lunedì 17 settembre 2018

Il Fatto 17.9.18
Ma chi come me vuole bene a Mussolini, non lo rivede certo in Salvini né in altri
In piedi o capovolto il ragazzaccio di Predappio non passa mai di moda, il ministro dell’Intero passerà
di Pietrangelo Buttafuoco


Pierre Moscovici, il commissario europeo che per insultare dà del Mussolini ai gialloverdi del governo italiano, mi ricorda quelli che al mio paese davano del “frocio” a un omosessuale solo che questi, spiritoso assai, rispondeva loro: “Mi avete detto barone, mi avete detto. Onore mi fate a chiamarmi così…”. Il morto tra noi per antonomasia è sempre e solo Benito Mussolini. Proprio il caso di ripetere M.s.i., e non tanto il partito della Fiamma tricolore ormai scomparso, piuttosto il sottinteso con cui – nel dopoguerra – se ne restava pittato nei muri, nascosto nelle sigle, l’esito metafisico più che politico: Mussolini sei immortale.
Quasi come il W V.e.r.d.i. in vista del Risorgimento: la gendarmeria austriacante passava di ronda nottetempo, annotavano la passione melomane dei lombardo-veneti e questi, invece, volevano sottintendere Viva Vittorio Emanuele re d’Italia. Quasi come, anzi, di più. Non passa mai di moda, infatti, il Figlio del Fabbro.
In piedi, o capovolto – a testa in giù, nel macabro sabba di piazzale Loreto – il socialista rivoluzionario, il ragazzaccio che si unisce in coppia a diciassette anni con Rachele Guidi per poi sposarla davanti a un prete anni dopo, quando è diventato anche interventista (dopo essersi fatta la galera per avere contestato la guerra di Libia) è rimasto quello che al congresso del suo partito – il Psi – ai riformisti che ne chiedevano l’espulsione, sibilava: “Voi mi odiate perché mi amate ancora”.
Quando nelle sale arriva il film Lui è tornato nella versione italiana, adattato al Duce, c’è un inciampo falsificante, quello di incastrarlo – per annaspare con la narrazione corrente – nella questione dell’immigrazione. Ne risulta un Mussolini totalmente asincrono e non plausibile perché “Il razzismo”, per come diceva davvero lui, giusto lui che era stato emigrato, muratore in Svizzera, “è un solo problema per i popoli biondi”. Il nuovo Salvini di Maurizio Crozza si affaccia dal balcone di palazzo Venezia, a Roma, al grido di “ita-li-ani!”.
L’ora delle decisioni ir-re-vo-ca-bi-li diventa l’ora della diretta social e gli “utenti” di terra, di cielo e di mare del celebre discorso dal balcone aggiornano la folla oceanica nella forma inedita. Sono, appunto, “italiani di Twitter, di Instagram e di Facebook”.
E prende la vena giusta, allora, Antonio Scurati, scrivendo M. Il figlio del secolo (edizioni Bompiani), come un tentativo – al fondo sentimentale – di romanzo totale a uso di tutti noi: la biografia del figlio di Alessandro, il fabbro di Predappio, scritta apposta per restituirci tutti – noi che lo amiamo per odiarlo ancora, e voi tutti, la maggior parte, che lo odiate perché comunque lo amerete sempre – alla sincronia col più vivo dei morti tra noi. Non ci sono nuovi Mussolini tra noi, non ci saranno mai. L’unico è solo Lui.

La Stampa 17.9.18
“Bannon ha scippato alla sinistra la bandiera della rivoluzione populista”
di Paolo Mastrolilli


«Trump è lo strumento del nuovo autoritarismo. Se non lo fermiamo alle elezioni midterm di novembre, rischiamo di perdere la democrazia». Michael Moore è scatenato. Lo incontro all’anteprima del suo nuovo documentario, e mette in guardia anche l’Europa: «Viviamo un momento terribile, e ognuno ha la sua battaglia. Ho parlato a lungo con Steve Bannon, e mi ha fatto capire che l’obiettivo del suo movimento in Europa è resuscitare il fascismo, sotto mentite spoglie».
Il nuovo documentario di Moore si intitola «Fahrenheit 11/9», facendo il verso a «Fahrenheit 9/11», con cui aveva attaccato Bush figlio per la risposta agli attentati di Al Qaeda. Ora invece usa la data 11/9 (il 9 novembre), cioè quella dell’elezione di Trump alla presidenza, per lanciare l’allarme sulla democrazia a rischio. Il film uscirà in 2.000 sale durante il prossimo fine settimana, e Moore spera di sfruttarlo per lanciare una campagna nazionale: «Stiamo come i francesi nel 1940, quando i carri armati nazisti erano alle porte di Parigi. Bisogna mobilitarsi ora. I figli alla partita di calcio li porterete l’anno prossimo: adesso dobbiamo sospendere tutto, e attivarci per sconfiggere i repubblicani a novembre. A salvarci non sarà il procuratore Mueller, ma la volontà degli elettori».
Lei nel documentario dice che Trump non è piovuto dal cielo.
«La vera ragione per cui si era candidato era che voleva essere pagato di più dalla Nbc per il suo show. Si era arrabbiato quando aveva scoperto che Gwen Stefani guadagnava meglio di lui, e voleva dimostrare di essere più popolare. Poi però la risposta del pubblico lo ha sorpreso, convincendolo a provarci sul serio».
Perché ha vinto?
«Gli insegnanti delle scuole pubbliche americane guadagnano così poco, che hanno bisogno dei “food stamp”, cioè la carità pubblica, per comprare da mangiare. Così vivono milioni di persone, di cui il Partito democratico non si è mai curato. Trump invece sì. Ha parlato a questa gente, che lo ha scelto come ultima disperata via di salvezza».
Nel documentario si vedono immagini di Hitler che parla, ma dalla sua bocca esce la voce di Trump.
«Era un passaggio umoristico. Trump non è Hitler, però è la faccia casuale del nuovo autoritarismo. Il fascismo non tornerà con le svastiche o l’olio di ricino, ma col populismo, e sarà la gente a volerlo. La Costituzione è solo un pezzo di carta, se abbastanza persone si convincono di stracciarla. Prima o poi accadrà un’emergenza nazionale, che Trump e i suoi alleati useranno per iniziare a ridurre progressivamente la democrazia».
Cosa ha sbagliato l’opposizione?
«Se Trump è la faccia del nuovo autoritarismo, il Partito democratico è il governo di Vichy. Non solo perché ha commesso tutti gli errori possibili per aprire la strada a Donald, ma anche perché è stato suo complice».
Come?
«Non ha capito che Hillary era il contrario di ciò che sarebbe servito per rispondere alle ansie della gente, e ha soffocato la democrazia interna. Per fare un esempio, alle primarie Sanders aveva vinto tutte le contee della West Virginia, ma alla Convention i superdelegati la assegnarono a Hillary. Queste cose hanno depresso il voto, come peraltro ha fatto anche Obama, quando è venuto a Flint per negare l’emergenza dell’acqua contaminata».
Cosa le ha detto Bannon?
«Mi ha detto: “Non capisco come voi liberal siate riusciti a farvi fregare da noi la rivoluzione populista. Doveva essere il vostro pane, ma per fortuna nessuno nel Partito democratico lo ha capito. Voi liberal - ha aggiunto - perdete sempre perché fate le battaglie a cuscinate, mentre noi puntiamo alla ferita mortale alla testa”».
Andrà così anche alle midterm di novembre?
«Bannon mi ha spiegato la strategia che useranno per vincere, magari conservando anche un solo seggio di maggioranza alla Camera. Le elezioni verranno presentate come il vero voto per la rielezione di Trump: non il 2020, ma il 2018. Tutto si gioca a novembre. Donald andrà ovunque nel Paese, comportandosi come se fosse candidato alla presidenza delle contee locali. In ogni distretto convinceranno gli elettori che la sfida non è tra il candidato repubblicano e quello democratico, ma fra Trump e il candidato democratico».
Ce la faranno?
«Sono atterrito dalla genialità di questa strategia, ma non credo che funzionerà. Ci sarà uno tsunami di affluenza delle donne, anche perché hanno capito che l’aborto diventerà illegale se Kavanaugh verrà confermato alla Corte Suprema, e dei giovani. I liberal in America sono la maggioranza: se andranno a votare vinceremo, e hanno capito che questa è l’ultima occasione».

