sabato 15 settembre 2018

il manifesto 15.9.18
Kierkegaard, un intreccio fra umano e divino
Filosofia. «Ogni cosa ha il suo tempo», a cura di Giulia Longo, per Mimesis
di Alberto Giovanni Biuso

In un appunto del 1846 – per la prima volta tradotto in italiano da Giulia Longo in Ogni cosa ha il suo tempo: il ‘nodo dialettico’ kierkegaardiano tra ‘edificante’ e ‘ripresa’ (Mimesis, pp. 287, euro 26, presentazione di Eugenio Mazzarella, con scritti inediti del filosofo) – Kierkegaard afferma che «da molto tempo ho pigramente rinunciato all’umanità sebbene o proprio perché l’ho studiata a fondo». Si può forse partire da questo filo per seguire il modo in cui l’autrice conduce il suo percorso cronologico e teologico dentro il complesso gomitolo che la persona e il pensiero di Kierkegaard sono stati.
SE QUESTO SCRITTORE è in qualche modo un unicum dentro il pensare cristiano è anche perché il suo essere «autore religioso dal principio alla fine» non ha a che fare con rigorosità luterane o clemenze cattoliche ma con l’«onestà» da lui più volte rivendicata.
Onestà che lo conduce al nucleo teoretico rappresentato dal tempo come questione inestricabilmente umana e divina. Kierkegaard si chiede infatti sino a che punto dei mortali possano parlare dell’eterno, possono averne un’idea. Per noi infatti «ogni cosa ha il suo tempo». Questa formula del Qohélet è per Kierkegaard la sentenza fondante che edifica il mondo poiché «contiene al suo interno tanto il rimando alla temporalità (Timelighed) quanto l’accenno alla e della eternità (Evighed) posta nel cuore di ciascuna stessa cosa».
LA TEMPORALITÀ edificante diventa in se stessa ripresa in quanto movimento che procede in avanti sul fondamento di un ricordare che incide assai più sul futuro di quanto possa fare nei confronti del passato. L’apertura heideggeriana all’avvenire, inteso come scaturigine del presente e dell’essere stato, ha qui uno dei suoi fondamenti. Allo stesso modo, una delle fonti della concezione dell’esistenza quale ‘essere alla morte’ è la meditazione kierkegaardiana che vede nella morte «il più grande pensatore», la cui eloquenza non ha concorrenti nell’evidenza ogni volta ripetuta della propria verità. La radicalità di questo pensare rischia in Kierkegaard di diventare paradossale. In suo nome, infatti, il filosofo cristiano si allontana sia dalla Chiesa sia dalla filosofia.
LA CHIESA DI STATO danese viene accusata in modo netto e ripetuto di costituire una «cristianità» che sarebbe l’esatto contrario del «cristianesimo», tanto da giungere alla constatazione che «il Cristianesimo del Nuovo Testamento non esiste più». Affermazione analoga e insieme diversa rispetto alla constatazione nietzscheana per la quale «in fondo è esistito un solo cristiano, e questi morì sulla croce. Il ‘Vangelo’ morì sulla croce. Ciò che da quel momento è chiamato ‘Vangelo’ era già l’antitesi di quel che lui aveva vissuto» (L’anticristo, § 39). A che cosa è servita la critica kierkegaardiana? Longo riconosce che «oggi in Danimarca le chiese sono pressoché deserte. Viene da chiedersi se le kierkegaardiane «acrobazie con la camicia di forza» siano valse a qualcosa, o se non si siano rivelate, anch’esse, vanità e fatica inutile».
PER QUANTO RIGUARDA la filosofia, secondo Kierkegaard la «Verità» è troppo esaltata dal pensiero moderno, sino a diventare qualcosa di gelido. E tuttavia domandiamoci che cosa potrebbe sostituire la filosofia: l’onestà, un testo sacro, un pensiero interamente religioso?
A Kierkegaard è forse lecito chiedere soltanto frammenti di risposta. Di questi frammenti sono parte l’«educazione al distacco» che lo scrittore esercitò in particolare, ma non solo, con la fidanzata Regine; il riconoscimento rivolto al paganesimo di essere stato – nonostante tutto – «l’unica grande evoluzione della storia universale» e ai Greci di essere sempre rimasti la sua «consolazione»; l’esatta intuizione per la quale «il tempo proprio dell’eterno è essenzialmente differente rispetto al tempo del mutevole, del corruttibile, piagato dall’annosa ‘saggezza degli anni’. Ove questo, e ogni cosa in esso, ha il suo tempo, l’eterno ha sempre tempo».
Una complessità paradossale, edificante e ripetuta intesse di sé anche l’andamento teoretico e lo stile di questo libro, nel quale sembra davvero di sentire l’«euritmia argomentativa» di Kierkegaard.