il manifesto 23.9.18
Il razzismo «vintage» è una lezione di storia
Intervista.
Spike Lee parla di «BlacKKKlansman», il suo nuovo film che uscirà nelle
sale italiane il prossimo 27 settembre. «Dobbiamo votare tutti alle
elezioni midterm di novembre, è la nostra ultima possibilità»
di Luca Celada
Graffiante,
eversivo e spassoso, BlacKKKlansman è il film che lo scorso maggio ha
resuscitato una Cannes (e un Festival) da un torpore catatonico, una
sveglia sulle note dei Temptations (Ball of Confusion) sparati a palla
sulle algide scalinate del Palais. Nel suo ultimo film Spike Lee remixa
il suprematismo di Via Col Vento, D.W. Griffith e la blaxploitation di
Pam Greer e Richard Roundtree. Cita a lungo Stokely Carmichael e le
Pantere Nere e mette Harry Belafonte seduto sul trono di vimini di Huey
Newton a raccontare un linciaggio sudista.
Il pretesto è l’assurda
storia (vera) del primo agente afro americano nella bianchissima
polizia di Colorado Springs (John David Washington – figlio di Denzel)
che si infiltra in una cellula del Ku Klux Klan. Il razzismo «vintage»
punta però dritto agli attuali titoli dei giornali dato che come ha
dichiarato il regista: «Il nostro mestiere di filmmaker ci impone di
collegare il presente al passato. Ciò che sta accadendo oggi non è
uscito dal nulla. Occorre ritornare a quanto avvenne negli anni Settanta
e molto prima ancora . È il momento di andare a lezione di storia».
Un’invettiva
satirica dunque contro l’America vomitata da Trump e un film che crea
un intenzionale cortocircuito fra i fantasmi suprematisti della cattiva
coscienza nazionale e le intemperanze fascistoidi dell’attuale rigurgito
eugenetico. Spike utilizza il registro grottesco (non a caso il
produttore è Jordan Peele di Get Out) per il suo film più sperimentale e
torna alla forza di Do The Right Thing. Un cinema militante tutto «del
momento», una simmetrica controparte fiction al Fahrenheit di Michael
Moore che conclude sulle vere e agghiaccianti immagini di
Charlottesville – la strage neonazista avvallata da Trump. E Spike Lee
ha voluto che il film uscisse nelle sale americane n America nel primo
anniversario esatto di quei fatti. BlacKKKlansman in Italia arriverà in
sala giovedì prossimo. Abbiamo incontrato Spike Lee tra Cannes e Los
Angeles.
Era importante uscire nell’anniversario di Charlottesville?
Quando
abbiamo iniziato a pensare al modo migliore per distribuire il film, ci
siamo messi d’accordo per la partecipazione al Festival di Cannes. Poi
ho guardato il calendario e mi è sembrato giusto essere in sala per
quell’anniversario. Non è stata una decisione di marketing, l’idea era
soprattutto rendere omaggio a Heather Heyer, che quel giorno ha perso la
vita, e ricordare cosa è successo quel weekend di razzismo. È stato un
omicidio e abbiamo un tizio alla Casa bianca – nemmeno voglio dire il
suo nome – che in un momento cruciale, non solo per l’America ma per il
mondo avrebbe potuto dire che la nostra nazione sceglieva l’amore invece
dell’odio. Ma quel fottuto stronzo non ha denunciato il fottutissimo Ku
Klux Klan, la alt-right e nemmeno i fottuti nazisti! La nostra
cosiddetta democrazia: tutte palle. Gli Stati uniti sono stati costruiti
sul genocidio dei popoli indigeni e sulla schiavitù. Questa è la stoffa
dell’America. Va bene credere nella speranza ma mica siamo sordi o
ciechi. Penso che si possa avere speranza e allo stesso tempo essere
consapevoli di quanto sta accadendo.
È quasi come se dicesse che il cinema può fare di più che semplicemente incassare al botteghino…
Perché
non è possibile puntare a entrambe le cose? Io ho avuto la fortuna di
realizzare film che a volte, oltre ad ottenere un risultato commerciale,
hanno forse arricchito positivamente chi è andato a vederli.
Definirebbe «BlacKKKlansman» un altro film sull’America?
Non
l’ho fatto perché venisse visto solo negli Stati uniti, uscirà in tutto
il mondo e ciò di cui parla è un problema che riguarda il nostro
presente. L’estrema destra è un fenomeno che sta dilagando ovunque. E
spero vivamente che gli spettatori che vedranno BlacKKKlansman nei
propri paesi lo capiscano, spero che possa scuotere la gente dal
torpore.