Repubblica 17.9.18
In campo l’ex stratega di Trump
La Chiesa a scuola di Bannon per creare una fronda anti- Papa
Al via un corso presso l’Istituto Dignitatis Humanae, presieduto dal cardinale Burke
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO
Piomba sul Vaticano alle prese con la stesura di una risposta al dossier dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò la notizia che l’ex stratega di Trump, Steve Bannon, sta organizzando in collaborazione con l’Istituto " Dignitatis Humanae" di Roma un corso di leadership per " politici cattolici conservatori", una vera e propria fazione populista, nazionalista e conservatrice che dall’intero del mondo cattolico va nella sostanza a contrastare il magistero di papa Bergoglio.
Bannon, cattolico su posizioni oltranziste e contrastanti al papato, legato al cardinale statunitense ultraconservatore Raymond Burke e al mondo che ha prodotto il dossier Viganò. E anche se apparentemente prende le distanze da Viganò dicendo che Francesco «non dovrebbe assolutamente dimettersi» perché «è il vicario di Cristo sulla terra», in realtà l’azione dei conservatori americani in opposizione a Francesco appare studiata e frontale e assume sempre più i contorni di una strategia studiata a tavolino. La volontà di Bannon di lasciare il Papa al suo posto sembra motivata più che altro dal fatto che così la leadership del vescovo di Roma si logora meglio. Bannon, non a caso, dice senza remore che la risposta del Papa sulla pedofilia è insufficiente e che «la gente deve capire la portata del danno inferto dalla e alla Chiesa cattolica » . Per questo invoca « un Tribunale indipendente dalla Chiesa » sulla pedofilia. Anche perché, dice, la convocazione a Roma a febbraio dei capi dell’episcopato mondiale «è troppo tardi».
L’Istituto " Dignitatis Humanae" non è fondazione neutrale. Compagine religiosa di orientamento conservatore, ha scelto come sua base di lavoro l’abazia di Trisulti, passata all’ala tradizionalista dopo che gli ultimi tre monaci ormai anziani sono rientrati a Casamari. L’antico convento, a un centinaio di chilometri a Sudest di Roma, potrà ospitare anche 250- 300 studenti alla volta e, secondo quanto ha dichiarato il direttore Benjamin Harnwell, porterà avanti i lavori di quello che è a tutti gli effetti un think tank di stampo catto- tradizionalista che vuole proteggere e promuovere la dignità umana sulla base della « verità antropologica » che l’uomo sia nato a immagine e somiglianza di Dio. L’obiettivo è di favorire questa visione sostenendo i cristiani nella vita pubblica «aiutandoli a presentare risposte efficaci e coerenti a sforzi crescenti per zittire la voce cristiana nella pubblica piazza » . Un’attività che viene svolta coordinando anche i gruppi di lavoro parlamentari «affiliati sulla dignità umana in tutto il mondo».
E forse non è un caso che una settimana fa il cardinale di riferimento Burke (presiederà il think tank) abbia scelto il Senato per presentare il suo ultimo libro Chiesa Cattolica, dove vai? Una dichiarazione di fedeltà ». Come a dire: è da qui che certi valori debbono essere annunciati. A soffiare contro il magistero di Bergoglio c’è anche quell’ala cattolica italiana che non ha remore a guardare a Salvini e al suo mondo. Bannon, lanciando a Roma " The Movement", ha dichiarato: « Salvini è un leader mondiale».

Repubblica 17.9.18
Le insidie del decreto Salvini
Immigrazione militarizzata
di Mario Morcone

Caro direttore, le notizie ormai diffuse sui contenuti normativi del decreto legge in materia di immigrazione destano sinceramente preoccupazione e in qualche caso sconcerto. Mi sembra di poter individuare tre gruppi di misure: la prima di interventi su cui si possono avere opinioni diverse ma che si muovono tuttavia nel quadro normativo internazionale e nazionale. Una seconda sostanzialmente contraria, a mio avviso, al buon senso e agli interessi del nostro Paese, e una terza, quella più sconcertante, che ha un vago sapore sudamericano.
In ordine alla prima si risolvono una serie di vecchie questioni sulle quali non si era mai deciso di intervenire. Mi riferisco alla mancata iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, alla reiterazione delle domande di protezione e anche all’introduzione delle procedure di frontiera che certamente ci fanno arretrare sul piano della tutela dei diritti, ma che purtroppo sono presenti in alcuni paesi amici tra cui in primo luogo la Francia. Nel secondo gruppo collocherei gli interventi finalizzati a irrigidire i presupposti per concedere forme di protezione complementari a quelle previste dalle norme internazionali ( protezione umanitaria) e la modifica del sistema di accoglienza. Parlo di buon senso perché trovo singolare che un grande Paese rinunci alla possibilità di realizzare forme di coesione sociale e di inclusione attraverso la valorizzazione di percorsi di inserimento e di lavoro che i migranti possono aver conseguito nel periodo di attesa del loro destino. Non capisco bene perché dovremmo rinunciare a riconoscere un permesso di soggiorno a un migrante che, pur in assenza dei presupposti della protezione internazionale, ha ottenuto con buona volontà e senza infrangere le regole della nostra convivenza civile un posto di lavoro e sta concorrendo allo sviluppo del nostro Paese. Dobbiamo sperare di espellerlo, facendo venir meno così il contributo positivo che sta dando a tutti noi e creare maggiore irregolarità? In Germania e Francia hanno un approccio ben più flessibile. Ma quello che più mi preoccupa è il terzo gruppo di misure, davvero straordinario. Proporre il trattenimento amministrativo di persone destinate all’espulsione fuori dai Cpr in strutture idonee nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza realizza, da un lato, il venir meno di tutte le garanzie offerte dalla gestione civile del trattenimento stesso e, dall’altro, avvia una sorta di militarizzazione del tema richiedenti asilo contraria ai princìpi costituzionali e alla storia e alla cultura di questo Paese. Anche la categoria dei reati individuati come presupposto per la revoca dello status di protezione internazionale e per l’espulsione del cittadino sembra talmente vasta da far tornare in mente storie lette nella nostra adolescenza come La capanna dello zio Tom. Non so dove sia finita poi la presunzione di innocenza se si interrompe il percorso di riconoscimento della protezione internazionale per i richiedenti che hanno in corso un procedimento penale prima che una sentenza definitiva ne certifichi una condizione di colpevolezza. Infine, un’altra vicenda straordinaria: stiamo costruendo due categorie di cittadini. Una di serie A e una di serie B. E in quella di serie B vanno a collocarsi tutti coloro che acquistano la cittadinanza italiana e ai quali potrebbe essere revocata per una condanna di cinque anni. Il fondamento di legittimità viene tratto per analogia da un’ineccepibile posizione del Consiglio di Stato che ritiene legittimo il diniego della cittadinanza in considerazione dei rapporti di uno straniero con movimenti e organizzazioni potenzialmente offensivi della sicurezza della Repubblica. Ma una cosa è il diniego, una cosa è la revoca. Credo che, indipendentemente dalla sensibilità di ciascuno di noi su temi vivi come questi, non ci sia stata un’attenta rappresentazione ai nostri vertici di Governo della strada che stiamo imboccando e delle conseguenze che verranno.
Mario Morcone è direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati

