il manifesto 14.9.18
Guido Ceronetti, un asceta sedotto dall’inferno
ADDII.
A 91 anni è morto nella sua casa di Cetona il poeta, filosofo e
drammaturgo, nato a Torino nel 1927. Col «Silenzio del corpo» aveva dato
l’immagine compiuta di sé, nello sfrangiarsi. Dopo, solo l’abisso. Fu
anche traduttore di Marziale, Catullo, Giovenale con versioni che
somigliavano a riscritture degli antichi
di Raffaele Manica
Pieno
di imperfezioni, di manie e di humour, ferito e senza il dono
dell’illusione, come lo vide Cioran in uno dei suoi Esercizi di
ammirazione, non si crede che, scomparso ieri a novantuno anni, Guido
Ceronetti sia diventato infine un maestro, se non per una schiera di
affezionati suoi lettori, per i quali maestro era da sempre.
Radicalmente mite e mitemente radicale, fragile e forte insieme, la sua
figura – per eccellenza antimoderna e naturalmente aristocratica nel
pensiero – è stata variamente controversa e controcorrente: un inattuale
che scriveva per i giornali trovando misure irreplicabili per
originalità (ma variamente quanto goffamente imitate). Ceronetti ha
camminato nel nostro secolo al modo di un flâneur che coglie nel corpo i
segni dell’anima e nel pensiero i sintomi del corpo.
QUESTO
DICEVA IL LIBRO che lo fece incontrare con molti suoi lettori dal 1979
in poi, Il silenzio del corpo: un libro del sintomo e del segno,
indicatore di un’introspezione portata a diventare visione del mondo.
Scriveva Cioran (1983) che il libro era emanato «da un’esigenza di
purezza» e attestava «un gusto innegabile per l’orrore» e che dunque
Ceronetti poteva dirsi «un eremita sedotto dall’inferno. Dall’inferno
del corpo. Segno certo d’una salute precaria, anzi minacciata: sentire i
propri organi, esserne coscienti fino all’ossessione. La maledizione di
trascinarsi dietro un cadavere è il tema stesso di questo libro. Da un
capo all’altro – una sfilata di segreti fisiologici che vi riempiono di
sgomento». E ancora: «Leggendo Il silenzio del corpo ho pensato più
volte a Huysmans, in particolare alla sua biografia di Santa Lydwine de
Schiedam. Salvo per l’essenziale, la santità dipende dalle aberrazioni
degli organi, da una serie di anomalie. Nessun eccesso interiore senza
un substrato inconfessabile, dato che l’estasi più eterea ricorda per
certi aspetti l’estasi bruta» (non si vorrebbe mai andasse smarrita la
suprema ironia – nel pozzo del tragico – sia di Cioran sia di Ceronetti:
«Salvo per l’essenziale, la santità dipende…», come era tra laude e
ironia l’esergo del volume, da Paolo ai Corinzi: «glorificate Dio per
mezzo del vostro corpo»).
CERONETTI, col Silenzio del corpo aveva
dato l’immagine compiuta di sé, nello sfrangiarsi. I libri venuti dopo
sono il perfezionamento di quell’abisso, la varia specificazione di
questi «materiali per studio di medicina», con bilanciamenti di diversa
indole e disperatamente sereni, a cominciare dai Pensieri del Tè (1987):
saggi, aforismi, perforazioni. Ci si può immaginare Ceronetti, «salvo
l’essenziale», in una zona del nostro Novecento tra Manganelli e
Testori: visionari con regolari accensioni di stile, febbri
intermittenti, lucidità scoraggianti, sarcasmi, Dio e Nihil. La zona è
quella. A chi appartiene dei tre un passaggio come questo? La citazione è
un po’ lunga, ma è piena di indizi: «In gioventù ho detestato Sciltian,
alfiere accademico, calligrafo maniaco, poi non ci ho più pensato,
vistone di rado qualcosa; era quasi del tutto dimenticato. Pensavo di
fargli un’intervista, proprio perché personaggio così polveroso e venuto
di lontano, violino di chissà quanti ricordi, e di cercarlo a Roma,
dove abitava. Le idee io non le piglio dal computer: questa mi era
venuta da un cappello. Anzi ma un mare di cappelli. Tutti di
Alessandria. Tutti Borsalino. Ecco una cosa che i più arganici critici
d’arte ignorano: Gregorio Sciltian ha sempre portato il cappello. ’Da
cinquant’anni porto cappelli Borsalino’ dice in una lettera datata 5
dicembre 1984, che mi è stata mostrata in un fluire mitissimo di feltri.
