mercoledì 19 settembre 2018

Il Fatto 19.9.18
Partinico, caccia al nero che è in noi
C’è un’emergenza razzismo in Sicilia?
di Enrico Fierro


“Marocchini di merda, ve ne dovete andare a casa vostra”. È un venerdì di odio a Partinico. Davanti al bar “Yogo Loco”, quasi alla fine di Corso dei Mille e ultima tappa del mesto “struscio” serale, si riunisce una piccola folla urlante. Le voci si sovrappongono, la lingua sicula smarrisce la sua dolce musicalità per assumere i toni sordi della rabbia contro due ragazzi dalla pelle nera. Quale “colpa” hanno? Un furto? Uno sguardo di troppo a una ragazza? Una parola sbagliata? “Perché mi hai cacciato dal bar, non ho fatto nulla”, chiede inutilmente uno di loro. Il traffico è bloccato. Il fuoco della rabbia si mescola al sudore di una sera densa di umidità. Arriva la polizia, i due ragazzi vengono portati in commissariato: trattenuti fino all’una di notte. Nessun reato. Nessuna accusa. L’odio, almeno questa volta, non è esploso in atti di brutale violenza regalando alle cronache il racconto del terzo raid razzista in poche settimane, in questo paese di 30 mila abitanti, a 35 km da Palermo.
“Chi fa guerra di solito è un nevrotico. Quando si fanno guerre vuol dire che non si conosce la situazione da affrontare”
Partinico. Qui Danilo Dolci immaginò e diede corpo alle sue idee di pace, lavoro e solidarietà. Qui il Gandhi italiano impegnò tutto il suo tempo per il bene comune. Ma qui tutto è cambiato, Danilo Dolci oggi è solo il nome di qualche scuola. Partinico è Italia, e anche in queste terre il seme dell’intolleranza fa nascere alberi gravidi di frutti avvelenati. Due aggressioni ispirate da odio razziale sulle sei registrate in tutta la Sicilia da luglio a settembre. Per capire in quale terreno affondano le radici dell’odio bisogna girare, parlare con la gente, rileggere la cronaca anche minuta, e riconnetterli a un qualcosa di più generale. Tentare di comprendere dove, come, quando e perché anche la verità muore. È la storia del bambino “strangolato”. Agosto volge al termine, sui siti locali circola la notizia di un bambino aggredito. I niuri hanno tentato di strozzarlo perché voleva rubare una bicicletta. Il paese ne parla. La notizia si arricchisce di particolari falsi e terrificanti. I neri, dicono, avrebbero picchiato una donna incinta e, dominati da furia selvaggia, anche distrutto una casa. Alcuni politici si fanno inquadrare dalle telecamere mostrando una faccia severa. Il consigliere comunale ed ex candidato sindaco, Pietro Rao, si chiede “di che colore saranno le magliette in questo frangente?”. Sono inutili chiarimenti e spiegazioni. Neppure la mamma del bambino viene creduta. Eppure la donna è chiarissima in un post su Facebook. “Ragazzi calmatevi, tutto ciò che è stato scritto non è vero… il bambino in questione è mio figlio… conosce il ragazzo di colore, ha preso la bici per farsi un giro… il ragazzo di colore non si è permesso ad alzare un dito su mio figlio, naso rotto e pugni sono solo cavolate…”. Nessuno la ascolta.
“Anche noi cerchiamo di capire le ragioni di questa esplosione di intolleranza e violenza”, mi dice Cesare Casarino, animatore di Partinico solidale. “Dire ‘siamo diventati razzisti’ è troppo facile e scontato. Cullarsi nell’illusione della Sicilia come terra di antica accoglienza sarebbe un ingannare noi stessi. Oggi dirsi razzisti non è più una vergogna, aggredire un nero è quasi legittimo. Troverai sempre chi ti dice che hai fatto bene. C’è una ampia copertura politica, culturale, giornalistica, televisiva e social che avvolge, protegge e giustifica questi comportamenti”. L’albero dell’odio ha bisogno di poca acqua per crescere. Basta un giovane nero della Nigeria che un pomeriggio di luglio se ne va in giro per strada nudo, “con le vergogne” all’aria, come dicono qui, a far esplodere la rabbia. “Cos’altro dobbiamo vedere a Partinico? È arrivato il momento di chiudere tutti questi centri sociali dove si continua a fare business”, dice indignato il consigliere Giorgio Rao di “Salviamo Partinico”. Non sa nulla, ma versa litri di benzina sul fuoco. Perché anche in questo caso, la realtà racconta un’altra storia. Quella di un giovane arrivato in Sicilia con un barcone e diventato carne da sfruttamento. Lavora e cade da una scala: si porta addosso per giorni un trauma cranico e una emorragia cerebrale. È denutrito, disidratato, i valori sballati, è disorientato, non in grado di intendere né di volere. Perde il controllo di sé, si spoglia e corre nudo. Chi lo vede si scandalizza, ma prima filma col cellulare. La politica fa la faccia feroce. Nessuno prova pietà. La verità viene spazzata via dal vento di un razzismo bulimico di notizie false e gonfiate. E la macchina del tempo ci riporta indietro di 119 anni, a 9.044 chilometri di distanza da Partinico, nello sperduto villaggio di Tallulah.
