venerdì 14 settembre 2018

Il Fatto 14.9.18
Il funambolo snodabile con l’allergia per l’ovvio
È scomparso a 91 anni Guido Ceronetti
di Pietrangelo Buttafuoco


Avolte uguale, col Tragico tascabile, a uno dei tanti schizzi sfuggiti ai taccuini di Federico Fellini – poliforme, polifonico e plurale – fu, con Insetti senza frontiere, come persona del Dramatis Personae di un Ermanno Cavazzoni o come fantasma di un Eugène Ionesco. Sgamato nell’anagramma “Ugone da Certoit”, scambiato spesso per un cappello o, manco a dirlo, per Geremia, in virtù del suo stesso pseudonimo “Geremia Cassandri”, l’uomo Ceronetti – in carne e ossa, in vestaglia, occhiali e camicie spiegazzate – fu sempre se stesso fino a diventare un genere, un modo e un’unica maniera.
Sempre abile a sciorinare le taglienti sentenze della sapienza, al punto di rintuzzare schifato chi prendeva a calci la bara di Erich Priebke (e sempre a dispetto delle noterelle a margine nei convenevoli di società; meno che mai quelli della società letteraria) fu solo, e sempre nella lucente solitudine del pezzo raro.
Scrittore, che fu anche poeta – squillante apostrofo, tra le prime firme nell’accigliata verve brezneviana de La Stampa, il quotidiano della sua Torino – ebbe l’acume del filologo nel virtuosismo del cesello.
Così nel ruolo del biblista (senza tema di sfigurare col cardinal Martini), quindi da traduttore di Catullo – esegeta dell’aura latina in ogni propaggine, perfino la santa messa di San Pio nel rito amato da Cristina Campo – e poi da notista, da editorialista e per svelarsi definitivamente attore. E sempre presente a se stesso.
Quattro giorni fa ha avuto impartito il consalamentum, l’estrema unzione della tradizione. Ancora prima – guadagnando il traguardo del tribolo, issando lo sfibrarsi dei suoi 91 anni su un deambulatore – ha come spento, una dopo l’altra, le luci della ribalta per ogni urto al cuore, per ciascun focolaio ai bronchi, e ai polmoni, e arrivare smarrito – ma presente a se stesso – al sipario dell’ischemia. Nel copione chiamato destino. Quello stesso titolo, il destino, cui rivolgeva l’inchino svelando il perché recondito del suo estremo dasein – l’essere lì, a Cetona, nelle colline senesi – senza soldi ma ricco dell’ammirazione altrui. E sono sempre a gratis i complimenti verso gli scavalcamontagne cui non manca immaginazione e voce (e colore) per fabbricare e animare le marionette nel teatro domestico, come faceva lui offrendo agli amici l’irripetibile e già perfetto istante dell’arte.
Attore, appunto. Puparo, a voler precisare, raccontatore dell’illimitato nel limite circoscritto di tinello e cucinino, assistito dalla moglie Erica Tedeschi – il suo Teatro dei Sensibili – fu l’unico a inverarsi nell’epigramma del suo amato Marziale: “I versi sono miei ma se li reciti male, ecco, diventano tuoi!”. E fu tutto suo quel mondo – italianissimo e latinissimo – a sola sua esclusiva immagine e somiglianza. Sua l’invettiva sulle “menzogne nostre, italofone”. È scritto tutto nell’intervista rilasciata a Silvia Truzzi, andate a rileggervela nel sito del nostro giornale ed è eco di paroliberismi puntuti, taglienti, salvifici contro “bugie povere, senza grandezza, spurghi del pensiero unico che si maschera di anglismi, di sondaggi e di paraocchi economicoidi”.
Un formidabile ritratto – leggetelo! – in un tribolo di messa in scena: “Nessuna verità, neppure un quartino, mai”. Eco di Dostoevskij, di Florenskij, di Bernardo da Chiaravalle, tanto è forte il tamburo di Dio in quel petto fatto di frale cartamusica.
Un contrappunto alla sepolcrale rigidità giacobina fu il suo Un tentativo di colmare l’abisso, l’epistolario con Sergio Quinzio, edito da Adelphi; fu artigiano nel tagli e cuci tutto suo di personaggi, appunti, registrazioni e scarabocchi, oggi eredità materica presso l’Archivio Prezzolini a Lugano.
Sua fu La Buca del tempo: la cartolina racconta.
E tutta sua, infine, fu – malgrado il reclutamento giovanile nella caserma editoriale Einaudi – la sua inadeguatezza alla tensione mondana. Il suo specchio, ben più delle stucchevoli comparazioni con autori alla moda, fu il conte Guido Piovene di Valmarana, l’autore del Viaggio in Italia cui Ceronetti – officiando una sincera amicizia – prese in prestito il canone al costo di un vero e proprio plagio con Un viaggio in Italia per ripercorrere nel 1983 lo stesso tour, compiuto in tutti i modi, con tutti i mezzi e tutte le bestemmie ma per lasciarci, nel confronto, le penne. E ancora una volta col gusto dell’attore. A fare, insomma, il servo di scena per il signor conte. Al modo dei guitti. Sempre lunari, snodabili al punto di rintanarsi tra le nuvole. Nel tutto e nel niente.