Il Fatto 20.9.18
Buona politica: ecco che serve per l’identità
di Gianfranco Pasquino
Da
qualche anno vado dicendo in giro che “sono un europeo nato a Torino”. È
un’affermazione solo parzialmente corretta che mira a comunicare quali
sono le mie preferenze: l’accentuazione della mia torinesità, che,
probabilmente, è l’elemento centrale, portante della mia identità, e il
proposito di costruire un’Europa politica con il consenso dei cittadini
di una pluralità di Stati-membri. Certamente, l’identità è fenomeno
troppo complesso per essere definito interamente e, meno che mai
apprezzato esclusivamente, nella sua componente, che esiste, nazionale.
Questa
è la componente sottolineata in maniera estrema, fra letteratura e
cibo, non solo nei suoi articoli sul Corriere della Sera, da Galli della
Loggia che la usa, non per la prima volta, contro una antica visione
della sinistra “internazionalista”. Quell’internazionalismo d’antan,
certamente criticabile, fu, però, dei comunisti, non dei socialisti e
neppure, ovviamente, degli azionisti. La maggior parte degli studiosi
contemporanei metterebbero in grande evidenza che l’identità è molto più
che “suolo e sangue”: è una costruzione sociale, politica, culturale
(non saprei dire in quale ordine che, pure, fa molta differenza) che
cambia, anche in maniera significativa, nel corso del tempo e che si
compone di una pluralità di elementi. Sappiamo da molte ricerche che
l’elemento politico, sia esso lo Stato oppure la Costituzione, non è
affatto centrale nell’auto-definizione della loro identità da parte
degli italiani. Incidentalmente, laddove non è forte l’identità politica
che si esprime anche nell’orgoglio delle regole e delle leggi e del
loro rispetto, è tanto improbabile quanto difficile che gli immigrati
sentano a loro volta l’obbligo politico e morale di rispettare regole
che vedono quotidianamente evase e violate dai cittadini. Altrove, come
negli Usa, è proprio il riferimento anche emotivo alla Costituzione a
costituire l’elemento fondante dell’identità, della cittadinanza. Più in
generale, si potrebbe aggiungere che la buona politica e i suoi
simboli, ad esempio, la monarchia e Westminster per gli inglesi, stanno
alla base dell’identità, della britishness e la rafforzano. Nel caso
italiano, già alquanto deboli in partenza, gli elementi più
specificamente politici dell’identità dei cittadini devono fare i conti
con aspetti culturali e sociali. I due sfidanti più agguerriti sono:
l’orgoglio per la grande cultura del passato, in particolare, da Dante
in poi, Rinascimento soprattutto (quando l’Italia politica era ancora
molto di là da venire), e il Bel Paese, il territorio, le sue bellezze
artistiche, i suoi monumenti. Stando così le cose, ci sono due
conseguenze importanti. La prima è che non è affatto facile produrre una
transizione di successo da un’identità basata su elementi culturali,
per di più con lontane radici nel passato, a un’identità politica, per
di più in un paese nel quale il vento dell’antipolitica, periodicamente
risollevato e aiutato da molti commentatori, soffia impetuoso. La
seconda conseguenza è che qualsiasi “patriottismo costituzionale”
orientato al cosmopolitismo deve essere costruito partendo da poco più
di zero. Non basta suggerirlo ed esortarlo, come ha fatto Tomaso
Montanari nella sua replica pubblicata sul Fatto, a una sinistra
confusamente poco europeista e che pratica il cosmopolitismo con
pregiudizi e in maniera alquanto approssimativa. Soprattutto, però, la
costruzione dell’identità non può mai essere “di parte”, vale a dire che
a nessuna parte politica può essere concesso di appropriarsene e meno
che mai di brandirla contro altre parti politiche. L’identità deve
essere inclusiva. Allora sì, diventa anche possibile spingere una
raggiunta identità nazionale verso un’identità europea, aggiuntiva e non
sostitutiva dell’identità italiana. Anzi, un’identità solida e
condivisa consente di svolgere senza riserve e senza remore un ruolo
attivo e incisivo sulla scena europea: non “prima gli italiani”, ma
“europei perché italiani”.