concilio». Non solo Giovanni XXIII ma anche — e qui sta la sottolineatura — Paolo VI. Fu poi Wojtyla ad avviare nel 1993 la causa di canonizzazione di Paolo VI, sollevando «decisamente il velo dell’oblio» che fino a quel momento aveva avvolto Montini. Infine papa Francesco fece un esplicito riferimento a Montini nel corso di una delle ultime riunioni precedenti il conclave in cui sarebbe stato eletto, lo ha beatificato nel 2014 e oggi non fa mistero di considerare Paolo VI come il predecessore a cui «più si ispira». Un intreccio che colloca il Papa bresciano al centro di una tra le fasi più complesse della storia della Chiesa.
Di particolare interesse sono le considerazioni di Vian su Montini e il suo modo di intendere il culto di Maria. Montini non fu un «mariologo». Ma, prima di diventare Papa, quando era arcivescovo di Milano, si dedicò a una serie di riflessioni — pubblicate poi, a cura di René Laurentin, in Sulla Madonna. Discorsi e scritti (1955-1963), edito nei Quaderni dell’Istituto Paolo VI — sulla madre di Gesù Cristo. La grande preoccupazione di Montini, scrive Laurentin, fu di «situare Maria al suo posto autentico nella vita della Chiesa, senza eccessi o negligenze, senza enfasi o minimizzazioni». Montini non volle far suo, prosegue Laurentin, «il trionfalismo del movimento mariano all’ultima moda».
Che genere di moda? Secondo Laurentin (e Vian concorda con lui) negli anni Cinquanta «la mariologia o il fervore mariano non furono privi di eccessi o di esagerazioni». Fu perciò salutare che Montini si preoccupasse di «ritornare alle origini, di ristabilire l’equilibrio» del culto mariano. In un discorso del 16 maggio 1961 l’allora arcivescovo di Milano denunciò esplicitamente questo genere di eccessi: «Alcune volte la fantasia associa alla Madonna dei titoli che non sarebbero molto convenienti; in bassa Italia ho trovato persino una Madonna … delle galline!», denunciò. Talvolta la nostra pietà si fa «interessata», proseguì Montini; diventiamo «devoti della Madonna quando v’è un esame da sostenere, o abbiamo mal di testa, o una malattia o un’operazione da superare, e così via; allora è la Madonna dei miracoli, la Madonna delle grazie». Questo «è bello, ma è un po’ una devozione che… tira giù la Madonna». I nostri bisogni, proseguiva Montini, «soverchiano l’amore e la dedizione che dobbiamo a Maria Santissima». In questo modo quello della fede diventerebbe nient’altro che «un mutuo soccorso, un’associazione contro le disgrazie».
Importante fu anche, secondo Vian, l’intervento di Paolo VI in materia di proclamazioni di santi e beati. Chi conosce la complessità e il rigore dei processi che precedono beatificazioni e canonizzazioni, sa bene — disse Montini — che la Chiesa è «cauta ed esigente» nel pretendere le prove delle virtù in grado «eroico». Un raggiungimento delle prove «superlativo, eminente, comprovato da inconfutabili testimonianze, analizzato con rigore critico e con metodo obiettivamente storico, anzi convalidato da due verifiche, una negativa, quella così detta del “non culto”, la quale assicura i giudici del processo non esservi l’influsso di qualche eventuale mistificazione popolare; l’altra, quella positiva dei miracoli, quasi come attestato trascendente d’un divino beneplacito all’eccezionale riconoscimento della santità che la Chiesa intende venerare nei singoli e singolari candidati agli onori degli altari». Al riparo da «considerazioni politiche».
Molto «significativo», in rapporto a ciò, appare «il blocco imposto alle cause dei martiri della guerra di Spagna (circa settemila tra sacerdoti, religiosi, suore e seminaristi, mentre mancano statistiche per i laici)». Alla fine degli anni Cinquanta, ricorda Vian, cominciarono a giungere a Roma i processi informativi, ma subito dopo l’elezione di Paolo VI vennero impartite alla congregazione disposizioni, «non rese note», che di fatto sospesero l’iter delle cause.
