lunedì 17 settembre 2018

Il Fatto 17.9.18
I “buchi neri” della Cina di Xi, dove spariscono i dissidenti
Imperialismo economico e politiche opposte al neo-protezionismo trumpiano, ma rimangono nella Repubblica popolare le violazioni dei diritti umani e, anzi, la repressione cresce
di Antonio Carlucci


Michael Caster è uno studioso dei diritti umani e un militante appassionato. Quanto avviene in Cina è il centro della sua attività. La fotografia che offre sulla situazione attuale è questa: “Nell’era di Xi Jinping, l’assalto della Cina ai gruppi che si occupano di diritti umani ha raggiunto punte estreme, non viste neanche ai tempi del movimento pro democrazia del 1989 (la protesta e la strage di centinaia di giovani a piazza Tien An Men, ndr). Insieme ai progressi tecnologici, possibili anche per la complicità di società non cinesi, si è verificato un aumento senza precedenti nella capacità di controllo da parte della polizia e dello Stato”.
Chi immaginava che la politica imperiale del leader cinese avrebbe portato oltre che crescita economica anche qualche libertà nel Paese, dovrebbe leggere il saggio di Carter sui protagonisti del movimento per i diritti umani che sono stati vittime della repressione del regime capital-comunista. Si tratta di dodici storie di militanti per i diritti umani, in gran parte avvocati che avevano tra i loro clienti dissidenti accusati di “sovversione” ed “incitamento al disordine”. Undici di queste sono state scritte in prima persona dai protagonisti, tutti scomparsi nel nulla e riaffiorati dopo mesi davanti ai tribunali o con l’annuncio che erano sotto “sorveglianza in località designate” e “sotto inchiesta per crimini contro la sicurezza dello Stato”. Una storia è stata scritta da Carter: quella di Xie Yang, avvocato della regione dello Yunan che aveva difeso molti attivisti. Scomparso nel 2015, dopo sei mesi di detenzione non comunicata, incontrò un legale e raccontò terribili torture. Ma al processo nel 2017 dichiarò di essere stato manipolato da potenze straniere e negò le torture subite, confessando le “colpe”.
Molti hanno ceduto a pressioni e privazioni nei “buchi neri”, le prigioni segrete dove i militanti vengono segregati. Molti altri non si sono piegati e sono scomparsi nel nulla, come l’avvocato Wang Quanzhang, sequestrato nel 2015 e riapparso a luglio del 2018 solo attraverso il racconto di un altro dissidente che sostiene di averlo visto nel centro di detenzione di Tianjin. La svolta repressiva è del 2015, quando il regime di Xi Jinping decise un’operazione in grande stile contro gli oppositori. Pochi mesi prima c’era stato un grande risveglio del movimento pro democrazia in ricordo di Tien An Men. Il governo cinese prese di mira soprattutto coloro che difendevano in giudizio gli attivisti perché rappresentavano un pericoloso passaggio che avrebbe amplificato in ogni momento la protesta portandola dalla piazza al luogo deputato per l’atto finale della repressione, il tribunale. Scomparvero decine di avvocati e, a seguire, le loro famiglie furono oggetto di intimidazioni e rappresaglie, giunte fino a viltà come negare l’iscrizione alla scuola elementare al figlio di un dissidente.
Fu con quello che è stato definito il “709 crackdown” che venne alla luce il nuovo sistema di repressione, ovviamente definito nel codice penale. È la norma chiamata con il suo abbreviativo Rsdl, ovvero “sorveglianza residenziale in un luogo designato”: puoi essere prelevato e sparire in un buco nero della detenzione senza regole, perché la Rsdl stabilisce che la polizia non è obbligata a comunicare il luogo di detenzione, il diritto a ricevere la visita di avvocati e parenti è sospeso, neanche il magistrato può visitare il detenuto “per non ostacolare le indagini”.
Si tratta di un arbitrio totale, nato per riparare la falla che si era creata nel 2003 quando era in vigore il cosiddetto “custodia e rimpatrio” che permetteva alla polizia di arrestare chiunque senza dover comunicare il fatto. Accadde però che nel marzo del 2003, Sun Zhigang, lavoratore emigrato dalle campagne alla città di Guangzhou, morì in seguito ai maltrattamenti subiti dopo un arresto non reso pubblico. Ne seguì, in una non prevista catena di eventi gestiti da persone perbene, il processo ai poliziotti e la condanna delle autorità a risarcire il danno. Bisognava evitare altri avvenimenti simili. Ed ecco la Rsdl.
Oggi, alle meraviglie sbandierate da Xi Jinping della nuova via della seta, del progresso economico, degli aiuti miliardari all’Africa, fa da contraltare una guerra sistematica e senza tentennamenti contro qualsiasi atto che metta in discussione le libertà civili negate, la censura, la libertà di religione. La macchina repressiva si muove lungo cinque direttrici e altrettanti obiettivi: i militanti dei diritti umani a cominciare dagli avvocati; tutti coloro che cercano di usare la rete per conquistare spazi di libertà, discussione e critica al regime; gli autonomisti del Tibet, con i monaci al primo posto; gli uiguri di religione musulmana che vivono nello Xinjiang, il nord ovest della Cina; i democratici di Hong Kong che si rifiutano di piegarsi all’arbitrio di Pechino.
Se gli avvocati scompaiono nei “buchi neri”, coloro che cercano libertà attraverso la rete se la devono vedere con la censura che ha trovato un inaspettato alleato nelle grandi società occidentali del settore a cominciare da Apple e Google: la prima ha accettato di chiudere i Vpn – le reti di comunicazioni private – utili per bypassare la censura, la seconda fornisce al governo tutte le informazioni sugli utenti e sulle loro attività in rete. Sul Tibet c’è sempre una cappa di piombo, e l’ultima invenzione per stroncare la protesta degli uiguri dissidenti, accusati di terrorismo solo perché musulmani, è quella dei campi di rieducazione religiosa. In questa situazione, il disinteresse sempre più manifesto dei Paesi occidentali alimenta la repressione. Abbagliati dal miraggio di fare affari coi cinesi, i governi statunitense ed europei hanno messo nel cassetto politiche attive di sostegno ai diritti umani in Cina. Basterebbe vedere le tiepide reazioni alla notizia che il dissidente e premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo era morto (luglio 2017) per tumore, in stato di detenzione in ospedale, e la moglie era scomparsa in qualche “buco nero” della polizia. Il regime di Xi ha approfittato di questa ritirata occidentale.
Nell’aprile 2017 Dolkun Isa, attivista uiguro, è stato cacciato dalle Nazioni Unite mentre era in attesa di parlare di minoranze etniche. Tre mesi dopo, a Roma, mentre si recava al Senato dove era stato invitato, Isa è stato fermato da agenti in borghese e portato via per le procedure di identificazione. La lunga mano del regime fa di tutto per portare dalla sua parte gli altri governi. A giugno del 2017 era atteso un intervento dell’Unione europea all’assemblea annuale del Consiglio per i diritti umani delle Onu di Ginevra. Ma la Ue non ha parlato perché la Grecia ha posto il veto a un discorso in cui si criticava la Cina per la violazione sistematica dei diritti umani. Pochi giorni dopo, sempre Atene, si è opposta a controlli più accurati sugli investimenti cinesi nella Ue. Atene ha spiegato che il suo governo non è mai d’accordo con iniziative che contengano “critiche non costruttive”. Ma la verità sta nei 500 milioni di euro che Pechino ha pagato per il porto del Pireo e nei contratti milionari che il premier Alexis Tsipras ha firmato in Cina.