Repubblica 17.9.18
Il ragazzo morto per un selfie
Quel figlio senza rete
di Massimo Recalcati


In questo caso, nel caso del quindicenne precipitato dal tetto di un centro commerciale, non sembra esserci alcun determinismo evidente, né psichico, né sociale: no droga, no indigenza economica, no cattiva educazione, no genitori irresponsabili, no traumi, no isolamento, no disturbi psichiatrici. Tutto nella norma. Un gruppo di giovani amici dalle vite regolari sfida la morte. Potrebbe essere nostro figlio. È un nostro figlio. Non conviene scandalizzarsi, non conviene pensare che non toccherà mai a noi il dolore sordo che sta dilaniando i suoi familiari. Certo, i suoi post che lo ritraggono sui tetti di condomini, a penzoloni nel vuoto, sono inquietanti, ma radicalizzano, in realtà, una inquietudine che si può facilmente provare di fronte al disagio di ogni adolescente. Perché sfidare la morte, sfidare il pericolo, cercare il brivido dell’impresa impossibile, immortalarsi eroe di fronte allo sguardo dei social? Voler apparire senza paura di fronte alla morte, non è una semplice deviazione psicopatologica della burrascosa transizione adolescenziale, ma un’ombra che accompagna questo difficile passaggio della vita. La spavalderia dell’adolescente, come recitava un bel libro di Charmet, non è mai separabile dalla sua fragilità, anzi, spesso il loro rapporto è inversamente proporzionale: più è avvertita una fragilità di fondo più si incentivano comportamenti spavaldi.
L’impresa che attende ogni adolescente è difficile: abitare un nuovo corpo, trovare una nuova lingua, inventarsi un nuovo stile. Il sesso e la morte, dormienti nell’età dell’infanzia, irrompono nell’adolescenza sulla scena. Come abitare un corpo animato dalla pulsione sessuale? Come sopportare l’angoscia dell’incontro con la nostra finitezza, con la vulnerabilità della vita? Questioni decisive per ogni adolescente che impongono innanzitutto il lutto dell’infanzia, la rinuncia alla sua condizione narcisistica e l’esposizione all’avventura del mondo. Ogni adolescente, come ricordava Rimbaud, si trova gettato in un esilio: deve abbandonare i territori conosciuti e familiari dell’infanzia per incamminarsi verso una terra straniera, verso lo splendore e l’orrore del mondo. Abbiamo durante l’infanzia equipaggiato bene i nostri figli per questo difficile ma necessario viaggio? L’esigenza di libertà che essi devono avere il diritto di manifestare cozza contro la preoccupazione per un mondo che sembra essere divenuto tanto ricco di opportunità quanto insidioso. È stato notato da tempo e da molti autori che la carenza di riti di passaggio collettivi, in un Occidente che sponsorizza ciecamente il mito del successo e dell’affermazione individuale, lascia i nostri figli a sé stessi. Devono inventarsi allora queste ritualizzazioni simboliche assenti in prove di coraggio, in prestazioni " mitiche", in esibizioni private che i social rendono pubbliche. La cultura speculare del selfie, dell’immagine di sé, sostenuta da una tecnologia che favorisce l’espandersi di un sentimento artefatto di onnipotenza, insieme al declino generale del valore della parola e della sua Legge, amplificano questa condizione di solitudine. Se i dispositivi simbolici che accompagnavano l’adolescente al passaggio verso la vita adulta si sono dissolti, resta l’atomizzazione individualista dei legami. Ne sono un esempio limite i cosiddetti Neet o gli ipponici Hikikomori, dove la sconnessione da ogni legame collettivo assume la forma grave di una vera e propria regressione autistica. La verità è che non possiamo evitare né le turbolenze dell’adolescenza, né i suoi rischi, né, tanto meno, i suoi dolori. La verità è che non possiamo garantire la felicità dei nostri figli. Possiamo solo vegliare affinché esistano attorno a loro degli adulti che sappiano offrirsi come destinatari della parola. È il ruolo cruciale giocato innanzitutto dalla Scuola che quando è davvero buona favorisce la possibilità di tradurre in parole la sofferenza e il disagio. Si dovrebbe sempre ricordare l’importanza che nei momenti di maggior caos, di caduta, di fallimento, di delusione vissuti dai nostri figli esistano adulti capaci di dare e di ascoltare la loro parola. Non si tratta di sponsorizzare la retorica del dialogo e dell’empatia, ma di insistere sull’importanza di non lasciare cadere nel nulla i nostri figli. Di testimoniare che non sono soli. Anche la spavalderia provocatoria può essere una forma di invocazione.

Il Fatto 17.9.18
Con omicidi e “affari” la Russia di Putin dilaga in mezza Africa
Nella Repubblica Centrafricana gli uomini di Mosca si propongono come garanti di equilibri, di “cessate il fuoco” provvisori, di intermediazioni. E forniscono armi, con l’ok dell’Onu, aggirando embarghi
di Michela A. G. Iaccarino