Lo storico Justo Fernandez Alonso ha scritto che all’origine della decisione, sicuramente riconducibile a Paolo VI, ci furono «motivi di opportunità, tra cui la convenienza di lasciar passare un prudenziale lasso di tempo». Un lasso di tempo «che permettesse di contemplare con più obbiettività gli avvenimenti della Spagna all’epoca della persecuzione». Furono questi i motivi che, scrive Alonso, «consigliarono di rallentare il corso di quei processi». Tale decisione spiacque a ogni evidenza al dittatore Francisco Franco, il quale da quelle beatificazioni e canonizzazioni avrebbe tratto legittimazione per il proprio regime. Tutto ciò ebbe grande importanza, prosegue Vian: la volontà di non riaprire polemiche, e di evitare strumentalizzazioni politiche da parte franchista, spiega la decisione di Paolo VI. A inquadrare la cui ostilità a Franco va aggiunto che, quando era ancora arcivescovo di Milano, Montini si era visto rifiutare dal capo dello Stato spagnolo una pubblica domanda di clemenza per un giovane oppositore minacciato di condanna a morte.
Emerge, nelle pagine di Vian, la volontà da parte di Montini di trovare costantemente un equilibrio nella mediazione tra tendenze diverse nella storia della Chiesa, la sua convinzione della necessità di sottolineare più gli elementi di continuità che quelli di discontinuità tra i pontificati di Pio XII e di Giovanni XXIII. E infine la sua intenzione di rispettare le procedure senza strappi eccessivi o inutili. Va anche sottolineata la vicenda personale di Montini: «per un quindicennio tra i primi collaboratori di Pio XII» e, dopo l’«allontanamento a Milano» (dove entrò come arcivescovo il 6 gennaio 1955), nominato cardinale da Giovanni XXIII al suo primo concistoro nel 1958, fu certamente legato alla memoria di entrambi i suoi predecessori.
Nell’elenco dei successori di Pietro da molti secoli, ricorda Vian, sono tradizionalmente considerati santi, «e per di più martiri», tutti i vescovi di Roma fino alla cosiddetta pace costantiniana. Poi santi quasi tutti quelli fino all’età di Gregorio Magno, «e si tratta evidentemente di una sorta di idealizzazione agiografica fondata sulla mitizzazione delle origini». Appare quasi come «qualcosa di scontato» che tutti quei Papi fossero considerati santi. Del resto in pieno Medioevo Gregorio VII sostenne che «il romano Pontefice, se sia stato ordinato canonicamente, per i meriti del beato Pietro senza dubbio diviene santo».
Poi, a poco a poco, la santità papale di fatto scomparve per riapparire «non a caso» dopo la perdita del potere temporale nel 1870 («e in un trasparente tentativo di compensarla») con il riconoscimento formale del culto di alcuni Pontefici medievali da parte di Pio IX e soprattutto di Leone XIII. Ma il vero rilancio si colloca alcuni decenni più tardi, quando Pio XII tra il 1951 e il 1954 beatifica e canonizza Pio X e nel 1956 proclama poi beato Innocenzo XI. Nel 1954 papa Pacelli introduce la causa di Pio IX che peraltro proprio Roncalli avrebbe voluto beatificare. Ma per questa beatificazione si dovrà attendere l’anno 2000 allorché essa verrà appaiata a quella di Giovanni XXIII.
«Complesso» è giudicato da Vian il rapporto di Paolo VI con Eugenio Pacelli e Angelo Roncalli. Aveva incontrato il secondo nel 1925 e il primo nel 1930. Li conobbe «da vicino» ma — eletto, nel 1963, loro successore — negli anni finali del Vaticano II Paolo VI, per fermare la proposta di canonizzare in Concilio Giovanni XXIII (in evidente contrapposizione a Pio XII), dispose l’avvio delle cause di beatificazione di entrambi i Papi «per via normale». Questo per evitare — sono parole dello stesso Montini — «che alcun altro motivo, che non sia il culto della vera santità e cioè la gloria di Dio e l’edificazione della sua Chiesa, ricomponga le loro autentiche e care figure per la nostra venerazione».
