Il Fatto 22.9.18
Arezzo, le morti e il tempo ormai scaduto
di Tomaso Montanari
Morire
di patrimonio culturale. È terribilmente noto, oscenamente ovvio: in
Italia di lavoro si continua a morire. Ma nelle due morti dell’Archivio
di Stato di Arezzo c’è qualcosa in più: c’è la fotografia estrema e
inquietante del lavoro culturale in Italia. Un comparto dove la dignità
del lavoro è ancor più umiliata, dove la sicurezza è spesso del tutto
ignorata.
Saranno naturalmente le indagini a dire cosa è successo
all’impianto antincendio di Arezzo, a spiegare perché l’argon si sia
riversato non nei condotti, ma nella stanza delle bombole,
trasformandola in una letale camera a gas per Filippo Bagni e Paolo
Bruni. Dalle prime verifiche, l’impianto risulterebbe verificato nei
tempi prescritti, e la manutenzione regolarmente eseguita. Ma bisognerà
capire quali fossero le condizioni delle condutture, e di tutta la
struttura. Perché chiunque frequenti le biblioteche, gli archivi
pubblici e anche gli scavi e i musei (persino quelli più famosi), sa
bene in quale stato di prostrazione materiale essi si trovino: uno stato
– scrive la Cgil Funzione Pubblica – “derivante dai mancati
investimenti, dai tagli ai bilanci che hanno inciso sulle spese di
manutenzione ordinaria, e dalla insostenibile leggerezza con la quale si
bypassano le misure di sicurezza, in nome delle politiche di
valorizzazione”. Il sindacato rivendica: “Abbiamo denunciato,
inascoltati, gli effetti di politiche che hanno fortemente indebolito i
cicli di tutela e manutenzione del nostro patrimonio culturale, non
dobbiamo aspettare i morti sul lavoro perché questo tema diventi
centrale nella coscienza collettiva”.
Questo è il punto: il
patrimonio culturale sconta decenni di oblio, definanziamento, malcelato
disprezzo da parte della classe dirigente del Paese (la cosiddetta
élite che oggi si vorrebbe difendere). La stagione
renzian-franceschiniana non ha cambiato di una virgola questo triste
andamento, lo ha solo nascosto dietro una cortina fumogena di
storytelling e di marketing politico che ha indotto una stampa servile a
parlare di “rilancio” o addirittura di “rinascita” del patrimonio
culturale: tutte balle, purtroppo.
Era stata indettaper il
prossimo 6 ottobre, a Roma, ben prima del disastro di Arezzo, una grande
manifestazione per la cultura e il lavoro che oggi assume un’importanza
maggiore. Il larghissimo fronte di lavoratori della cultura che l’ha
indetta ha denunciato che “la riforma culturale, promossa dai precedenti
governi di ogni colore, si è servita di una stampa compiacente per
sciorinare dati relativi ad aumenti entusiasmanti di visitatori e
incassi, glissando sul netto peggioramento delle condizioni
professionali, sulla mortificazione delle competenze, sull’uso
indiscriminato di volontari, sulle continue richieste di lavoro
gratuito, sul progressivo smantellamento di istituzioni storiche,
sull’utilizzo improprio di teatri, siti archeologici e sale museali per
eventi mondani o privati che nulla hanno a che vedere con la cultura”.
La conseguenza è che “ogni anno migliaia di giovani professionisti della
cultura in Italia si trovano costretti a scegliere tra stipendi
indecenti e vergognosi, tirocini di sfruttamento, stage senza
prospettive, servizio civile, contratti a chiamata, volontariato,
rimborsi spese o il cambiare mestiere, o l’estero”.
Si chiederà, dalla piazza, una radicale inversione di rotta.
Alla
prima manifestazione di piazza per la cultura, il 7 maggio 2016, il
Movimento 5 Stelle partecipò con un suo striscione e una folta
rappresentanza di parlamentari. Oggi il Movimento ha conquistato il
ministero per i Beni culturali: tra incredibili riconferme di ceto
dirigente franceschiniano, e inconcepibili battute sull’abolizione della
storia dell’arte dalla scuola, si stenta a vedere un solo segno di
sostanziale cambiamento. Ma le morti di Arezzo, e il generale collasso
del patrimonio, ci dicono che ormai il tempo è scaduto.