Sopra la terra. Al loro funerale a Mosca, gli amici che stringevano tra le mani i ritratti in bianco e nero, erano vestiti dello stesso colore. Sotto la terra. Tre tombe, tre giornalisti russi, tre omicidi in un’imboscata sotto i cieli d’Africa ad inizio agosto. Tre lapidi: Orkhan Djemal, ex reporter di Novaya Gazeta (lo stesso giornale di Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca nel 2006), corrispondente veterano di guerre d’Africa, il suo cameraman Kiril Radchenko e Aleksandr Rastorguev, autore di un documentario sull’opposizione russa. Proprio come la loro patria, la Russia, anche l’Africa si è rivelata terra fatale per i giornalisti. Sono morti nell’ex colonia francese, la Repubblica Centrafricana, a 300 km da Bangui, la capitale, lungo la strada sabbiosa per Sibiut. Uccisi in quella che le forze dell’ordine del luogo hanno bollato come rapina, ma che ai loro colleghi sembra un’imboscata.
È una storia russa di armi e soldati sopra la terra, di oro, uranio e cadaveri sotto. I giornalisti indagavano sui mercenari russi spediti nella zona, ma come tutti quelli che si avvicinano ai contractor del gruppo Wagner, sono tornati indietro cadaveri. Già avvistati in Siria e Ucraina, i Wagner sarebbero foraggiati anche in varie zone d’Africa dallo “chef di Putin”, l’oligarca Yevgheni Prigozhin, amico del presidente. Il Cremlino smentisce da sempre non solo il legame con i mercenari, ma la loro stessa esistenza. Prima di morire i tre giornalisti russi si dirigevano forse proprio alla base Wagner in cui avevano già una volta provato ad entrare o forse, scrive Vedomosti, alla miniera di Ndassim, ex base dei gruppi armati musulmani Seleka.
Ancora un tre. Dopo tre settimane dal loro assassinio, invece di investigare la loro morte, Mosca ha firmato un accordo di espansione della cooperazione militare con il Paese dove i tre reporter hanno perso la vita. È il ministro della Difesa Serghey Shoigu ad agosto a dichiarare che nuovi accordi col Centrafrica “hanno rafforzato i legami nella sfera della difesa tra i due Paesi”. Il governo centrafricano ha un potere di controllo molto limitato sul suo stesso territorio, per gli scontri tra bande armate di cristiani e coalizioni di milizie musulmane. La Russia si propone come garante di protezione parziale di equilibri, di cessate il fuoco conciliatori e come intermediaria con le milizie ribelli che occupano le miniere. Mosca offre ciò di cui abbonda. Forgiati nelle lande siderali dagli Urali all’estremo Est, i fucili russi diventano roventi sotto il sole dei deserti. Vengono impugnati dalle Faca, le forze armate della Repubblica Centrafricana. Le armi sono state consegnate con il consenso Onu dopo le pressioni di Mosca, nonostante l’embargo del 2013.
La Russia offre difesa, ma anche protezione ed “esperienza”. Armi e uomini: istruttori ufficiali dell’esercito. O i Wagner, ma nessuno può provarlo e chi ci ha provato è morto. Mentre il mondo li osserva sugli schermi nelle guerre d’Ucraina e di Siria, sono in pochi a notarli laggiù: pallidi ragazzi russi in divisa mimetica tra le dune sabbiose del continente nero. Ma solo almeno 175 gli istruttori di Mosca in Centrafrica e su di loro investigava il trio di reporter del gruppo Icm, Investigation Management Center: la fondazione finanziata da Mikhail Khodorkovsky, magnate del petrolio della compagnia Yukos nella sua prima vita, detenuto politico in Siberia perché nemico di Putin nella seconda e russo in esilio nella dorata Londongrad nella sua terza ed ultima esistenza, dedicata alla sovvenzione di media indipendenti che indagano sugli “affari” del Cremlino.
Quando le sanzioni anti-russe hanno ridotto i flussi di denaro in entrata ed uscita verso Europa e America, quando l’urgenza economica è diventata somma, i russi hanno cominciato a voltare piano le spalle all’ovest, cercando nuovi alleati più sud. Il 2018 è stato per Mosca l’anno di accordi sotterranei in Africa che sono diventati negoziati firmati in conferenze ufficiali. Zimbabwe, Sudan e Centrafrica, non amati dall’ovest e dalle sue sanzioni, ora sono legati alla diplomazia militare del Cremlino.
E se oggi la Russia è in Africa è anche perché ieri l’Africa era in Russia: nelle università sovietiche l’educazione era gratuita come la formazione politica per attivisti dei movimenti di liberazione o per guerriglieri comunisti in armi in arrivo dal Senegal fino al Mali, che poi tornavano indietro con dottrina, istruzione e appoggio finanziario per le rivolte popolari. Rispolverare quei legami storici, rinsaldare i vecchi contatti della Guerra fredda, dopo il ritiro delle risorse dal continente per il collasso dell’Unione sovietica è stato difficile, ma non troppo. Se oggi Mosca media tra Centrafrica e gruppi armati in Sudan, senza l’Unione africana stessa, è per tentare di riservarsi una via d’accesso privilegiata a riserve di diamanti, oro, uranio nelle zone al momento controllate dai ribelli.
Sono state le visite ufficiali di Serghey Lavrov e Valentina Matviyenko, presidentessa del Consiglio federale russo, a rendere saldi tutti questi rapporti lo scorso marzo. Dall’Angola al Namibia, dal Mozambico all’Etiopia, fino allo Zimbabwe. Accordi di cooperazione militare reciproca e di perforazione per la ricerca di minerali sono stati stretti come le mani del ministro degli Esteri russo ai suoi colleghi omologhi africani. Ora lungo tutto il Corno d’Africa sulla mappa c’è l’ombra di Mosca, che solo una settimana fa ha chiesto la rimozione delle sanzioni al Consiglio di Sicurezza “per i processi di regolarizzazione e i profondi cambiamenti positivi degli ultimi anni, in particolare tra Eritrea ed Etiopia che hanno ripreso i contatti diretti”. A quelle latitudini diplomazia e commercio vengono confusi spesso o combaciano del tutto. Non si dove, non si sa quando, si sa solo che succederà: è stato riferito a inizio di questo settembre dalla Duma russa di uno sbocco militare sul Mar Rosso e una base logistica russa è in fase di avvio in Eritrea.
Sotto la terra d’Africa i russi scavano e cercano: idrocarburi, diamanti, uranio, oro, tutto ciò di cui l’Africa è piena. Sopra la terra li armano. Più che un omicidio di tre reporter, ad agosto c’è stato un assassinio del giornalismo nel continente e il lavoro dei tre sulle armi russe in Africa non è stato continuato da nessuno. Erano andati ad investigare sui Wagner, poi nessuno è andato ad investigare sulle loro morti.

Il Fatto 17.9.18
I “buchi neri” della Cina di Xi, dove spariscono i dissidenti
Imperialismo economico e politiche opposte al neo-protezionismo trumpiano, ma rimangono nella Repubblica popolare le violazioni dei diritti umani e, anzi, la repressione cresce
di Antonio Carlucci