Alla proposta della «sinistra» conciliare di arrivare a una proclamazione di santità di Giovanni XXIII da parte del concilio stesso appena due anni dopo la morte di Roncalli («proposta interpretata generalmente come canonizzazione della tendenza progressista degli stessi proponenti, una sorta di implicita contrapposizione tra quinquennio giovanneo e ventennio pacelliano e alla stregua di un superamento della prassi ordinaria delle cause», precisa Vian) Paolo VI reagì con l’annuncio dell’introduzione, secondo la prassi consueta, di entrambe le cause, quella di Pio XII e quella di Giovanni XXIII. In seguito quella di Pio XII — contestato per non aver preso sufficientemente le distanze dal regime hitleriano — si arenerà e, al momento della beatificazione di Roncalli, il nome di Giovanni XXIII sarà, come si è detto, «bilanciato» da quello del Papa ostile al Risorgimento, Pio IX.
Quanto a Wojtyla verrà canonizzato nel 2014 — assieme a Papa Roncalli — poco tempo dopo la sua morte, dal successore Benedetto XVI. Ma è con Paolo VI che «un cristiano divenuto Papa viene proclamato santo assieme ad altre figure esemplari». Ed è la prima volta.

La Stampa 25.9.18
Ottant’anni fa Monaco
La lezione del vertice che non fermò il nazismo C’è un tempo per la forza
di Gian Enrico Rusconi


Gli accordi di Monaco del 29 e 30 settembre 1938 sono rimasti nella memoria storica come l’esempio più clamoroso e infausto del cedimento delle democrazie alla dittatura hitleriana. Il termine stesso di appeasement (pacificazione, accomodamento, ricerca della pace a tutti i costi) da allora ha cambiato senso diventando sinonimo di codardia e di cecità. Il più accanito ma isolato oppositore di quegli accordi, Winston Churchill, avrebbe detto in Parlamento con brutale preveggenza : «Dovevate scegliere tra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra». Quelle parole erano rivolte al premier inglese Neville Chamberlain, uno dei protagonisti di quella vicenda, immortalato tra l’altro nella celebre fotografia che lo vedeva, appena messo piede in Gran Bretagna, agitare i fogli degli accordi sottoscritti. Per lui erano la prova tangibile che la guerra oscuramente minacciata da Hitler era stata scongiurata e si apriva un’ èra di pace garantita dalle «grandi» potenze europee. Era quello che sperava e attendeva l’opinione pubblica («il popolo» qualcuno direbbe oggi). Tutti i protagonisti sono festeggiati nelle rispettive nazioni: Gran Bretagna, Francia, Italia e persino in Germania .
La nuova mappa
L’oggetto specifico della trattativa a Monaco era la regione dei Sudeti, cioè la regione di confine tra Austria e Germania abitata da tedeschi (3,25 milioni), assegnata con la pace di Versailles al nuovo Stato della Cecoslovacchia, e perentoriamente rivendicata dalla Germania hitleriana. Ma Francia e Gran Bretagna si erano fatte garanti dello status quo - sino al 30 settembre 1938, quando la Cecoslovacchia senza neppure essere consultata è stata costretta a cedere i Sudeti ai tedeschi.
Il nazionalsocialismo era andato al potere con l’esplicita intenzione di liquidare le conseguenze della pace di Versailles, di riconquistare i confini originari del Reich . Le potenze vincitrici della guerra mondiale tardivamente avevano tentato di correggere alcuni errori di Versailles d’intesa con gli ultimi governi della repubblica di Weimar. Ma con il nazionalsocialismo al potere, la situazione era diventata intrattabile.
L’Anschluss
Nel marzo 1938 il Führer era entrato a Vienna tra l’entusiasmo delle piazze austriache, realizzando l’Anschluss, il «ricongiungimento» tanto desiderato dei popoli di lingua e cultura tedesca all’interno di un’unica Grande Germania. (Anche qui, soltanto in un secondo tempo il termine Anschluss avrebbe acquistato il significato negativo e generalizzato di assorbimento coatto e ingiusto di un’altra una entità politica).
