Il Fatto 21.9.18
Chi offre di più? Il referendum macedone e la guerra dell’Est tra Ue-Nato e Cremlino
Contesa storica - Il Paese balcanico decide il nome ufficiale dopo anni di polemiche
di Michela A. G. Iaccarino
Meno
9, 8, 7 fino all’ultima domenica di settembre. Da oggi il conto alla
rovescia per il referendum è cominciato. C’è sempre meno tempo per
convincere i due milioni di abitanti a rispondere si a questa domanda:
“Siete favorevoli all’entrata nella Nato e nell’Unione europea
accettando l’accordo tra Repubblica di Macedonia e Grecia?”.
Se il
sì vincerà, Fyrom, ex repubblica jugoslavia di Macedonia, diventerà
Macedonia del Nord. È un nuovo battesimo concordato con Atene, per cui
Macedonia è il nome di una regione ellenica. Si decide il prossimo 30
settembre, dopo quasi 30 anni di disputa.
Cambiare nome al paese è
presupposto necessario per entrare in Europa e Alleanza atlantica e per
convincere i macedoni si sono spostati i pesi massimi della politica
prima delle urne. Manovre e riunioni operative, incontri in sequenza: la
prima a sfilare con giacca verde su tappeto rosso alla passerella di
Skopje è stata la Merkel. Il 17 settembre è arrivato in visita James
Mattis, segretario della Difesa statunitense. La campagna americana per
votare yes è poi veramente cominciata quando è toccato al segretario
dell’Alleanza Jens Stoltenberg. Complimenti per riforme economiche e poi
un messaggio diretto: “siamo pronti ad accogliervi nella Nato, le porte
sono aperte, ma dovete decidere voi di attraversarle, il futuro vi
aspetta”. Messaggio amplificato dal premier macedone Zoran Zaev: se non
vince il si diventeremo instabili, per il paese “non c’è una strada per
tornare indietro”. Anche l’Italia ha augurato un futuro benvenuto in
Europa al paese. Con strette di mano cordiali la ministra della Difesa
Elisabetta Trenta ha promesso aiuti e addestramento del personale
militare in visita nella Capitale.
Ma a spaventare l’Europa e i
filo-europei del paese è l’hashtag #boycott. Dietro le quinte, a
orchestrare la campagna di fake news, ci sarebbe sempre la stessa
faccia: quella di Mosca. Il peccato originale dei russi è sempre uguale:
la propaganda, che starebbero usando per evitare l’entrata dello stato
balcanico nell’Unione.
Il Congresso americano, già nel gennaio
2017, avrebbe stanziato 8 milioni per combattere la disinformazione
russa contro il referendum, dice una fonte anonima del New York Times.
Le interferenze di Mosca nel paese “agiscono con vari strumenti, a vari
livelli, ma la campagna dei russi non sta vincendo” ha detto
Stoltenberg. Per Micheal Carpenter, centro Diplomacy and Global
engagment, i russi pagherebbero ultras e motociclisti per alimentare
tensioni e scontri. Fonte dell’informazione: intelligence americana. A
luglio scorso anche Atene ha puntato l’indice contro Mosca e ha espulso
due diplomatici russi “per intromissione negli affari interni del paese”
perché tentavano di intralciare la fine della disputa con i macedoni.
Ma
non ci sono solo fake news di presunti troll russi, c’è anche il
presidente George Ivanov, che chiede di boicottare le urne, dopo aver
cercato di intralciare l’accordo con i greci dello scorso giugno, quando
i ministri degli Esteri di Atene e Skopje hanno trovato un compromesso
su nuovo nome per un nuovo e comune futuro europeo. La volontà di Ivanov
è quella dei nazionalisti di entrambi i paesi, scesi in strada a Skopje
quanto a Salonicco, dall’altro lato del confine. Anche l’opposizione
Vmro-Dpmne, democratici per l’unità nazionale, ha chiesto ai cittadini
di non andare a votare. Secondo gli ultimi sondaggi il quorum è a
rischio: solo il 30% dei macedoni si recherà alle urne in vista
dell’ingresso ufficiale nell’Unione nel 2025. Se vincerà l’astensione,
non si sa, ma se vincerà il no il tonfo della sconfitta arriverà
oltreoceano, fino a Washington.