venerdì 7 settembre 2018

Il Fatto 7.9.18
La favola occidentale che condanna Libia e Siria al caos
Miopie - Un premio per l’inadeguatezza politica a coloro che hanno pensato di risolvere i conflitti “gemelli” rimuovendo i rispettivi raìs
di Fabio Mini


Se si volesse essere onesti, per Libia e Siria si dovrebbe coniare una medaglia speciale dedicata all’inadeguatezza politica. Non a quella dei libici e dei siriani, ma a quella di tutti coloro che finora hanno provocato, sostenuto, favorito e combattuto per il cambio di regime dei due paesi. E tali candidati non sono né libici né siriani. In questi giorni i due paesi stanno vivendo l’ennesima fase parossistica di un processo apparentemente opposto, ma a ben vedere speculare: in Siria il regime di Bashar al Assad (più o meno sostenuto da Iran e Russia), tenta di riassumere il controllo del territorio nazionale facendo piazza pulita degli ultimi capisaldi ribelli, in Libia alcune forze ribelli tentano di fare piazza pulita dei governi fantoccio e fantasma voluti dalla cosiddetta comunità internazionale.
Libia e Siria sono due facce della stessa citata medaglia. La loro tragedia è iniziata quasi in contemporanea nel 2011 per volere dei Soloni della politica internazionale. In Siria si sono esposti, con responsabilità (ma sarebbe meglio dire irresponsabilità) gli Stati Uniti in ossequio a una sollecitazione israeliana; in Libia, sempre su sollecitazione e sostegno statunitense, si sono esposti i paesi europei (Unione europea, Francia, Gran Bretagna e Italia). L’abbattimento del regime di Gheddafi, al buio, senza soluzioni per il futuro, è stato il divertissement europeo che ha guidato l’opposizione interna siriana a passare dalla richiesta di riforme alla pretesa “non negoziabile” di eliminare Assad e al ricorso alla guerra dall’esterno. La favoletta che in entrambi i casi si trattasse di guerra “civile” e che gli interventi esterni tendessero a stabilizzare la situazione e a combattere il terrorismo islamico non ha convinto nessuno. Ma egualmente è servita a giustificare sia gli interventi armati sia gli eccessi da una parte e ogni altra. Mentre in Libia gli interventisti euro-transatlantici gioivano del “successo” senza avere nessun controllo del paese e nessuna strategia, il regime siriano traeva spunto dal disastro libico per definire il proprio scopo politico, la strategia e la tattica. Lo scopo: non fare la fine della Libia; la strategia: neutralizzare le iniziative statunitensi e internazionali affiancando ai sostenitori regionali come l’Iran (che in realtà era il pretesto principale dell’intervento americano) un alleato politicamente “intoccabile” con potere di veto alle Nazioni Unite. La tattica: dialogare con i curdi, concentrarsi sullo sforzo militare della repressione, sopportare le interferenze e gli attacchi israeliani e cedere la regia delle operazioni ai russi. La revisione geo-politica del sistema Siria sarebbe avvenuta solo dopo aver ripristinato il controllo governativo su tutto il territorio. E, a quel punto, non è scontato che la Siria sia disposta a cedere territorio ai curdi, ai turchi, agli iraniani e agli stessi russi.
L’attacco a Idlib, con tutta la sua drammatica componente umanitaria, tenta di avvicinarsi a questo risultato. Se fallisce e produce soltanto un altro massacro è a causa degli interventi esterni di coloro che dai tempi del defunto senatore McCain, con o senza l’adesione dello stesso governo statunitense, sostengono, armano e pagano ribelli, mercenari e jihadisti. In Libia non esistono più né istituzioni né strategie, ma solo lotta per la supremazia da parte di milizie asservite più o meno saldamente ai più disparati gruppi locali, alle multinazionali del petrolio e alle politiche pretestuose di Francia, Gran Bretagna, Italia e Usa. Ma anche in Libia c’è qualcuno che ha tratto beneficio dall’esperienza siriana.
L’intera regione di Bengasi è sotto controllo di una fazione libica che ha scelto come sponsor non disinteressato l’Egitto del generale Al Sisi con l’idea di ripristinare in Libia un regime autoritario. Ma non come quello di Gheddafi, isolato e avulso dal contesto continentale, ma come quello di Assad che è riuscito a neutralizzare gli oppositori internazionali consegnandosi a un grande alleato. L’Egitto si ritiene un grande alleato e tramite il sostegno degli Stati Uniti e dell’Europa pensa di avere un ruolo determinante negli affari africani e mediorientali. Di fatto, in Libia, gli egiziani hanno già pronto il generale Haftar che se ne frega della democrazia sbandierata dalle Nazioni Unite, che mina dall’interno e dall’esterno ogni tentativo di stabilizzazione del paese e che ha promesso fedeltà all’Egitto e acquiescenza nei riguardi degli interessi economici europei e americani.
Oggi si pensa che il caos libico sia irrimediabile a causa delle molte fazioni locali in gioco. È vero fino a un certo punto. Il caos è destinato a permanere all’infinito se non cessano le pressioni e le mire egemoniche esterne. Paradossalmente sarebbe più facile convincere i vari signori della guerra e le tribù militanti della necessità e dei vantaggi di un accordo nazionale se Al Sisi e Haftar non facessero parte del gioco. Purtroppo, i paesi europei e americani responsabili dello sfascio libico attuano una politica opposta. Mentre a parole fanno sfoggio di sostegno al governicchio di Al Serraj (che non rappresenta nessun libico) strizzano l’occhio e baciano le mani agli egiziani e allo stesso Haftar. Meritano pienamente la medaglia.