Ma l’aspetto più straordinario di queste vicende è che tutti i successi hitleriani erano avvenuti senza manifeste azioni militari : soltanto con la loro minaccia. Hitler era riuscito ad ottenere tutto quello che voleva giocando sulla possibilità credibile di ricorrere alle armi. Era un giocatore d’azzardo, a pieno titolo. È così che si presenta a Monaco, accanto ai leader inglese (Chamberlain), francese (Daladier) e all’alleato italiano (Mussolini). Sin dall’inizio il Führer ha un comportamento singolare. «Hitler, con l’orologio in mano, si baloccava con l’idea di dare l’ordine di mobilitazione. Ma forse non faceva molto sul serio. È certo però che durante l’intera riunione era molto contrariato . Infatti pari tra pari non lo era comunque. Era costretto a trattare. Mussolini lo assecondava molto attento. Chamberlain trattava con i metodi di un uomo d’affari giuridicamente educato, facendo tirare la trattativa fino a mezzanotte, Come ricordo, al Führer è rimasto un amaro sapore».
La rabbia del Führer
Così ha lasciato scritto un attento osservatore presente alla riunione, il segretario di stato tedesco (e vice di Goering) Ernst von Weizsächer. Costui era il tipico nazional-conservatore, fiancheggiatore critico del nazionalsocialismo. Vedeva giusto nel constatare la contrarietà del Führer che doveva accettare un accordo, certamente favorevole nei suoi termini materiali, ma frutto di una contrattazione che limitava la sua sovranità decisionale.
Ma dietro alla sofferta remissività di Hitler ci sono altri fattori : primo fra tutti la resistenza dei vertici militari tedeschi ad intraprendere un’azione di forza che avrebbe portato ad una guerra con gli occidentali, il cui esito poteva essere catastrofico. In realtà i militari si sbagliavano perché nell’estate/ autunno 1938 nessuna delle potenze occidentali era disposta a rischiare una guerra ritenendosi impreparata. Hitler invece proprio a Monaco intuisce la fatale fragilità della posizione occidentale . E ne approfitta: pochi mesi dopo infatti fa entrare le truppe tedesche a Praga, annettendo ciò che resta della Cecoslovacchia nel protettorato della Boemia e della Moravia e creando un regime-fantoccio in Slovacchia. Gli accordi di Monaco sono smentiti, azzerati. Francia e Inghilterra si limitano ad una protesta diplomatica, anche se accelerano il loro riarmo.
La Polonia
Hitler continua nel suo azzardo nel settembre 1939 attaccando la Polonia. I militari lo assecondano, anche se con qualche riluttanza, sino all’ultima sfida decisiva : l’attacco a occidente del maggio 1940. L’incredibile sconfitta della Francia in poche settimane sembra premiare «il genio militare e politico» del Führer. Toccherà a Winston Churchill il compito immane di tenergli testa e fare la guerra non semplicemente per riconquistare l’onore perso a Monaco, ma per salvare il futuro della democrazia in Occidente . La lezione di Monaco non è semplice. Non è quella semplicistica di non trattare mai con i tiranni e i dittatori o viceversa all’opposto di ricercare sempre la pace o l’intesa a qualunque costo. Occorre combinare prudenza e fermezza nelle proprie convinzioni di principio. Non usare la forza come ricatto ma essere pronti a ricorrervi risolutamente, quando è necessario. È l’arte più difficile della politica. È quella che è mancata alle democrazie.

il manifesto 25.9.18
Nell’Arena della sessualità maschile
In una parola. Una riflessione a partire dall'intervista realizzata da Massimo Giletti al giovane Jimmy Bennet che accusa Asia Argento di averlo violentato
di Alberto Leiss


Non amo il giornalismo-spettacolo di Massimo Giletti, ma devo riconoscere che l’intervista al giovane Bennet – che ha ripetuto di essere stato «violentato» da Asia Argento – oltre a essere obiettivamente un grande «colpo» mediatico, è stata condotta con correttezza, efficacia, ragionevolezza.
Giletti non ha dimenticato di essere un maschio, e ha sollevato più di una volta il dubbio sul fatto che una donna trentenne come Asia Argento possa avere costretto con la forza e la violenza (come succede alle femmine vittime di stupro) un giovane quasi diciottenne ad avere un rapporto sessuale «completo» con lei. Un giovane che ha detto di aver avuto altri rapporti sessuali precedenti (e tralascio i racconti che rimbalzano in rete sul fatto che una sua ex compagna lo accusa a sua volta di aver avuto comportamenti violenti).