Memoria di ferro: ricordava esserci una pittura sua, del 1929, di
proprietà della Borsalino, e la richiedeva al suo attuale Presidente per
una retrospettiva, o per riprodurla in uno di quei volumi d’arte che
vanno in strenna agli industriali con cui si è sofferta una Colazione di
Lavoro, agli urologi dopo una prostata finita bene, a volte ai
Pontefici, in cambio di una mezzaluna benedetta. Lo Sciltian era stato
comprato da Teresio Borsalino quando l’artista aveva studio a Parigi. Il
grande Borsalino aveva pagato, signorilmente, in cappelli e Gregorio
gli aveva dato un quadro con cappelli, certamente Borsalino».
Rinunciando
al gioco delle tre carte, si tratta di una pagina di Albergo Italia
(1985), non proprio un altro volto di Ceronetti, ma il completamento
della sua Hilarotragoedia. E, a proposito di interviste, indimenticabili
le Interviste impossibili di metà anni settanta per la radio ad Attila,
George Stephenson, i fratelli Lumière, Jack lo Squartatore e,
nientemeno, a Pellegrino Artusi, che ci si sarebbe aspettati di mano di
Manganelli: ma la scelta degli intervistati è tutta singolare, forse
antifrastica rispetto all’intervistatore. Anche da qui si può vedere
come Ceronetti, con parole ancora di Cioran, avesse «tentazioni
contraddittorie» e dunque «un debole evidente per il marciume» ma anche
per «ciò che vi è di puro nella saggezza visionaria o disperata
dell’Antico Testamento».
MA QUANTE COSE ha fatto questo asceta:
uno sbircia il risvolto di Albergo Italia e legge un’informazione che
non può non essere di mano dell’autore: «Guido Ceronetti, dilettante,
traduce, sempre in versi, antichi testi di rivelazione e di poesia».
Traduttore dal latino di Marziale, Catullo, Giovenale con versioni così
particolari da somigliare a riscritture degli antichi, con rifacimenti
in soggettiva che potevano non piacere per vari motivi: non dediti al
culto della bellezza ma della sostanza, erano tuttavia di una loro
segreta fedeltà agli originali (chi ha già visto il suo Orazio riferisce
di una felice soluzione dell’enigma del tradurre). Sia detto con una
formula da riportare a postura non consunta: nascevano dalla necessità
di incontrare altri tempi e altri spazi, servendosi di una libertà di
lettura sempre in atto e che stavolta aveva preso consistenza nel
tradurre poesia, come altre volte in cose e fatti. Quasi allo stesso
modo si presentavano, ma con più incantamento e meno conflitto, le sue
versioni dai libri poetici o terribili della Bibbia: Salmi, Qohèlet,
Cantico dei Cantici, Giobbe, Isaia.
LE DUE SUE PASSIONI profonde:
la poesia praticata per tutta la vita e consegnata a un volume già
riepilogativo nel 1987, Compassioni e disperazioni, al quale si sono
aggiunti vari séguiti e riepiloghi, come La distanza (1997); e il
teatro: dal 1970 in poi parte della sua vita è dedicata al Teatro dei
Sensibili e alle sue marionette. Viaggiò, infine; soprattutto in Italia:
un resoconto è Un viaggio in Italia (1983) dove è più manifesto il
desiderio di presentarsi quale scrittore satirico. Il senso di questo
viaggio è in Albergo Italia: «Un albergo del malessere del fastidio e
dell’insonnia. Qua e là, sempre più, dell’ansia, della paura. Ma ha il
fascino dei Grandi Alberghi declassati, con le lapidi che ricordano i
soggiorni degli Imperatori e dei musici; e poi è il mio»; e continuava:
«Tutti frequentano frenetici l’Estero; i più dei miei viaggi io li
faccio su e giù per questo albergo dove compensi al malessere e alla
vergogna sono una quantità di angoli immaginari, tante stanze non
occupate e senza numero sulla porta»: una bella similitudine, adesso,
per la sua opera.
*
SCHEDA: Teatro dei Sensibili in appartamento
Il
Teatro dei Sensibili è un teatro di appartamento, fondato nel 1970 da
Guido Ceronetti e dalla moglie Erica Tedeschi nella loro abitazione di
Albano Laziale, che si caratterizza per l’uso delle marionette ideofore
cui l’attore dà voce e corpo. Riservato a pochi intimi – tra cui Eugenio
Montale, Guido Piovene, Valentino Bompiani, Buñuel e Fellini -, nel
corso degli anni è divenuto itinerante, pubblico dal 1985. Tra i primi
spettacoli il Macbeth (anni ’70, in appartamento) e «Lo Smemorato di
Collegno».