Michael Caster è uno studioso dei diritti umani e un militante appassionato. Quanto avviene in Cina è il centro della sua attività. La fotografia che offre sulla situazione attuale è questa: “Nell’era di Xi Jinping, l’assalto della Cina ai gruppi che si occupano di diritti umani ha raggiunto punte estreme, non viste neanche ai tempi del movimento pro democrazia del 1989 (la protesta e la strage di centinaia di giovani a piazza Tien An Men, ndr). Insieme ai progressi tecnologici, possibili anche per la complicità di società non cinesi, si è verificato un aumento senza precedenti nella capacità di controllo da parte della polizia e dello Stato”.
Chi immaginava che la politica imperiale del leader cinese avrebbe portato oltre che crescita economica anche qualche libertà nel Paese, dovrebbe leggere il saggio di Carter sui protagonisti del movimento per i diritti umani che sono stati vittime della repressione del regime capital-comunista. Si tratta di dodici storie di militanti per i diritti umani, in gran parte avvocati che avevano tra i loro clienti dissidenti accusati di “sovversione” ed “incitamento al disordine”. Undici di queste sono state scritte in prima persona dai protagonisti, tutti scomparsi nel nulla e riaffiorati dopo mesi davanti ai tribunali o con l’annuncio che erano sotto “sorveglianza in località designate” e “sotto inchiesta per crimini contro la sicurezza dello Stato”. Una storia è stata scritta da Carter: quella di Xie Yang, avvocato della regione dello Yunan che aveva difeso molti attivisti. Scomparso nel 2015, dopo sei mesi di detenzione non comunicata, incontrò un legale e raccontò terribili torture. Ma al processo nel 2017 dichiarò di essere stato manipolato da potenze straniere e negò le torture subite, confessando le “colpe”.
Molti hanno ceduto a pressioni e privazioni nei “buchi neri”, le prigioni segrete dove i militanti vengono segregati. Molti altri non si sono piegati e sono scomparsi nel nulla, come l’avvocato Wang Quanzhang, sequestrato nel 2015 e riapparso a luglio del 2018 solo attraverso il racconto di un altro dissidente che sostiene di averlo visto nel centro di detenzione di Tianjin. La svolta repressiva è del 2015, quando il regime di Xi Jinping decise un’operazione in grande stile contro gli oppositori. Pochi mesi prima c’era stato un grande risveglio del movimento pro democrazia in ricordo di Tien An Men. Il governo cinese prese di mira soprattutto coloro che difendevano in giudizio gli attivisti perché rappresentavano un pericoloso passaggio che avrebbe amplificato in ogni momento la protesta portandola dalla piazza al luogo deputato per l’atto finale della repressione, il tribunale. Scomparvero decine di avvocati e, a seguire, le loro famiglie furono oggetto di intimidazioni e rappresaglie, giunte fino a viltà come negare l’iscrizione alla scuola elementare al figlio di un dissidente.
Fu con quello che è stato definito il “709 crackdown” che venne alla luce il nuovo sistema di repressione, ovviamente definito nel codice penale. È la norma chiamata con il suo abbreviativo Rsdl, ovvero “sorveglianza residenziale in un luogo designato”: puoi essere prelevato e sparire in un buco nero della detenzione senza regole, perché la Rsdl stabilisce che la polizia non è obbligata a comunicare il luogo di detenzione, il diritto a ricevere la visita di avvocati e parenti è sospeso, neanche il magistrato può visitare il detenuto “per non ostacolare le indagini”.
Si tratta di un arbitrio totale, nato per riparare la falla che si era creata nel 2003 quando era in vigore il cosiddetto “custodia e rimpatrio” che permetteva alla polizia di arrestare chiunque senza dover comunicare il fatto. Accadde però che nel marzo del 2003, Sun Zhigang, lavoratore emigrato dalle campagne alla città di Guangzhou, morì in seguito ai maltrattamenti subiti dopo un arresto non reso pubblico. Ne seguì, in una non prevista catena di eventi gestiti da persone perbene, il processo ai poliziotti e la condanna delle autorità a risarcire il danno. Bisognava evitare altri avvenimenti simili. Ed ecco la Rsdl.
Oggi, alle meraviglie sbandierate da Xi Jinping della nuova via della seta, del progresso economico, degli aiuti miliardari all’Africa, fa da contraltare una guerra sistematica e senza tentennamenti contro qualsiasi atto che metta in discussione le libertà civili negate, la censura, la libertà di religione. La macchina repressiva si muove lungo cinque direttrici e altrettanti obiettivi: i militanti dei diritti umani a cominciare dagli avvocati; tutti coloro che cercano di usare la rete per conquistare spazi di libertà, discussione e critica al regime; gli autonomisti del Tibet, con i monaci al primo posto; gli uiguri di religione musulmana che vivono nello Xinjiang, il nord ovest della Cina; i democratici di Hong Kong che si rifiutano di piegarsi all’arbitrio di Pechino.
Se gli avvocati scompaiono nei “buchi neri”, coloro che cercano libertà attraverso la rete se la devono vedere con la censura che ha trovato un inaspettato alleato nelle grandi società occidentali del settore a cominciare da Apple e Google: la prima ha accettato di chiudere i Vpn – le reti di comunicazioni private – utili per bypassare la censura, la seconda fornisce al governo tutte le informazioni sugli utenti e sulle loro attività in rete. Sul Tibet c’è sempre una cappa di piombo, e l’ultima invenzione per stroncare la protesta degli uiguri dissidenti, accusati di terrorismo solo perché musulmani, è quella dei campi di rieducazione religiosa. In questa situazione, il disinteresse sempre più manifesto dei Paesi occidentali alimenta la repressione. Abbagliati dal miraggio di fare affari coi cinesi, i governi statunitense ed europei hanno messo nel cassetto politiche attive di sostegno ai diritti umani in Cina. Basterebbe vedere le tiepide reazioni alla notizia che il dissidente e premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo era morto (luglio 2017) per tumore, in stato di detenzione in ospedale, e la moglie era scomparsa in qualche “buco nero” della polizia. Il regime di Xi ha approfittato di questa ritirata occidentale.
Nell’aprile 2017 Dolkun Isa, attivista uiguro, è stato cacciato dalle Nazioni Unite mentre era in attesa di parlare di minoranze etniche. Tre mesi dopo, a Roma, mentre si recava al Senato dove era stato invitato, Isa è stato fermato da agenti in borghese e portato via per le procedure di identificazione. La lunga mano del regime fa di tutto per portare dalla sua parte gli altri governi. A giugno del 2017 era atteso un intervento dell’Unione europea all’assemblea annuale del Consiglio per i diritti umani delle Onu di Ginevra. Ma la Ue non ha parlato perché la Grecia ha posto il veto a un discorso in cui si criticava la Cina per la violazione sistematica dei diritti umani. Pochi giorni dopo, sempre Atene, si è opposta a controlli più accurati sugli investimenti cinesi nella Ue. Atene ha spiegato che il suo governo non è mai d’accordo con iniziative che contengano “critiche non costruttive”. Ma la verità sta nei 500 milioni di euro che Pechino ha pagato per il porto del Pireo e nei contratti milionari che il premier Alexis Tsipras ha firmato in Cina.

La Stampa 17.9.18
Fuorilegge sette scuole su dieci
Pochi controlli e niente sanzioni: divieti aggirati con le proroghe
In Italia il 70% dei 42.435 edifici che ospitano una scuola è fuorilegge, il 68% è stato costruito prima del 1975 e soltanto il 39% ha ottenuto il certificato di agibilità. Dal 1971 il collaudo statico è obbligatorio, ma la metà degli istituti non è a norma.
di Andrea Rossi


