Il Fatto 21.9.18
Dalla depressione ci salva la scrittura
di Francesco Musolino
A
cosa servono le storie? A proteggerci dalle tenebre, tenendo a bada le
paure mentre ci stringiamo attorno ad un fuoco. Dall’epoca dei
Neanderthal sino all’era del cloud non siamo poi così diversi dovendo
sempre fare i conti tre fobie basilari – il timore dei rumori forti, i
lampi di luce improvvisi e la paura di cadere. Ciò significa che tutti
gli altri casi sono residui di traumi o acquisizioni culturali, capaci
di far germogliare anche il male di vivere, quella depressione che in
Italia affligge quasi tre milioni di persone. A conti fatti siamo
diventati un popolo infelice.
Per nostra fortuna quelle medesime
storie che rendevano la notte più piccola, possono rivelarsi
taumaturgiche, persino capaci di rompere il mare ghiacciato dentro di
noi. Con questo spirito pionieristico, andando alla ricerca delle parole
necessarie, lo scrittore romano Andrea Pomella ha rotto gli indugi,
scrivendo un memoir per raccontare della sua malattia, il rapporto con
“la complessa cattedrale della depressione maggiore” ovvero “una
non-malattia il cui effetto era, per Teresa d’Avila, ‘di oscurare e
disturbare la ragione, cui non riesce a far arrivare le nostre
passioni’”. Pomella fa tabula rasa degli imbarazzi ammettendo di
soffrirne sin dalla tenera età, rievocando quel giorno in cui,
esasperato dalle insistenze materne, rispose che non sentiva null’altro
che un “frastornante, immoto silenzio”.
L’Uomo che trema (Einaudi)
è un libro spietato e delicato, un testo che dona confidenza ma esige
una piena attenzione. Una preghiera laica con cui Pomella – già nella
dozzina del Premio Strega 2018 con Anni Luce, add editore – si mette a
nudo, strappandosi dal viso la maschera del tabù occidentale della
malattia, ammettendo e raccontando la sua fragilità anziché nasconderla
con cortesia. Soffrendo di “una depressione ciclica anomala”
strettamente legata al rapporto controverso con il proprio corpo,
l’autore ricorre ad un tono diretto – attento a non scivolare mai nel
pietismo o nella facile autocommiserazione – per compiere un viaggio nel
tempo, zigzagando fra ricordi e piccoli episodi quotidiani, alla
ricerca delle cause del suo patire, richiamando il rapporto con il padre
e quella decisiva coazione all’abbandono, sospinto dal timore che lui
stesso possa un giorno rivelarsi un padre evanescente, persino nocivo.
Questo memoir deve essere inteso come un sipario strappato, la ricerca
delle parole come il fascio di luce di una torcia nel buio per provare a
spiegare quei momenti in cui l’autore si sente come “l’ultimo uomo
sulla terra e non c’è nulla intorno a te che abbia significato”. Ma è
possibile che il problema sia altrove. Nell’epistolario di Sigmund Freud
leggiamo che “nel momento in cui ci si interroga sul senso e sul valore
della vita si è malati, giacché i due problemi non esistono in senso
oggettivo”. Ecco, il depresso si dibatte per tutta la vita in un
“cortocircuito alimentato dal realismo – scrive Pomella – lucidamente
consapevole che la vita sia effettivamente priva di senso”. O per dirla
con le parole del Bardo, “La vita è un’ombra che cammina, un povero
attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa
più niente”. Niente, e così sia.