L’intervistatore ha poi attirato l’attenzione sul selfie scattato da Bennet con Asia abbracciati in un letto, secondo lo stesso autore fatto dopo il rapporto. Nella civiltà delle immagini in cui siamo immersi – ma forse lo siamo sempre stati – questa immagine parla di tutto tranne che di una violenza appena consumata.
A un certo punto Bennet ha capito che la piega della trasmissione non stava volgendo a suo favore, lo ha detto esplicitamente e ha chiesto che fossero rimosse dagli schermi le grandi icone del volto di Asia Argento. Ha poi sfoderato il suo argomento più forte (consigliato dai suoi legali?): ha deciso di agire a distanza di anni – in un primo tempo chiedendo una enorme somma di denaro come risarcimento, e prezzo del suo silenzio – proprio dopo che la Argento era divenuta simbolo del movimento #metoo nato dal caso Weinstein. Lui sarebbe stato vittima da parte dell’attrice e regista, che gli proponeva di partecipare a un nuovo film, dello stesso tipo di potere e di violenza che il mega-produttore Weinstein aveva esercitato contro di lei.
Ma questo argomento è stato un po’ un boomerang nelle reazioni di Giletti e del pubblico in sala. Si può davvero paragonare il potere enorme di un Weinstein con la posizione professionale, e anche caratteriale, di una donna di spettacolo estroversa come la Argento? La trasmissione ha fornito altri spunti interessanti (per esempio la più netta distinzione tra «molestie», per quanto inaccettabili, e violenza, di cui ha parlato l’ex parlamentare Nunzia De Girolamo, o gli interrogativi psicologici su che cosa passa tra cervello, desiderio e corpo in un incontro erotico in cui c’è molto spesso una asimmetria nella microfisica del potere di ogni relazione).
A me interessa sottolineare che la spettacolarizzazione globale di un grande conflitto simbolico, se rischia di produrre distorsioni e strumentalizzazioni – compresi gli effetti di gogna e di censura rispetto ai quali bisogna stare sempre in guardia – è anche una grande occasione politica. Credo si capisca poco del momento attuale se non si vedono i nessi tra la scena aperta dalla reazione femminile sempre più forte al millenario dominio patriarcale, e la reazione virulenta di pattuglie di maschi variamente collocate nella geografia di un potere incerto e traballante quanto aggressivo.
Tra la violenza legata alla sessualità e quella che si traduce nella volgarità del linguaggio, nell’istigazione all’odio del capro espiatorio di turno, fino alla tendenza al riarmo e alla guerra (ieri sera papà Salvini ha ripetuto che un po’ di servizio militare farebbe tanto bene ai «nostri ragazzi») c’è un filo che va spezzato.
Il disagio sociale riguarda molte e molti. Quello maschile riguarda noi uomini e va indagato alla radice.

il manifesto 25.9.18
Chi condanna l’Europa all’autodistruzione
Derive europee. Si lascia credere che gli immigrati rappresentano una minaccia per gli standard di vita e addirittura per la sicurezza dei cittadini
di Ignazio Masulli


Anche al recente vertice di Salisburgo si è assistito all’eterno minuetto di paesi e istituzioni dell’Unione europea che con vari toni manifestano una sostanziale e comune indisponibilità a politiche di accoglienza e positiva regolazione dei flussi migratori. Un comportamento ingiustificato, irresponsabile e, alla fine, autodistruttivo.
È ingiustificato perché l’invecchiamento della popolazione dei paesi europei sta creando uno squilibrio demografico e sociale insostenibile.
Inoltre è ampiamente dimostrato che gli immigrati nati all’estero e regolarizzati pagano al fisco degli stati in cui vivono e lavorano contributi che eccedono di oltre la metà le spese di cui usufruiscono Né è vero che sottraggono lavoro a chi già risiede perché contribuiscono in misura significativa all’aumento del Pil e, quindi, alla creazione di nuovi posti di lavoro.
