Corriere 14.9.18
Il colpo di Panatta (in Rete)
Il suo cameo in un film è virale
«Non conservo a casa i trofei, li ho persi tutti»
di Gaia Piccardi
«Ma
ti rendi conto? Passi la vita a giocare a tennis e poi un giorno ti
svegli e sei diventato come l’influenza d’inverno: virale...».
Il
re del web, nell’estate del pof pofche dal festival del cinema di
Venezia in poi ha incendiato i social, è un bel signore romano di 68
anni che pensava di aver dimenticato nel lontano 1976 — l’anno di grazia
degli Internazionali d’Italia, del Roland Garros e della Coppa Davis
strappata al Cile di Pinochet — le ragioni di una popolarità solida e
mai esibita, riparata all’ombra di un ciuffo morbido che pare appena
atterrato da una di quelle iconiche veroniche su cui poggia la leggenda
del figlio di Ascenzio custode del Tc Parioli, diventato Adriano Panatta
nell’arco breve di un indimenticabile triplete. Il suo cameo ne «La
profezia dell’armadillo», il film tratto dai fumetti di Zerocalcare,
diretto da Emanuele Scaringi e nelle sale da ieri, gira in Rete
scatenando gridolini d’entusiasmo («Chi l’avrebbe detto...»), applausi a
scena aperta («È il potere del web, oggi il mondo va così. Certo che mi
fa piacere») e paragoni importanti («Moretti? Troppa roba, non
esageriamo! Villaggio? Con Paolo siamo stati grandi amici tutta la vita
ma parlavamo pochissimo di film. Non volevo fare né imitazioni né
caricature»): il tennis come metafora della vita spiegato al sondaggista
avventizio nella scena dell’aeroporto di Fiumicino è un piccolo
capolavoro di ironia e disincanto, abiti di sartoria che Panatta indossa
a pennello da sempre. «Chi mi conosce, lo sa: io sono così. Ho recitato
me stesso senza finzione. Nella vita di tutti i giorni sono come mi
vedi sullo schermo. Anche il finale del discorso mi appartiene: non puoi
capi’...».
La richiesta è partita da Domenico Procacci,
produttore e amico dell’ex campione. Adriano faresti una particina?
«Anche no, grazie, ho risposto. Ma poi Domenico ha insistito, mi ha
spiegato il progetto, l’idea mi è piaciuta. Mi sono presentato sul set e
abbiamo girato. Cotto e mangiato». La tirata sui colpi armoniosi e
piatti come sinonimo di bon vivre contrapposti alla violenza distonica
dei giocatori moderni che badano soltanto al risultato, conclusa da quel
pof pofonomatopeico già entrato nel linguaggio quotidiano, è un misto
tra sceneggiatura e improvvisazione, un’arte che Panatta ha affinato
nelle sue mitologiche sfide con Bjorn Borg a Parigi. «Il tennis è una
musica che i tennisti di questa generazione, nati con le racchette di
carbonio in mano, non hanno mai sentito. Cosa vuoi che ne sappiano del
pof pof, dell’ammorbidire il dritto, di un bel servizio in slice a
uscire seguito a rete da una soffice volée, della poesia del tennis
giocato con le racchette di legno?». Niente. «Ecco, appunto. Infatti io,
se voglio passare due ore davanti alla tv a vedere uno che mi piace,
scelgo Roger Federer. Il migliore di tutti».
Panatta è appena
rientrato nella sua Roma da Treviso, dove vive con la nuova compagna. E,
ogni volta, è un tuffo al cuore. «Prima le buche, poi i cinghiali,
adesso pure i serpenti in pieno centro. Recentemente ho letto che Roma è
la capitale più sporca del mondo. Mi ha fatto male». Da romano, e da
buona forchetta, nel post carriera ha assaggiato anche la politica:
consigliere comunale nella giunta Rutelli (1997): «Vedere la mia città
ridotta così è un dolore. È vero che è difficilissima da governare: solo
il Tuscolano è grande come Firenze, cento comuni, una provincia
sconfinata... Però non credevo si potesse cadere così in basso». Se non
fosse stato all’estero, alle elezioni del sindaco avrebbe scelto
Giachetti. «Alle politiche non ho votato. Non mi convince più nessuno,
figurarsi i 5 Stelle». All’Accademia gestita dal fratello Claudio, dove
insegna il figlio Niccolò, ogni tanto Panatta scende in campo con il
nipotino Adrianino, 6 anni, primo figlio di Rubina bella come mamma
Rosaria: «Il mio erede? Macché — ride nonno Adriano —, dopo mezz’ora se
ne vuole andare. Alla racchetta preferisce le mini-moto: il suo idolo è
Valentino Rossi, altro che Adriano Panatta...».
Dice di non avere
paura di nulla, tranne dello spleen cupo della noia. Se gli chiedi che
fine hanno fatto coppe e trofei, strizza gli occhi come controsole,
evidentemente infastidito: «Non ho più niente, ho perso tutto. Meglio
così: l’idea di vivere in un salotto-museo mi fa inorridire». Smentisce
la favola del latin-lover, benché agli atti ci sia, ben prima del
matrimonio, Loredana Bertè: «Una cara amica». È l’estate del revival: la
Bertè in radio, Panatta al cinema. Il bilancio ti sorride, Adriano.
«Oddio, non sono ancora pronto per i bilanci. Chiamami tra due anni, a
70, se ci arrivo».