La scuola primaria Frediani di Seravezza, provincia di Lucca, è stata dichiarata inagibile e non riaprirà. A Melgnano, nel milanese, gli alunni della scuola primaria dovranno migrare in altre sedi perché tra amianto e cedimenti le loro classi sono in pericolo. Al liceo classico D’Annunzio, a Pescara, durante i lavori di ristrutturazione quest’estate si sono staccate intere porzioni di soffitto e la preside ha ritardato l’inizio delle lezioni per 900 studenti. A Napoli, nel quartiere Pianura-Soccavo, sei scuole restano chiuse perché senza certificati.
A guardarla da questa prospettiva, la scuola italiana che riapre per tutti oggi (anche se in dodici regioni, Piemonte compreso, è già ricominciata) ha un aspetto pericolante e i segnali evidenti di una resa. Il 70% dei 42.435 edifici che ospitano una scuola è, teoricamente, fuorilegge. Non è in regola con almeno uno di questi parametri: verifiche di vulnerabilità sismica, analisi di solai e controsoffitti, collaudo statico, certificato di prevenzione incendi, agibilità, piano di emergenza. Spesso non ne soddisfa più di uno. E dire che sarebbero tutti obbligatori per legge.
L’obbligo di mettersi in regola
Il 27 settembre Cittadinanzattiva pubblicherà il suo sedicesimo rapporto sulla sicurezza nelle scuole, realizzato su un campione di quasi 7 mila edifici. Il quadro che emerge dalle anticipazioni è desolante. Ad esempio, solo una scuola su tre ha eseguito le verifiche di vulnerabilità sismica, con picchi negativi in regioni come Calabria (2%), Campania (4%), Sicilia (7%), guarda a caso territori a elevata sismicità.
«Se pensiamo che la verifica di vulnerabilità sismica è stata resa obbligatoria nel 2003, e più volte prorogata fino al 2013, è evidente un grave ritardo da parte degli enti proprietari degli edifici», spiega Adriana Bizzarri, responsabile scuola di Cittadinanzattiva. I termini sono slittati più volte per dare modo a province e comuni di mettersi in regola: l’ultima proroga sposta la scadenza al 31 dicembre 2018 ma l’Anci, l’associazione dei Comuni, ha già fatto sapere che le risorse sono scarse e 3 mila Comuni resteranno a secco. È una pratica abusata: siccome le scuole continuano a non essere in regola, anziché sanzionare i proprietari (per l’84% Comuni, per il resto province o città metropolitane) si prorogano continuamente i termini per adeguarsi. Succede anche con il certificato di prevenzione incendi: la nuova scadenza è il primo gennaio 2019, ma a oggi solo una scuola su tre è a norma e una su dieci ha la pratica in corso.
Sarà inevitabile un’altra proroga. Normative e piani straordinari sono un’estenuante rincorsa per riparare mali che si trascinano da decenni. Le scuole sono vecchie: il 68% è stato costruito prima del 1975. Appena il 57% è accatastato per non parlare del certificato di agibilità o abitabilità, di cui appena il 39% è dotato. Metà degli edifici risale a prima che diventasse obbligatorio il collaudo statico, nel 1971. Quasi mezzo secolo dopo le scuole a norma con il collaudo sono il 53%, di fatto solo quelle costruite dagli Anni 70 in poi. Per le vecchie è come se la legge non fosse mai entrata in vigore.
Destinazioni differenti
C’è poi un peccato originale: il 30% degli edifici, prima di essere una scuola, aveva un’altra destinazione. Il liceo Darwin di Rivoli, ad esempio, era un seminario: il 22 novembre di dieci anni fa un ragazzo di 17 anni, Vito Scafidi, rimase ucciso nel crollo di un controsoffitto; un suo compagno di classe da allora è su una sedia a rotelle. «Molti edifici non nascono come scuole. Hanno spazi, a cominciare dalle scale, non dimensionati per il numero di persone che ospitano», ragiona Bernardino Chiaia, ordinario di Scienza delle costruzioni al Politecnico di Torino e responsabile del nascente Centro sulla sicurezza di edifici e infrastrutture.
A dieci anni dal Darwin è sconsolante sapere che solo il 26% delle scuole ha effettuato una indagine diagnostica su solai e controsoffitti. La fondazione Scafidi, con il ministero dell’Istruzione e il Politecnico, sta per avviare un progetto sperimentale sulla sicurezza delle scuole, con l’obiettivo di definire linee guida per la manutenzione delle strutture esistenti e la progettazione di quelle nuove. «L’edilizia scolastica ha alcune grandi criticità», spiega il professor Chiaia. «Ci sono problemi strutturali, di sito (una scuola su dieci sorge in zona sismica 1, a pericolosità massima, ndr), di invecchiamento e degrado, di impianti e controsoffitti, di messa a norma e distribuzione degli spazi».
Infine c’è un evidente problema di gestione del patrimonio: «Le norme consentono allo stesso professionista di essere responsabile della sicurezza di cento scuole. E tutte le segnalazioni che un istituto invia al suo ente proprietario confluiscono in un unico calderone, si tratti del rubinetto che perde o di un soffitto che rischia di crollare».
Questa disgregazione burocratica rischia di vanificare lo sforzo compiuto negli ultimi anni. Dal 2014 al 2017 lo Stato ha investito sull’edilizia scolastica più che nel precedente ventennio: 10 miliardi stanziati, di cui 5,2 miliardi affidati agli enti locali per finanziare 11.500 interventi. Il neo ministro dell’Istruzione Marco Bussetti dieci giorni fa ha sbloccato un miliardo e ne ha promessi altri due. Ha anche avviato un programma con l’agenzia spaziale e il Cnr per il monitoraggio satellitare degli edifici grazie a una tecnologia che permette di misurare al decimo di millimetro lo spostamento di un immobile. «Finora è però mancata una strategia complessiva», riflette Chiaia. «Il modello che abbiamo in mente punta a creare un ranking delle scuole basato su una griglia di criticità, in modo che lo Stato abbia un quadro della situazione e sappia quali sono le priorità».
L’anagrafe degli immobili
Sarà durissima. Il primo requisito per intervenire e stabilire un elenco di urgenze è avere un quadro nitido della situazione. Ma nessuno ce l’ha, altrimenti associazioni come Cittadinanzattiva non avrebbero alcuna ragione di mettersi in proprio e raccogliere i dati. E dire che lo strumento c’è. Nel 1996 è stata costituita l’anagrafe dell’edilizia scolastica: ogni ente locale avrebbe dovuto inserire i dati delle proprie scuole e lo Stato li avrebbe resi pubblici. È accaduto solo vent’anni dopo, nel 2015, ma mancano ancora 8 mila edifici su 42 mila. Quelli inseriti, poi, presentano dati incompleti: non indicano l’anno in cui è stata accertata la situazione dell’edificio (rendendo impossibile capire se il quadro è aggiornato), non includono le certificazioni su agibilità, collaudo e vulnerabilità sismica.
Dati mai inviati al ministero
«Il sistema è farraginoso, ci sono troppe lacune», osserva Adriana Bizzarri. «Ogni comune o provincia una volta l’anno dovrebbe trasmettere i dati alla regione, a sua volta tenuta a girarli al ministero. Ma non accade». Ci sono Comuni (Roma) che faticano a reperire i dati; altri (Milano) li custodiscono in centinaia di faldoni senza il personale necessario per riversarli su database informatico.
Il caso Messina
Si procede in ordine sparso, a maggior ragione ora che, con il cambio di governo, è stata smantellata la struttura di missione Italia Sicura, il cui ruolo era anche assistere quegli enti - come i piccoli Comuni - privi del personale e delle competenze per gestire le pratiche.
Per di più, della situazione di alcune regioni - Campania, Calabria, Sicilia - si sa poco o nulla perché comuni e province non rispondono alle richieste. E allora non c’è da stupirsi se si verificano disastri: a Messina 26 scuole (una su quattro) sono chiuse perché manca il certificato di vulnerabilità sismica. E circa 10 mila studenti sono ancora a casa.