Si lascia credere che gli immigrati rappresentano una minaccia per gli standard di vita e addirittura per la sicurezza dei cittadini, alimentando sentimenti di xenofobia e di razzismo con effetto-contagio su chi vede peggiorare le proprie condizioni sociali, come gran parte della popolazione lavoratrice e ceti medi. Una situazione in cui proprio le fasce più vulnerabili guardano con avversione ed ostilità chi si trova al gradino inferiore.
Oggi in Europa governi di destra, di centro o che si autodefiniscono progressisti non sono disposti ad accogliere nemmeno piccole quantità di migranti. Lo fanno stentatamente o si rifiutano, anche quando si tratta di rifugiati e richiedenti asilo garantiti dal diritto internazionale.
Pur con vari gradi di oltranzismo, ma con sostanziale parità di posizioni agli effetti pratici, i governi dei paesi membri e i rappresentati delle istituzioni centrali dell’Unione europea, concertano e perseguono politiche di puro e semplice respingimento dei migranti. Lo fanno senza alcuno scrupolo di stipulare accordi politici e finanziari con i paesi d’origine e di transito dei migranti, perché li trattengano o li intercettino. Lo fanno benché consapevoli di accrescere, in tal modo, ogni genere di sofferenze, violenze, fino alla morte di persone inermi. E con un’indifferenza che può spingersi oltre ogni limite, come purtroppo mostra anche il caso italiano.
L’obiettivo di fondo è di sostituire le risposte necessarie alla perdurante stagnazione economica e crescenti diseguaglianze sociali con false sicurezze e identità fasulle, come quelle di nazione, razza, “civiltà”. Non si può pensare che i governanti dei paesi dell’Unione e i suoi dirigenti siano inconsapevoli di tutto questo e non vedano ciò che è sotto gli occhi di tutti e cioè che stiamo andando verso un’Europa dei fascismi, quindi, verso la fine di ogni base politica e morale dell’Unione.
Ma vince l’obbedienza cieca al più potente blocco di potere nella storia del capitalismo, potere economico, finanziario, tecno-militare e politico tanto coeso quanto pervasivo. E che, nel quarantennio neoliberista, oltre a rafforzarsi oltre misura, si è irradiato stabilendo alleanze con i gruppi dominanti dei paesi emergenti e in via di sviluppo che ne hanno condiviso le strategie.
Un potere che non tollera alcuna trasformazione, ma anche privo di prospettive, proprio perché comprime la vitale e continua opera di costruzione e ri-costruzione della società, indispensabile alla sua evoluzione.
Evoluzione di cui l’emigrazione è sempre stata veicolo essenziale e costitutivo in tutta la nostra storia.

Repubblica 25.9.18
Per capire dove siamo finiti torniamo a leggere "La montagna incantata"
di Fernardo Villespin


Capitalismo in crisi, derive nazionaliste, irrazionalismo dilagante E persino Steve Bannon. Thomas Mann aveva già previsto tutto nel suo capolavoro ambientato in un ospedale svizzero. Con un paziente: l’Occidente
A ottobre sarà passato un secolo dall’uscita del primo volume del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler.
Credo siano poche le cose recuperabili da questo insieme confuso di filosofia della storia.
Una in particolare lo è su tutte: l’insistenza di questo saggio sullo smarrimento delle élite di fronte alla società di massa. Ma se volete godere della vertigine provocata dal sapere di essere sull’orlo di un collasso di civiltà, il mio consiglio è quello di tornare a leggere La montagna incantata di Thomas Mann, scritto più o meno nello stesso periodo del libro di Spengler: dopo la prima guerra mondiale. La buona letteratura spesso esprime in modo più lucido ciò che i filosofi o i teorici sociali intravedono più tardi.
L’argomento non potrebbe essere più attuale: la descrizione della decadenza di una società in chiave simbolica. La trama del libro si svolge in un ospedale svizzero per pazienti affetti da tubercolosi.
La macchia sul polmone come simbolo della malattia di un’intera civiltà disorientata.
Il cambiamento dei codici a cui si è costretti dal ricovero, la vicinanza della morte e l’onnipresenza della malattia, diventano elementi controfattuali che ci permettono di ripensare tutto. Che cosa potremmo recuperare da quella narrazione che ci sia utile per descrivere ciò che ora ci affligge?