Una tragedia raccontata, quella, da Enrico Deaglio nel bellissimo Storia vera e terribile tra Sicilia e America (Sellerio). Cinque siciliani di Corfù, contadini e fruttivendoli, vengono linciati e impiccati a ganci di macellaio. La loro colpa? Aver aggredito il medico del villaggio dopo un litigio. Il medico è morto, dice la voce di popolo, ma la notizia è falsa. È solo ferito, ma per nessuno fa differenza. I cinque vengono massacrati. Davanti a “una folla ordinata e calma, ma molto determinata”. La stessa folla, forse con identica determinazione, che il 26 luglio ha assistito al linciaggio di Dieng Khalifa, senegalese di anni 19. La sua colpa? Non avere colpe. Essere un nero, un underdog, un perdente, proprio come i siciliani di Corfù massacrati a “L’America”. Sta parcheggiando la sua bicicletta quando un uomo bianco, col tatuaggio che spicca sul braccio “Solo Dio può giudicarmi”, lo prende a pugni in faccia. “Negro di merda, figlio di puttana, che minchia vuoi? Venite qui a rubare il pane”. E giù botte, col ragazzo che non alza le mani perché così gli è stato insegnato nella comunità che lo ospita. E la folla. C’è chi guarda e non muove un dito, e c’è chi lo colpisce alle spalle. Nessuno interviene, nessuno collabora con i carabinieri. Il pubblico ministero prende atto dell’esistenza di “una diffusa e desolante coltre di omertà”. La stessa che ha tentato di coprire gli aggressori della notte di Ferragosto. Quella del raid contro gli africani della comunità “Mediterraneo”. Otto ragazzi che decidono di andare in spiaggia a Trappeto a festeggiare. Anche loro, come i “bianchi”. Ridono, scherzano, parlano. Non bevono, “la nostra religione vieta l’alcool”, ma sono le risate a non essere gradite a un gruppo di ragazzi del luogo. Volano schiaffoni. “Negri di merda, cosa ridete?”. I ragazzi chiamano la loro assistente in comunità, le chiedono di venire a recuperarli. Il furgone arriva subito, ma gli aggressori non mollano. Parte l’inseguimento di quattro macchine piene di uomini e donne. Giovani e anziani. Il furgone viene tamponato, bloccato, i ragazzi di colore aggrediti con mazze di ferro. Qualcuno tira fuori una pistola. Qualcun altro chiama Roberto, che porta con orgoglio la ’nciuria, il soprannome, di “Spavento”. Una ragazza cerca di impedire il linciaggio. La spingono via: “Addifenneri a nuautri”. Prima gli italiani. Per i “negri” solo mazzate.
Si tratta – scrivono i magistrati che arrestano sette persone, tutti bianchi e tutti gravidi di precedenti penali – di una “prolungata e selvaggia aggressione dettata da abiette finalità di discriminazione razziale e posta in essere con modalità brutali e ripugnanti”. “È quel sottoproletariato sempre sul confine tra legalità e illegalità, che sfoga rabbia e frustrazione sui più deboli, oggi i neri. Il dramma è che questi sceriffi rischiano di avere consenso tra la popolazione”.
Strade e vicoli pieni di “munnizza”, comune in pre-dissesto ma il problema sono i” niuri”
Giardini dell’arena Lo Baido. Qui si incontra “Partinico solidale”. “Vogliamo ribaltare lo slogan prima gli italiani e dire prima gli abitanti di questa comunità. Tutti, i bianchi e i neri. Abbiamo organizzato incontri in piazza dopo l’aggressione di luglio a Dieng, ora ripuliremo i giardini, tutti assieme, e ad arricchirli con una giostra per bambini”. Basterà? Si spera.
Partinico è una polveriera. Il paese, conquistato dalla destra, è in pre-dissesto finanziario. Per le strade cumuli di munnizza. In consiglio comunale è nato il gruppo della Lega di Salvini. Su 32 mila abitanti lavorano in 8.300 (il 73% nei servizi, pubblico impiego, soprattutto). I pensionati sono 8.603: 300 in più. Rosi Pennino è assessore ai servizi sociali. Viene dallo Zen di Palermo ed è una dirigente della Cgil in aspettativa. “Non si meravigli – mi dice – la sinistra siciliana dei Crocetta & company non mi diceva più nulla. Ho scelto di dare una mano qui, ma resto una sindacalista. Il razzismo è da condannare, ma l’accoglienza va fatta bene, altrimenti… Abbiamo 15 comunità e 300 ospiti. Il Comune dispone di una miseria: 5 mila euro come fondo per aiuti e sostegno alle persone bisognose. Le domande per il reddito di inclusione, per avere un’idea, sono 1.300. Siamo bloccati e io vorrei sapere cosa fanno le comunità, come spendono i soldi per integrare chi viene da fuori, per inserirli, per formarli al lavoro e al rispetto delle nostre leggi. Vorrei uscire dall’estremismo nefasto di Salvini e da un buonismo senza prospettiva”.
Sicilia, terra di accoglienza o desolata landa di razzisti? “E chi può dirlo? Siamo una pentola a pressione, quello che c’è dentro lo scopriamo solo quando scoppia”, ci dice Roberto Alajmo, autore del bel libro L’estate del ’78. “Si è data una patente morale a chi attacca il colorato. In Sicilia, il razzismo c’è ed esiste, la logica è quella del resto d’Italia, chi ha poco attacca chi ha meno. C’è un detto che spiega tutto: “Ora ca sugnu appujatu a sta cantunera, dimmi cu sugnu, nun mi diri cu era”: ora che finalmente mi affaccio a un balcone, dimmi chi sono, non mi dire chi ero. Non mi ricordare la mia povertà…”. Il nero ricorda ai siciliani miserie antiche, fame e discriminazione. Quella patita dai contadini massacrati a Tellulah nel 1899 e raccontata da Deaglio. Anche allora, scrive Deaglio, “nacquero brutte idee e presero a soffiare, a organizzarsi, a diventare potenti e paurose”. Tanti anni fa, ma sembra oggi. Sembra Italia, qui da noi.