Il Fatto 16.9.18
“La rivoluzione sulla Carta inizia riconoscendo i diritti sociali”
Prima
di partecipare alla Costituente, Calamandrei licenziò uno scritto
sull’equità, “premessa indispensabile per assicurare a tutti i cittadini
le libertà politiche”
di Piero Calamandrei
Tra
il 1945 e il 1946, poco prima di partecipare ai lavori della
Costituente, Piero Calamandrei scrisse la prefazione a un saggio di
Francesco Ruffini (circolato clandestinamente durante il fascismo), in
cui si interrogava su libertà, giustizia ed equità sociale. Anticipiamo
qui uno stralcio de “L’avvenire dei diritti di libertà”, che torna in
libreria da lunedì con l’introduzione di Enzo Di Salvatore.
Mentre
i tradizionali diritti di libertà hanno carattere negativo, in quanto a
essi corrisponde l’obbligo dello Stato di non ostacolare l’esercizio di
certe attività individuali, i diritti sociali hanno carattere positivo,
in quanto a essi corrisponde l’obbligo dello Stato di rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono alla libera
espansione morale e politica della persona umana. Coi primi si mira a
salvaguardare la libertà del cittadino dalla oppressione politica; coi
secondi si mira a salvaguardarla dalla oppressione economica. Il fine è
lo stesso, cioè la difesa della libertà individuale, ma i mezzi sono
diversi: mentre per soddisfare i diritti sociali lo Stato deve adoprarsi
attivamente per distruggere il privilegio economico e per aiutare il
bisognoso a liberarsi dal bisogno, il compito dello Stato a difesa della
libertà non si racchiude più nella comoda inerzia del laissez faire, ma
implica una presa di posizione nel campo economico ed una serie di
prestazioni attive nella lotta contro la miseria e contro l’ignoranza.
Libertà
di pensiero o di parola vuol dire diritto del cittadino a che lo Stato
non lo perseguiti per le sue opinioni e non lo ostacoli nella pubblica
manifestazione di esse; libertà dal bisogno vuol dire diritto del
cittadino a che lo Stato concorra a fornirgli i mezzi per lavorare e per
assicurargli una vita non bestiale ma umana. Senza l’accompagnamento
dei diritti sociali le tradizionali libertà politiche possono diventare
in realtà strumento di oppressione di una minoranza a danno della
maggioranza: sicché si può dire in conclusione che i diritti sociali
costituiscono la premessa indispensabile per assicurare a tutti i
cittadini il godimento effettivo delle libertà politiche.
I
diritti di libertà nel senso tradizionale costituiscono, per il solo
fatto di trovarsi iscritti nella Costituzione, un impegno immediato
dello Stato di astenersi dal compiere atti che possano turbare, in modo
non consentito dalle leggi, quelle libertà: sono diritti già perfetti ed
attuabili che lo Stato, purché voglia, può immediatamente rispettare e
soddisfare senza fatica e senza spesa, dato che per rispettarli e
soddisfarli le autorità pubbliche non devono far altro che mantenere una
posizione di non intervento e di inerzia che non costa nulla. Ma lo
stesso non si può dire per i diritti sociali: i quali, poiché ad essi
corrisponde da parte dello Stato un obbligo positivo di fare e di dare,
pongono allo Stato, per la loro soddisfazione, una serie di esigenze
pratiche che non possono essere soddisfatte se non disponendo di mezzi
adeguati, conseguibili soltanto a prezzo di profonde trasformazioni dei
rapporti sociali basati sull’economia liberale. Quando si pone nelle
Costituzioni, fra i diritti sociali, il diritto al lavoro o il diritto
all’istruzione gratuita fino alle università per i meritevoli non
abbienti, è chiaro che in questo modo si pongono per lo Stato
formidabili compiti che non possono essere adempiuti coll’inerzia e
coll’astensione. E il vero problema politico, allora, non è quello di
riuscire ad inserire nella Costituzione la enunciazione di questi
diritti, ma è quello di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli e
per evitare che essi rimangano come vuota formula teorica scritta sulla
carta, ma non traducibile nella realtà.
Questa è la ragione per la
quale i diritti sociali che si leggono in molte delle Costituzioni
apparentemente democratiche uscite dalla prima guerra mondiale sono
rimasti nella realtà allo stato di vaghi indirizzi programmatici e di
promesse affidate all’incerto avvenire. Il diritto al lavoro, il diritto
all’assistenza contro la vecchiaia e contro la malattia, il diritto
all’istruzione gratuita sono stati affermati come lontane mete ideali
non ancora raggiunte: la miseria se pure attenuata è rimasta, la
disoccupazione se pur fronteggiata è rimasta, il privilegio
dell’istruzione è rimasto.
La proclamazione dei diritti “sociali”
nella Carta costituzionale rimarrà lettera morta se ad essi non
corrisponderà una trasformazione effettiva della struttura economica
della società, ossia una rivoluzione sociale che fornisca allo Stato i
mezzi per soddisfarli. Quando si è affermato nella Costituzione che
tutti i cittadini hanno diritto al voto, non c’è altro da fare: il
diritto al voto entra senz’altro nel meccanismo costituzionale ed è
senz’altro una realtà politica; ma se nella Costituzione si scrive che
tutti i cittadini hanno diritto al pane, questa non è ancora una realtà
politica, fino a che non si è modificata la struttura economica che
finora ha consentito ai privilegiati la libertà di accumulare ricchezze e
ai diseredati la libertà di morire di fame.
Per questo
l’apparizione dei diritti sociali nelle Costituzioni è, più che il punto
d’arrivo di una rivoluzione già compiuta, il punto di partenza di una
rivoluzione (o di una evoluzione) che si mette in cammino.