Nessuno ignora che stiamo provando quella stessa inquietudine per il venire meno di conquiste che un tempo consideravamo consolidate.
Abbiamo di nuovo individuato quella macchia sul polmone e cerchiamo di trovare nuovi punti di orientamento e ricomporre l’ordine perduto. A tal fine, e nonostante la loro rilevanza storica, mi sembrano secondari i sintomi che indicano la fine dell’egemonia occidentale, ma non la frammentazione della sua unità culturale e di valori. Forse è proprio qui, nella verifica della perdita della nostra identità comune, che sorge quest’ansia.
Questa era anche la tesi di Mann: la convinzione che il processo di civilizzazione fosse entrato in collisione con gli ingredienti della cultura profonda, con il mondo in cui si forgia la nostra identità originaria, ma anche con quello della disciplina, della gerarchia, delle fonti dell’autorità e dell’io.
Questo scontro tra due dimensioni fino ad allora immaginate come compatibili si riflette nei dialoghi tra i personaggi di Settembrini e Naphta. Il primo è il tipo ideale del razionalista illuminista, che crede nel progresso tecnologico: è cosmopolita, democratico, repubblicano, individualista; confida in uno Stato universale e laico e nel controllo della natura attraverso la scienza. Naphta, invece, è l’epitome dell’autoritarismo e dell’irrazionalismo politico; si oppone a tutto: al mercato, al capitalismo; è al tempo stesso il rappresentante della reazione e della rivoluzione proletaria, religioso e rivoluzionario marxista e, quindi, dogmatico a partita doppia. Aspira all’annullamento dell’individualità in nome di impulsi millenaristici. Ed è nazional-statalista. La storia mostra che, in questo gioco di antagonismi, i Naphta finiscono inizialmente col vincere. Come voleva il personaggio, alla fine si è imposta "la comunità mitica attraverso il terrore e la violenza", tanto quella nazista che quella stalinista.
Dopo la devastazione, è venuto il trionfo di Settembrini. Anche se, come temeva Mann, alla fine è rimasto vittima della sua "superficialità": la sua dimensione commerciale ha avuto la meglio su quella civico-repubblicana; non ha vinto l’universalismo dei diritti umani, né la democrazia, ma il capitalismo, l’unica cosa che, con lo Stato-nazione, abbiamo globalizzato con successo. La razionalità strumentale associata al progresso tecnologico ha anche smesso di essere un’esclusiva dell’Occidente e si è combinata con la banalità di un consumismo di massa che si è diffuso ovunque.
Oggi l’Occidente torna ad avere un’anima scissa. Ancora una volta ci troviamo nella stessa dialettica: cosmopoliti contro nazionalisti. O difensori della democrazia liberale contro il nazional-populismo. Ogni tanto si affaccia qualche bel Settembrini, come Macron o Obama, a suo tempo. Anche se io, come il bambino del film Il sesto senso, vedo Naphta ovunque. E il più sinistro di tutti, la sua migliore incarnazione contemporanea, è Steve Bannon, che si è autoeletto guida spirituale per condurre il nazionalpopulismo alla vittoria nelle prossime elezioni europee.
Crisi dell’Occidente? No, penso che sia piuttosto fatica, stanchezza di civiltà.
Un secolo fa, venne proclamato il nostro declino e andiamo avanti.
Come dimostra questo stesso articolo, non possiamo smettere di guardare al passato. Abbiamo una terribile paura del futuro.
Invece di affrontare di petto le sfide del futuro e di rafforzare tutto ciò che ci ha resi grandi, ricorriamo di nuovo a soluzioni del passato presuntamente salvifiche. Pur sapendo tutti dove ci hanno portato.
Che cosa posso dirvi: se sono costretto a schierarmi tra questi due estremi, preferisco la leggerezza e la "superficialità" di un Settembrini a tutto il peso mistico-religioso-rivoluzionario di un Naphta. E questo non mi rende meno sensibile né mi trasforma in un uomo senza patria.
L’autore, politologo, insegna all’Università di Madrid © El País / LENA (Leading European Newspaper Alliance) Traduzione di Luis E. Moriones