Corriere 17.9.18
Gite scolastiche: 6.511 bus irregolariautisti ubriachi, omesse revisioni,
gomme lisce, assicurazioni scadute: dai controlli della stradale
il 15 per cento dei mezzi non è sicuro
«Diffidate dei prezzi troppo bassi»
di Milena Gabanelli e Alessio Ribaudo


L’ultimo in ordine di tempo è stato bloccato il 28 maggio a Turano Lodigiano, in Lombardia. Alle 8 del mattino, un conducente di autobus che doveva accompagnare a Genova una scolaresca di 80 bambini, aveva un tasso alcolemico di 1,79 grammi per litro di sangue: era praticamente ubriaco. Secondo il codice della Strada il tasso deve essere zero. Ad aprile, in provincia di Chieti, gli agenti della Stradale hanno fermato, prima della partenza, un bus con due pneumatici completamente lisci e tre cinture di sicurezza rotte. A Torino, invece, un pullman del 1996 era stato riverniciato, ritargato e aveva la revisione scaduta. Purtroppo, non si tratta di tre casi isolati.
Il bilancio dei controlli
Dal febbraio del 2016 al 31 maggio 2018 la Stradale ha controllato il 43 per cento del parco veicolare adibito a trasporto scolastico (43.061 bus) e 6.511 presentavano irregolarità (circa il 15 per cento). «Di questi 31.023 erano stati segnalati dai presidi nell’ambito della campagna “Gite scolastiche in sicurezza” — spiega Roberto Sgalla, a capo di tutte le specialità di polizia — che è nata in collaborazione con il ministero dell’Istruzione».
Ebbene, 3.226 veicoli presentavano un ampio campionario di infrazioni: 1.948 multe sono state comminate per pneumatici lisci, cinture di sicurezza non funzionanti, fari guasti, estintori inefficienti e uscite di sicurezza inagibili. I verbali per mancata revisione sono stati 93; 55 per l’assicurazione e 84 per irregolarità nel servizio di noleggio con conducente. Gli autisti, invece, non avevano rispettato le alternanze fra tempi di guida e riposo 985 volte e avevano superato i limiti di velocità in 739 casi. Sono state infine ritirate 121 patenti e 158 carte di circolazione.
Il giro d’affari e il calo
Secondo i dati dell’Associazione nazionale autotrasporto viaggiatori (Anav) e Isfort, il 96 per cento delle scuole medie e il 54 per cento delle Superiori scelgono l’autobus per le gite, anche per mete estere (55%). Il bacino potenziale coinvolge circa sette milioni di studenti, anche se negli ultimi otto anni c’è stato un calo nelle partecipazioni del 13 per cento. I motivi? I timori dei genitori legati alla sicurezza, la crisi economica e la minore disponibilità degli insegnanti di accollarsi un eccesso di responsabilità.
Le gite e le leggi
Dal 1999, gli istituti hanno piena autonomia e all’inizio dell’anno stabiliscono mete e date. Per la compilazione dei bandi devono rispettare una ragnatela di norme generali, atti negoziali delle istituzioni scolastiche, decreti ministeriali, linee guida dell’Autorità nazionale anticorruzione e del Miur. Per esempio, i dirigenti scolastici «devono accertare con la massima diligenza l’assoluta affidabilità e serietà dell’agenzia di viaggio o della ditta di autotrasporti» e la scelta di un servizio di trasporto deve basarsi «non solo su criteri di carattere economico ma deve tenere in primaria considerazione alcune garanzie di sicurezza». Le gare devono rispettare poi il codice degli appalti e le procedure cambiano a seconda degli importi. Sotto i 2mila euro, la gara si può affidare direttamente; fra i 2mila e i 135 mila euro, ovvero nella maggior parte dei casi, serve la «procedura negoziata semplificata» a cui vanno invitate almeno cinque società.
«I bandi sono spesso diversi fra loro — spiega Simona Bigli del Touring club italiano — e le graduatorie sono stilate sommando i punteggi assegnati, per esempio, alla categoria degli hotel o ai mezzi di trasporto. Alle volte il prezzo ha una valutazione più alta delle altre voci».
La gara si aggiudica con riserva, sino a quando le scuole non ricevono tutta la trafila di documenti, fra cui quelli che attestano la regolarità contributiva dell’impresa, e poi l’assicurazione del mezzo e la revisione. Sulla «carta», quindi, spesso è tutto perfetto.
Le carte in regola ma in strada?
«In strada però poi scopriamo dei “trucchetti” — racconta Luigi Altamura, comandante dei vigili di Verona — come la reimmatricolazione per partecipare a gare che prevedono mezzi più nuovi o autisti pensionati non contrattualizzati, dopolavoristi, o quelli che non rispettano il tempo di pausa obbligatorio perché non hanno accanto il secondo guidatore facoltativo. Per questo le scuole veronesi entro 30 giorni dalla gita, possono scriverci una mail e, mezz’ora prima della partenza, arriva una nostra pattuglia».
Per il presidente di Anav, Giuseppe Francesco Vinella «gli imprenditori scorretti sono pochi ma le scuole devono comunque mettersi in allarme quando il preventivo è troppo basso perché la maggior parte dei costi sono fissi. Spesso la differenza fra una gita insicura e una sicura è di 5 euro a persona. Se consideriamo i morti in incidenti, un viaggio su un bus da turismo è 40 volte più sicuro che in auto». L’Anav lancia un appello al Miur: «Stabiliamo uno schema d’appalto unico che metta dei paletti come l’obbligo di usare mezzi EuroV o VI».
Il ruolo di presidi e insegnanti
Oggi il protocollo «Gite in Sicurezza» suggerisce ai dirigenti scolastici di segnalare alla Stradale del capoluogo di provincia, con qualche giorno di anticipo, la data del viaggio, il tragitto, il numero di alunni e pullman impiegati. Ma non tutti lo fanno. In più, il Miur ha diffuso un vademecum, stilato dalla Stradale insieme all’Anav, che spiega come riconoscere le anomalie del mezzo e invita i docenti a essere «sentinelle» civiche segnalando, durante il viaggio, comportamenti sbagliati dell’autista.
I docenti, però, sono sempre meno disponibili ai viaggi. «E per forza! — tuona Pino Turi, segretario della Uil Scuola — hanno già la responsabilità della scolaresca giorno e notte, senza ricevere un cent in più. Se si aggiunge il ruolo di “sentinella”, si scaricano responsabilità su una figura professionale che non ha competenze per farlo».
Insomma, il rischio è quello di vedere tramontare i viaggi d’istruzione e, con loro, esperienze di alto valore educativo.
Le soluzioni
Come se ne esce? Basterebbe che il Miur, anziché limitarsi al «suggerimento», rendesse «obbligatorio» il protocollo sul controllo dei mezzi la mattina della gita. Magari coinvolgendo pure i carabinieri e i vigili perché, da sole, le pattuglie della Stradale non bastano. Certo, si dirà, l’obbligo va contro l’autonomia delle scuole ma la sicurezza di milioni di ragazzi vale ben più di una deroga.

