Il Fatto 25.9.18
La guerra civile spagnola diventa “fiction”
di Massimo Novelli
Al
tempo della storia-fiction, tutto è possibile. Dunque Marcello Simoni,
recensore su Tuttolibri-La Stampa di L’ultima carta è la morte, romanzo
di Arturo Pérez-Reverte, può dire che la guerra civile di Spagna 1936-39
fu un “contrasto tra fronte nazionale e quello repubblicano, di
ispirazione marxista”.
Non fu proprio così. Lo storico Leo
Valiani, che quella guerra combatté con le milizie antifasciste,
scriveva che la legittima Repubblica spagnola, aggredita dai golpisti di
Francisco Franco con il sostegno di Hitler e di Mussolini, “aveva
identificato le sue sorti con le idee del liberalismo, della democrazia,
del socialismo”. Tanto che Franco “fu costretto a dichiarare subito che
guerreggiava contro tutte queste idee universali e in favore di idee
opposte, autoritarie ed oligarchiche”.
Valiani, che non fu
comunista, bensì socialista, azionista (Giustizia e Libertà) e quindi
radicale-repubblicano, affermava queste cose nel 1942. Della tempra di
Valiani era Carlo Casalegno. Pur non andando in Spagna, fece la
Resistenza con Giustizia e Libertà; vicedirettore de La Stampa, finì
assassinato dalle Brigate Rosse. Adesso, sullo stesso giornale di
Casalegno (e di Norberto Bobbio, di Alessandro Galante Garrone, di tanti
altri amici di quel Renzo Giua caduto da antifascista in Estremadura), è
lecito parlare della guerra civile spagnola, anteprima dell’aggressione
nazifascista del 1939 al mondo libero, non troppo diversamente da come
veniva descritta dalla propaganda fascista e franchista: una guerra
“nazionale” e cristiana di civiltà contro la barbarie rossa. Presentare
la guerra di Spagna in tale maniera, tuttavia, non che è che l’ennesimo
esempio di come oggi la storia, sui giornali, in tv, nell’industria
editoriale, non sia più storia, ma fiction.
Esemplare è
l’accoglienza acritica, salvo eccezioni (come fu nel caso di Giorgio
Bocca), riservata ai libri di Giampaolo Pansa, campione della fiction
revisionista in chiave fascista.
Per lui i patrioti della guerra
civile italiana, o lotta di liberazione, non furono i partigiani, ma i
fascisti della Repubblica fantoccio: i cosiddetti ragazzi (e le ragazze)
di Salò, alleati dei nazisti. Nell’eterna zona grigia di questo Paese,
del resto, fanno cassetta, soprattutto dall’era Berlusconi in poi, i
“vinti” del nazifascismo: i brigatisti neri, le repubblichine, le spie,
le Ciano e le Petacci. La storia è travisata, le vicende individuali
assurgono a valore universale. Tutto può diventare fiction: chi uccideva
la libertà, i fascisti e i nazisti, in realtà era un patriota. E il
contesto storico annega nella mistica dell’azione per l’azione, come nel
libro di Pérez-Revert; affascina il mito della “bella morte” fascista.
Forse perché la morte nei lager nazisti e nelle galere di Franco, in
effetti, non fu altrettanto bella.
La fiction, il revisionismo
facile e spregiudicato, convivono con quello che si può chiamare
l’abbandono della storia. “L’abisso che separa ricerca storica e
revisionismo”, ha scritto lo storico Marco Labbate, “è solo
all’apparenza netto. Talvolta la frattura si colloca dentro la stessa
storiografia. È l’abisso che divide l’elaborazione innovativa della
Resistenza come simultanea compresenza di tre guerre (di liberazione, di
classe e civile), condotta da Claudio Pavone, dagli espedienti di
Pansa, che abbondano di quelle strumentalizzazioni della storia da lui
stesso condannate ancora all’inizio degli anni Novanta. Eppure il
passato di Pansa è quello di un discepolo attento ed efficace del metodo
storiografico: la sua è dunque la deliberata scelta di un abbandono”.
Un abbandono con fiction, naturalmente.