il manifesto 13.9.18
Nazionalismi all’attacco, da Est e da Ovest, l’onda nera contro la preda europea
Respinta
l'onda nera. Le frustrazioni dell’Est e dell’Ovest dirottate verso lo
spauracchio dell’immigrazione e di una élite cosmopolita ma non contro i
grandi capitali multinazionali
di Marco Bascetta
Dunque
il parlamento europeo, organismo eletto a suffragio universale, ha
finalmente battuto un colpo, questa volta di natura politica, contro
l’Ungheria di Victor Orban, stabilendo con ampia maggioranza che
nell’Unione non è consentito fare carta straccia dello stato di diritto.
Forse l’“onda nera” dei nazionalismi comincia a preoccupare davvero.
In
realtà ad abbattersi sulle estenuate democrazie del Vecchio continente
sono stati almeno due frangenti. L’uno proveniente dall’Est, l’altro
dall’Ovest. Hanno destato allarme e stupore i sondaggi che incoronano
l’Afd, la formazione nazionalista e xenofoba tedesca, primo partito nei
Laender della ex Rdt. Il fatto è che quelle regioni, nonostante
l’Anschluss del 1990, condividono non poco della propria esperienza con
gli altri paesi già appartenuti al blocco sovietico, perfino in forme
ancora più gravose. Non vi è dunque troppo da stupirsi se vi circolino
stati d’animo non dissimili da quelli che attraversano i paesi del
cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca,
Slovacchia).
Al miraggio del libero consumo, prima ancora che del
libero mercato, avrebbe fatto seguito un apprendistato piuttosto duro,
una condizione di disorientamento divisa tra la vendetta contro il
passato e il timore nei confronti di un futuro fuori da ogni reale
possibilità di controllo. I professorini dell’economia di mercato, i
demolitori del vecchio Welfare, i maghi delle privatizzazioni, volendo
bloccare sul nascere ogni transizione democratica favorevole ai più
svantaggiati, non avevano che la “patria” da offrire a quelli che di
fatto sarebbero diventati cittadini di serie B, scolaretti da ricondurre
a una nuova disciplina. Il capitale occidentale in tutto l’Est non agì
in maniera differente, sebbene più prudente e indiretta. Insomma qualche
sacrificio per il bene della patrie convertite al liberismo bisognava
pur farlo.
La pozione velenosa fu somministrata con successo e le
frustrazioni dirottate verso lo spauracchio dell’immigrazione e di una
“élite cosmopolita” identificata esclusivamente nelle deboli istanze
politiche sovranazionali, ma ben guardandosi dall’urtare la
suscettibilità dei grandi capitali multinazionali di cui con ogni mezzo
si cercava e si cerca il favore. Questa combinazione non poteva che
condurre a una generale ripresa del nazionalismo e della retorica
patriottica con l’evidente connotato patriarcale che anche
etimologicamente la pervade.
Che questa evoluzione dovesse entrare
in rotta di collisione con lo “stato di diritto”, peraltro logorato
dalle diseguaglianze crescenti e dalle “politiche di emergenza” che si
sono susseguite senza tregua in tutta Europa, era una circostanza
facilmente prevedibile. L’Ungheria di Orban e le altre “democrazie
illiberali” dell’est non sono il prodotto di un oscuro subconscio
continentale, ma di ben precise scelte politiche volte a garantire il
processo di accumulazione e il controllo occidentale sul disfacimento
del blocco sovietico. Così, nonostante la condanna del parlamento
europeo non sarà facile mandare sotto processo l’uomo forte di Budapest e
perfino metterlo alla porta del Ppe, maggioranza conservatrice e
ufficialmente europeista nel parlamento di Strasburgo. Le reazioni delle
“democrazie illiberali” non si faranno attendere.
Come gli umori
nazionalisti dei Laender dell’est si riflettono sugli equilibri politici
dell’intera Germania (il potere di ricatto del ministro degli interni
Seehofer sulla coalizione di governo lo testimonia sufficientemente),
così il nazionalismo ungherese, polacco, ceco, riverbera sull’assetto
politico dell’Unione.
Ma veniamo al secondo frangente. Quello che
ad est ha prodotto l’apprendistato al libero mercato, ad ovest è stato
opera della grande crisi dei debiti sovrani.
Soprattutto le più
indebitate economie meridionali si sono ritrovate in una condizione
analoga a quella dei cittadini della ex Ddr. Anche qui si trattava di
tornare sui banchi di scuola per imparare la dura disciplina del
risparmio e della sobrietà e anche qui bisognava farlo senza alterare
gerarchie sociali, rendite e profitti, salvaguardando la sacra legge
della concorrenza e dislocando dunque fuori dalla “patria” le cause di
ogni male.
Il nazionalismo nordico si fondava invece sulla difesa
della rendita dai “parassiti” del sud, dai cosiddetti “turisti del
Welfare” e sulla salvaguardia della propria posizione di mercato.
Sospingendo a sua volta fuori dai confini nazionali e dal proprio
modello di sviluppo contraddizioni e disagio sociale. In questi elementi
di conflitto risiede quell’inconsistenza dell’alleanza puramente
ideologica tra nazionalismi che, nella sostanza, coltiva il germe della
guerra di tutti contro tutti. Come si può agevolmente constatare non
appena sul tappeto vi siano questioni concrete. A partire dalle
politiche contro l’immigrazione che tutti sembrano accomunare e che
invece tutti dividono. Insomma, la “fortezza Europa” va prendendo la
forma di un ancor più soffocante mosaico di singoli fortilizi.
A
completare un quadro già fosco l’interesse dell’America di Donald Trump e
della Russia di Putin a utilizzare la leva nazionalista per disgregare
l’Unione europea, minarne la forza economica e cancellarne le
potenzialità politiche. Piluccando tra le miserie delle redivive
sovranità nazionali in competizione fra loro.
L’“onda nera” si
regge su un castello di menzogne e di false promesse, nonché sul
sostanziale antieuropeismo degli europeisti al potere prigionieri delle
proprie priorità nazionali.