Corriere 17.9.18
No ai cellulari a scuola? ma la responsabilità è anche dei genitori
di Paolo Di Stefano


L’iniziativa del liceo paritario San Benedetto di Piacenza, bloccare i cellulari dei ragazzi durante le ore di lezione, è ammirevole anche se in realtà l’uso del telefono mobile a scuola sarebbe vietato da una direttiva ministeriale del 2007: ma in tutta evidenza è una norma che viene normalmente aggirata. Fatto sta che il provvedimento di Piacenza gioverà sicuramente alla concentrazione e alla socialità, sarà una sorta di ecologica disintossicazione dall’abuso domestico. Non che la tecnologia sia il male assoluto, ma favorisce comunque alcune cattive abitudini in crescita non solo a scuola e non solo presso la popolazione giovane. I genitori, dal canto loro, approvano la decisione del preside. Una madre ammette che l’uso dello smartphone da parte dei ragazzi è eccessivo e che, grazie alla risoluzione della scuola, sarà meno perseguitata dal figlio abituato a mandarle messaggi ogni ora per dirle di andare a prenderlo prima o di arrivare in orario. «Se sta sempre sul cellulare — aggiunge — non ascolta la lezione». Nel loro candore, queste frasi rivelano ciò che molti padri e madri riscontrano quotidianamente con pudica autocommiserazione: l’impotenza della famiglia nel trovare un rimedio alla bulimia tecnologica dei figli. Dunque, la altrettanto candida speranza (o pretesa) che sia almeno la scuola a porre un argine o un limite alla dipendenza digitale dei pargoli. Ed è curioso (ma non sorprendente) notare come la famosa alleanza educativa funzioni quando diventa una delega di responsabilità.

Il Fatto 17.9.18
Appia scordata e senza fondi. La Grande Bellezza è perduta
Le meraviglie abbandonate - Per la Regina Viarum si è passati dall’idea (sbagliata) Benetton al totale nulla. Però c’è chi combatte
di Tomaso Montanari


“O via Appia, consacrata da Cesare venerato sotto l’effigie di Ercole, tu che superi in celebrità tutte le italiche vie …”: l’invocazione di Marziale risuona oggi come una disperata richiesta di aiuto. Sembra quasi che all’Appia Antica si voglia far pagare il no di quattro anni fa alla Società Autostrade. Pochi oggi lo ricordano, ma nell’estate del 2014 divampò furiosa una battaglia di opinione intorno al tentativo di aggiungere la Regina Viarum al vasto regno dei Benetton.
Lo scopo di Autostrade era evidente: ripulire la propria immagine associandola alla Grande Bellezza. Lo stesso perseguito dalla Fondazione Benetton, che promuove da anni un progetto dedicato all’articolo 9 della Costituzione (i signori dell’asfalto paladini del paesaggio!), e che anche dopo Genova continua a proporre con ammirevole disinvoltura la “cittadinanza attiva attraverso la cultura e il patrimonio artistico”. Ma in quel 2014 la campagna di Autostrade dovette fare i conti con la sollevazione delle associazioni e dei cittadini che hanno a cuore il bene comune. Se mi è permesso, ricordo che io stesso mi chiesi, su questo giornale: “Siamo proprio sicuri che sia opportuno permettere ad Autostrade di sommare al monopolio sulle scelte infrastrutturali strategiche del Paese anche il governo dell’Appia? Ed è giusto che chi mangia (per esempio) il prezioso territorio del Parco Agricolo di Milano Sud con la costruzione della Tangenziale Esterna, voluta da Maurizio Lupi e legata all’Expo, possa poi presentarsi ai cittadini come il generoso paladino del verde dell’Appia?”. Alla fine l’operazione Grand Tour si fermò: ma il prezzo da pagare fu alto, e la vendetta dei vertici del ministero di Dario Franceschini prese le forme più tipiche del non governo democristiano: la più totale inerzia.
Oggi è Rita Paris, l’esemplare archeologa che dirige il Parco dell’Appia Antica, a fare i conti con i danni provocati da questo abbandono politico e da una stagione di riforme concepite in odio alla tutela del patrimonio culturale. Lungo vent’anni Rita Paris ha proseguito le battaglie del grande apostolo dell’Appia, Antonio Cederna: che denunciò con forza i gangsters (parola sua) che avevano ridotto la strada più bella del mondo a “canale di scolo dei nuovi quartieri: tagliata, sminuzzata, sventrata”, e sognò che essa potesse diventare, attraverso un collegamento pedonale continuo con il Colosseo e i Fori Imperiali, un unico grande polmone verde e archeologico per Roma. Ebbene, Paris ha riportato l’Appia alla condizione di monumento, liberandola dall’asfalto su cui sfrecciavano le auto di lusso dei gangsters, scavando, restaurando e acquisendo pezzi di patrimonio, aprendo al pubblico monumenti e siti che prima erano il simbolo del degrado e dello sfregio al patrimonio. E non basta: con un’opera instancabile di comunicazione e di accoglienza, sotto la sua direzione si è messa al centro la creazione e la redistribuzione della conoscenza attraverso un laboratorio continuo indirizzato alla conservazione del patrimonio all’aperto e allo studio del paesaggio, che qui è davvero straordinario. Insomma, un lavoro eccellente: che dimostra che lo Stato può anche funzionare alla grande, pur con mezzi risicatissimi. Ma ora anche quei mezzi sono esauriti: manca il personale, e (a causa del dissennato spezzatino a cui la riforma Franceschini ha ridotto le soprintendenze romane) mancano drammaticamente gli spazi, le sedi e gli strumenti di lavoro, così che anche i nuovi archeologi rimangono inutilizzati.
Soprattutto mancano i finanziamenti: e le conseguenze potrebbero essere drammatiche. Ricordate la scena della Grande Bellezza in cui Anita Kravos prende a testate l’Acquedotto Claudio, uno dei monumenti più celebri dell’Appia? Ebbene, oggi potrebbe essere rischioso anche solo passeggiarci sotto: il collasso dei grandi blocchi che coprono il canale delle acque potrebbe determinare la caduta di frammenti di pietra dalle arcate. E dunque o si interviene subito, o si sarà presto costretti a transennare l’acquedotto: un’immagine devastante, che farebbe il giro del mondo.
Oltre a tamponare le urgenze, e a mettere in sicurezza molti altri luoghi cruciali del Parco, i soldi servirebbero a rendere visibili parti immense del parco: come la straordinaria Villa di Sette Bassi, con un’area archeologica estesa quanto Pompei e oggi del tutto inaccessibile. E poi la ricerca: un lusso che nel patrimonio culturale nessuno può più permettersi. Non si possono catalogare e studiare i nuovi reperti né si riesce a far funzionare l’archivio di Cederna che proprio lì è conservato.
E la divulgazione: le condizioni del bilancio dell’Appia sono tali che non si possono più nemmeno ristampare le guide e l’eccellente materiale didattico. L’aspetto paradossale della vicenda è che i soldi ci sarebbero: a partire dai venti milioni di euro (pari a oltre quindici anni di bilancio dell’Appia!) stanziati (ma mai erogati) dal Ministero per il progetto Appia Regina Viarum nato dall’ispirato libro di Paolo Rumiz: un’esperienza, importante e celebratissima, cui però nulla è seguito. Se il ministro Alberto Bonisoli vuole davvero dare quel segnale di inversione di rotta che stenta a farsi sentire, può cominciare dall’Appia: ascoltando Rita Paris, e dandole gli strumenti per continuare il suo straordinario lavoro.
Quando Cederna fu eletto deputato della Repubblica, la Società Autostrade gli fece recapitare una delle prime mountain bike. Cederna la donò a don Guanella, rispedendone la ricevuta di consegna ad Autostrade: perché non voleva essere in debito con i suoi avversari. Per la sua coerenza Cederna fu sempre un isolato: oggi non vorremmo che fosse l’Appia a dover pagare il prezzo della propria libertà. Che è la nostra.