Alcuni lo paragonano a «Do The Right Thing».
Quando
feci Fai La Cosa Giusta, una delle critiche che mi è stata mossa era
che il film non proponeva una soluzione al razzismo. Innanzitutto non
sono io ad avere la risposta, né allora né oggi. Non era questo
l’obbiettivo del film. L’idea era piuttosto di stimolare la discussione,
ed è lo stesso anche stavolta. Ci sono troppe persone che si muovono in
una specie di frastornamento, come se fossero drogati. È uno stato
comune, le persone sembrano impazzite, non riescono a ragionare. Perciò è
il momento di alzare al voce, di farsi sentire. Non possiamo girarci
dall’altra parte, far passare questo tipo di cose quando sappiamo bene
che non è giusto. Conosciamo la differenza fra giusto e sbagliato. E
quando il male ti fissa negli occhi e tu stai zitto allora – ne sono
convinto – significa che stai aiutando il nemico. Il mondo è sottosopra,
il falso viene spacciato per vero. BlacKKKlansman parla di questo e so
che siamo dalla parte giusta della storia.
Secondo lei il cinema nero in America sta attraversando un momento particolarmente vitale?
Black
Panther, il film di Ryan Coogler, ha cambiato tutto. Però il fatto è
questo: quando uno studio fa il budget per un film una delle voci
principali è quella che riguarda la fruibilità internazionale. Per anni è
passata la bugia che i film afro americani all’estero non funzionano.
Così quando cerchi i finanziamenti ti assegnano un budget che ha zero
per la distribuzione internazionale – e i soldi non bastano a produrlo.
Se poi per caso funziona ti dicono: «Ma quella era un eccezione». Black
Panther quesra teoria l’ha demolita, adesso faranno fatica a dire che un
cast afro americano non può attirare pubblico.
Perciò possiamo parlare di un rinascimento nel cinema black …
Si
ok, ma il fatto è che succede ogni dieci anni. E allora il mio telefono
comincia a squillare e a essere inondato di domande sul maledetto
rinascimento del cinema nero (ride, ndr). Dopo però ci sono altri nove
maledetti anni di carestia. Io dico sempre che per rompere il circolo
vizioso bisogna cambiare il sistema, gli afro americani devono entrare
nelle posizioni chiave dell’industria. Il Paese è cambiato, per dio! Non
sono io a dirlo è il censimento! Basta guardare stati come la
California dove i bianchi sono già in netta minoranza. Quindi, anche se
sei un razzista, non vuoi piazzare lo stesso il tuo prodotto sul
mercato? Mi sembra logico mirare anche alla maggioranza e, per questo,
assumere una forza lavoro che rifletta le trasformazioni. Invece abbiamo
«Agent Orange» coi suoi muri e le deportazioni, i bambini separati
dalle madri. Il tempo avanza e la gente vuole tornare al passato.
Cosa dobbiamo fare?
Credo
che la cosa più urgente sia andare a votare. Le elezioni midterm sono
dietro l’angolo e vorrei dire agli americani: «Se non vi sono bastati
gli ultimi due anni come incentivo, per correre alle urne non so cosa
potrebbe motivarvi». Credo anche che otto anni di presidenza Obama ci
hanno resi compiaciuti, era come se fosse potuto rimanere per sempre,
invece si è aperto uno spiraglio in cui è scivolato «Agent Orange». È
stata – chiaramente – la reazione precisa di una parte degli americani a
Obama, a un presidente nero nella Casa bianca. «Agent Orange» l’ha
usata come una strategia di marketing ed eccoci qua.
Cosa la spinge ancora a lavorare?
Ogni
film che ho fatto negli ultimi trent’anni lavora su un soggetto che
volevo affrontare in un preciso momento. La mia motivazione è la stessa
che avevo da studente a scuola di cinema: raccontare delle storie. È un
dato che non è mai cambiato come sono sempre uguali la mia energia e
l’entusiasmo che ho nel fare ciò che amo. Lo dico sempre agli studenti
del mio corso alla New York University: ogni volta che riuscite a
guadagnarvi la vita facendo ciò che davvero amate siete fortunati perché
la maggior parte della gente a questo mondo sbarca il lunario odiando
il lavoro che fa per tutta la vita.